2025-11-07
«Oggi nell’Ue non ci sono le condizioni per togliere l’unanimità in Consiglio»
Giovanni Pitruzzella (Ansa)
Il giudice della Consulta Giovanni Pitruzzella: «Non c’è un popolo europeo: la politica democratica resta ancorata alla dimensione nazionale. L’Unione deve prendere sul serio i problemi urgenti, anche quando urtano il pensiero dominante».Due anni fa il professor Giovanni Pitruzzella, già presidente dell’Autorià garante della concorrenza e del mercato e membro della Corte di giustizia dell’Unione europea, è stato designato giudice della Corte costituzionale dal presidente della Repubblica. Ha accettato questo lungo colloquio con La Verità a margine di una lezione tenuta al convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, dal titolo «Il problema della democrazia europea».Professore, nel suo intervento al convegno di Torino ha delineato una rappresentazione non pacificata del rapporto tra il costituzionalismo degli Stati e lo spazio del cosiddetto diritto europeo. Rifacendosi alla lettura di Joseph Weiler, lei nota come il diritto comunitario si sia di fatto sviluppato per via giurisprudenziale più che politica. Si potrebbe quindi dire che il vero federalismo si è realizzato con le Corti, mentre l’assetto «politico» dell’Ue è rimasto di fatto intergovernativo? È questo il vero «deficit democratico» dell’Ue, prima ancora che le deboli prerogative del Parlamento Ue?«Nella fase fondativa della Comunità, la Corte di giustizia ha introdotto tanto il principio degli effetti diretti delle disposizioni del diritto comunitario, sufficientemente precise e incondizionate, quanto quello del suo primato rispetto al diritto nazionale. Pertanto, i privati possono agire davanti ai giudici nazionali per far valere il diritto comunitario e, in caso di conflitto tra esso e la legge nazionale, i giudici applicano il primo e disapplicano la seconda. Tutto ciò evita di affidare al recepimento da parte dello Stato l’operatività del diritto dell’Unione, con l’obiettivo di ostacolare i comportamenti opportunistici da parte del singolo Stato, che altrimenti potrebbe applicare le regole che gli convengono e non le altre, pregiudicando l’eguaglianza e la solidarietà tra gli Stati membri. Il risvolto della medaglia è che i popoli europei si trovano sottoposti a un diritto che proviene da un altro ordinamento, e che prevale sulla legge approvata dai loro Parlamenti». Come si concilia questa dinamica con il principio democratico? «La risposta inizialmente stava nella circostanza che gli Stati avevano approvato il diritto comunitario, grazie alla regola dell’unanimità in Consiglio, dove sono rappresentati i loro governi. Ma, con l’allargamento dell’Europa a nuovi Paesi e con l’accrescimento delle sue competenze, si è progressivamente introdotta la maggioranza qualificata come regola decisionale, mantenendo l’unanimità solo in campi ben circoscritti. Inoltre, il diritto europeo va interpretato e le istituzioni sovranazionali sovente hanno dato interpretazioni evolutive, ampliando notevolmente l’ambito delle competenze dell’Unione. Il problema della legittimazione si è così riproposto, e per affrontarlo si è rafforzato il ruolo del Parlamento europeo, eletto direttamente dai cittadini europei. Con il trattato di Lisbona, esso è diventato il “co-legislatore” necessario, insieme al Consiglio, salvo eccezioni. Ma questa strategia si è rivelata insufficiente, come è dimostrato dallo sviluppo di partiti populisti antieuropei che, in nome del principio democratico, rivendicano una maggiore autonomia rispetto a Bruxelles». Ma in quali soggetti va cercata la forza motrice della creazione di questo spazio giuridico privo di un vero «potere costituente»? Accademia, Corti stesse, burocrazie Ue? Si tratta di soggetti con accountability rispetto agli effetti politici delle loro scelte?«L’integrazione europea è necessaria. Lo era dopo la seconda guerra mondiale per assicurare la pace tra Stati che avevano passato gran parte della loro storia a farsi la guerra e per promuovere il benessere economico. Lo è ancora più oggi, quando gli Stati sono troppo piccoli per affrontare le sfide epocali che hanno davanti. Ma l’Europa non galleggia nel vuoto; piuttosto ha bisogno di forze materiali e ideali a cui appoggiarsi. Vi è nella dinamica dell’integrazione una tensione ineliminabile: da una parte c’è bisogno dell’Europa per non precipitare nella “democrazia dell’impotenza”; dall’altra, occorre assicurarne la legittimazione democratica. La legittimazione tecnica ha mostrato la corda, perché le questioni da affrontare - si pensi al problema delle migrazioni - sono sempre di più intrise di politicità. Anche estendere all’Unione il modello usato per gli Stati e quindi rafforzare il ruolo del Parlamento europeo non è sufficiente perché, non esistendo un popolo europeo e una sfera pubblica europea, l’elezione diretta non ha la stessa carica legittimante che ha nell’ambito nazionale. Quando gli italiani hanno votato per il rinnovo del Parlamento europeo avevano in mente Meloni, Schlein, Tajani, Salvini, Conte, Renzi e così via, ma non pensavano a Ursula von der Leyen e alla formazione della Commissione europea. La politica democratica resta ancorata alla dimensione nazionale. Per questa ragione, occorre rafforzare le connessioni dell’Unione con le democrazie nazionali e assicurare spazi adeguati di autonomia a queste ultime, quando non ci sono esigenze funzionali che giustificano lo spostamento di competenze a livello europeo».Negli ultimi anni si è molto parlato dello «Stato di diritto», la cui mancata attuazione - penso ai casi di Polonia e Ungheria - può essere sanzionata. Domanda banale: l’interpretazione dei «valori» alla sua base, descritti dall’articolo 2 del Tfue, come può essere univocamente definita quando, per esempio, essa riguarda temi etici su cui evidentemente i Paesi membri esprimono sensibilità o ordinamenti divergenti? «Lo Stato di diritto è uno dei valori su cui si fonda l’Europa. Esso non è imposto dall’esterno, ma appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Garantisce le nostre libertà perché, esigendo che qualsiasi restrizione delle stesse debba essere prevista in via generale dalla legge e applicata da giudici indipendenti, costituisce un baluardo contro l’arbitrio. Inoltre, permette il calcolo economico razionale che sta alla base degli investimenti e dei comportamenti di mercato delle imprese. Infine, è necessario per l’integrazione europea, perché questa si realizza in gran parte attraverso il diritto, e perciò richiede il rispetto del principio di legalità e la garanzia che ad applicarlo siano giudici indipendenti. Altra cosa è se si intende estendere il catalogo dei diritti, senza una precisa base testuale, regolando a livello europeo questioni eticamente controverse nelle società nazionali. Simili sviluppi sono pericolosi perché possono essere percepiti da parti consistenti di tali società come l’imposizione di una scelta etica non condivisa, indebolendo la legittimazione dell’Unione».Lei da due anni precisi è giudice della Corte costituzionale. Ritiene che, rispetto ad altri organi equivalenti in Europa, il sistema italiano si sia mostrato nel suo complesso più «arrendevole» nel porsi la questione dell’attrito tra diritto comunitario e nazionale? Ad esempio, la Slovacchia ha sancito la prevalenza del diritto nazionale su quello comunitario, mentre noi diamo per assodato il contrario. Perché?«La Corte costituzionale si è sempre comportata con saggezza. Dopo un lungo “cammino comunitario”, con la sentenza Granital del 1984, ha riconosciuto i principi del primato e dell’effetto diretto. Con quella sentenza, però, si era tagliata fuori dal controllo sulla compatibilità comunitaria della legge, lasciato ai giudici comuni, e quindi anche dal dialogo con la Corte di giustizia, che si realizza attraverso il rinvio pregiudiziale con cui il giudice chiede a quest’ultima l’interpretazione del diritto dell’Unione, per poi verificare se il diritto nazionale sia o meno con esso compatibile. Oggi, invece, la Corte costituzionale ritiene di poter verificare se una legge contrasta con il diritto comunitario, allorché un giudice decida di sottoporle una questione di costituzionalità di una legge che, violando il diritto dell’Unione, viola al contempo la Costituzione, la quale impone il rispetto degli obblighi comunitari. La Corte, in tal caso, può effettuare il rinvio pregiudiziale proponendo, però, alla Corte di giustizia un’interpretazione del diritto dell’Unione che lo armonizzi con le esigenze costituzionali nazionali. La collaborazione leale tra le Corti dovrebbe stare alla base della formazione di uno spazio costituzionale comune all’Unione e agli Stati membri».Sempre nel suo intervento, lei sembra proporre una lettura piuttosto antitetica a quella comune sul cosiddetto «populismo»: le forze anti-Ue vedrebbero crescere i loro consensi a causa della mancata considerazione della «voce» dei popoli nello spazio giuridico europeo, sempre più cogente per la vita degli Stati membri. Tali dinamiche elettorali sarebbero quindi più conseguenza che causa di una crisi di legittimazione dell’Ue: è così? E allora, che compito spetta alla politica?«L’Unione deve restare connessa alle democrazie nazionali e quindi deve prendere sul serio i problemi che i popoli europei percepiscono come urgenti, anche quando urtano il “pensiero dominante”. Con un’eccezione: non possono trovare spazio quei comportamenti che contraddicono i principi della democrazia, dello Stato di diritto, della libertà, del pluralismo, su cui gli Stati membri hanno liberamente deciso di fondare l’integrazione dei loro ordinamenti».Cosa implica, concretamente, la considerazione per cui l’Unione non può realizzarsi senza, né contro, le democrazie nazionali? Lei propone un «costituzionalismo collaborativo», ma chi sono i soggetti di tale collaborazione? E, in caso di conflitto, a chi spetta l’ultima parola?«La politica democratica si svolge soprattutto nelle comunità nazionali. Perciò l’Unione deve dare massimo risalto al rapporto con le stesse. La sua legittimazione non può fare a meno del metodo intergovernativo e del ruolo del Consiglio europeo, dove si trovano i capi di Stato o di governo, e del Consiglio, formato dai ministri degli Stati membri. Bisogna valorizzare sia il principio di sussidiarietà e il controllo del suo rispetto, affidato ai Parlamenti nazionali, sia i “procedimenti euronazionali”, come quelli usati per il Pnrr, in cui il singolo governo stipula una specie di contratto con la Commissione, sia la cooperazione tra i Parlamenti nazionali e il Parlamento europeo. Questo è un “costituzionalismo collaborativo”, le cui parti devono essere disponibili all’ascolto e all’apprendimento reciproco. In caso di conflitto insanabile l’ultima parola spetta, però, a chi ha giuridicamente la competenza».Rispetto ai problemi individuati nel suo già citato contributo , ritiene che l’ulteriore allargamento di ambiti su cui non prevedere il voto all’unanimità in sede di Consiglio Ue sia una soluzione o un loro potenziale inasprimento?«Non sembrano esserci le condizioni per eliminare del tutto la regola dell’unanimità. Ma si possono formare coalizioni di Stati che hanno l’effettiva volontà di realizzare, in campi specifici, una maggiore integrazione. I trattati già prevedono il meccanismo delle “cooperazioni rafforzate”».
Massimo Doris (Imagoeconomica)
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