2023-02-19
Sull’Ucraina confronto impossibile. Fa gola il business della ricostruzione
Le reazioni del presidente del Ppe alle frasi di Silvio Berlusconi confermano l’inviolabile tabù dell’appoggio a Kiev pur di continuare una guerra che ha «messo il turbo» alla rivoluzione green. Un altro bel giro di denaro.All’improvviso, Silvio Berlusconi è ritornato un paria. Il Partito popolare europeo ha deciso di stringergli attorno una sorta di cordone sanitario, annullando un importante evento, le giornate di studio in programma a Napoli dal 6 al 9 giugno a Palazzo Reale, che avrebbero dovuto avere tra gli ospiti anche Ursula von der Leyen. Secondo il presidente del Ppe, Manfred Weber, «il supporto per l’Ucraina non è facoltativo», da qui la decisione di sanzionare il Cav rifiutando addirittura la visita italiana. A prima vista, la questione è vagamente surreale, per vari motivi. Il primo è che, all’interno dei partiti - italiani o europei che siano - il confronto, anche aspro, dovrebbe essere la prassi. Questo ci hanno insegnato i poderosi e litigiosi congressi della prima repubblica, questo ci ripetono con insistenza i progressisti italici quando magnificano le primarie, competizione interna in cui i candidati si menano come fabbri (la sfida in corso tra Elly Schlein e Stefano Bonaccini lo dimostra chiaramente). Eppure, a quanto pare, sulla guerra in Ucraina un confronto politico non è possibile, non si può nemmeno auspicarlo. Berlusconi, in fondo, ha fatto questo e non altro: ha espresso una posizione politica, per altro probabilmente condivisa da una larga fetta di italiani.Lui stesso lo ha ribadito rispondendo a Weber: «Con il mondo sull’orlo di una guerra nucleare tra Russia e i Paesi della Nato, io vengo criticato perché sto chiedendo che insieme ai sostegni per l’Ucraina, da sempre condivisi e votati da Forza Italia, si apra immediatamente un tavolo per arrivare alla pace. Questo è un dovere per un partito come il Ppe. Ritengo che il tema non sia più rinviabile e chiedo che venga messo subito all’ordine del giorno nelle riunioni del Ppe». Potrà non piacere il modo in cui Silvio si è espresso, e potrà certo non piacere lui, ma sul punto è difficile dargli torto. La scelta del Ppe, e l’enfasi con cui è stata accolta in Italia, esprimono poi una ulteriore contraddizione. In passato, non si può dire che il Cav abbia lesinato sulle uscite scoppiettanti, e di sicuro non gli sono state estranee le gaffe. Eppure non si ricordano prese di posizione tanto determinate e fin violente da parte dei suoi alleati europei. Posizioni che risultano ancora più stridenti nel momento in cui tutto il partito di Berlusconi, a partire dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, si è affrettato a prendere le distanze dalle affermazioni sull’Ucraina, e ha sempre votato a favore di tutti i provvedimenti a sostegno della causa di Zelensky (cosa che, al massimo, svela cortocircuiti fra gli azzurri e il loro capo, ma non cedimenti di Forza Italia sul sostegno Kiev). Aggiungiamo un altro elemento. Fino a qualche tempo fa - come testimoniano pure le dichiarazioni dei politici italiani intorno al 2021 e perfino prima - Silvio è stato considerato un rilevante tassello nella lotta europea contro il presunto sovranismo montante. Per dirla semplice: quando serviva come argine moderato a Matteo Salvini e Giorgia Meloni, tutto gli era perdonato e anzi lo si incensava quale statista. Ora, per un ragionamento politico e non per qualche intemerata delle sue, ecco che torna il pericoloso nemico pubblico numero uno, al punto da venire isolato addirittura fisicamente. Ovviamente si può rintracciare qui il consueto disprezzo della coerenza e del ridicolo che non da oggi caratterizza i rappresentanti politici italiani e comunitari, specie sul fronte liberal-progressista: quando uno mi fa comodo, è autorizzato a tenere qualunque comportamento, anche il peggiore, ma qualora non mi serva più se ne vada pure dritto al macero. In questo caso, però, c’è qualcosa di più. Emerge un dato incontrovertibile: l’unico diktat che nell’Ue non si può nemmeno sognare di contestare, l’unico tabù realmente inviolabile ha a che fare con l’appoggio all’Ucraina. Ne fornisce prova la vicenda umana e politica di Ursula von der Leyen. Indebolita dagli scandali che hanno travolto il Parlamento europeo e lambito la commissione, a sua volta protagonista di una vicenda vergognosa come il Pfizer gate (che le è costato una azione legale da parte del New York Times, niente meno), riesce comunque a tenere botta, traballa ma non cade. Anche grazie alla posizione del tutto intransigente su Kiev. Ancora ieri, la signora ribadiva la linea nel corso di un panel internazionale, invitando a potenziare addirittura gli sforzi militari. «Assolutamente», ha detto snocciolando un avverbio sintomatico, «dobbiamo raddoppiare e dobbiamo continuare il massiccio sostegno che è necessario, che questi piani imperialisti di Putin falliscano definitivamente, questo è un obiettivo, e permettere all’Ucraina di vincere». È del tutto evidente che non sia un ragionamento politico: frasi come questa ci vengono ripetute da un anno, e i risultati li abbiamo sotto gli occhi. Il logoramento è continuo, l’Ucraina è devastata, l’intera Europa paga conseguenze pesantissime. Ma niente, tocca andare avanti e rincarare la dose. Anche la robusta Germania, sebbene non così ferrigna come ai tempi di Angela Merkel, ha dovuto chinare il capo settimane fa e acconsentire all’invio di mezzi corazzati. Ecco, è il segno che su tutto - o almeno su tanto - si può dissentire ma non sulla questione più rilevante per i nostri destini. Forse troppi interessi ci sono in ballo. Innanzitutto c’è il goloso business della ricostruzione. La settimana scorsa, notava ieri il New York Times, a Varsavia si sono riunite 300 compagnie da 22 nazioni per discutere le «opportunità di investimento». Centinaia di aziende da tutta Europa stanno cercando di entrare nella partita. Zelensky ha già firmato accordi con Blackrock, partecipa a meeting sotto l’egida di Jp Morgan. Facile che prima si debba pensare alla spartizione e solo poi si possa immaginare una tregua. Poi ci sono, come dire, gli effetti secondari. Questa settimana l’Economist ha ricordato che la guerra ha «messo il turbo» alla rivoluzione green, un altro bel giro di soldi. Non deve stupire troppo, dunque, che parlare di trattative e di pace sia sconveniente in questo momento. E di tutte le cose (anche molto) sconvenienti che Silvio Berlusconi ha detto nella sua lunga carriera, quella su Zelensky è forse la più problematica. Che poi - casualità - sia giusta e condivisa dal popolo, non frega nulla a nessuno.
Romano Prodi e Mario Draghi (Ansa)