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2021-08-29
Uccisi due capi Isis. Biden teme attentati sul suolo americano
L'arrivo all'aeroporto internazionale di Washington Dulles a Chantilly in Virginia di alcuni profughi afghani (Ansa)
«Non perdoneremo, non dimenticheremo, vi daremo la caccia e ve la faremo pagare», aveva promesso giovedì sera il presidente statunitense Joe Biden in mondovisione. Parole che, come ha notato il New York Times, ricordavano quelle pronunciate dall'allora presidente George W. Bush dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001.
La vendetta degli Stati Uniti per l'attentato che giovedì ha causato la morte di circa 200 persone tra cui 13 soldati americani nei pressi dell'aeroporto di Kabul, in Afghanistan, è arrivata a poco più di 36 ore di distanza. «Due obiettivi di alto profilo dello Stato islamico sono stati uccisi e uno è stato ferito», ha spiegato ieri il maggior generale William Taylor, numero due dello Stato maggiore congiunto americano, aggiungendo alcuni dettagli rispetto alle iniziali informazioni fornite dal Pentagono. «Non siamo a conoscenza di vittime civili», ha aggiunto.
L'attacco con un drone, un MQ-9 Reaper, è avvenuto nelle prime ore di ieri mattina contro un compound nell'area di Jalalabad, non lontano dal confine con il Pakistan, lì dove lo Stato islamico nel Khorasan era più radicato prima di essere cacciato dall'offensiva dell'esercito afgano prima e dei talebani poi. È la stessa area in cui Osama Bin Laden aveva aperto le prime basi della sua organizzazione terroristica, Al Qaeda, quella che pianificò gli attentati contro l'America l'11 settembre di vent'anni fa.
Uno degli obiettivi, di cui non sono state diffuse le generalità, era già noto da tempo all'intelligence statunitense, hanno riferito le forze americane. Ma a seguito dell'attentato a Kabul (su cui su servirà far chiarezza anche alla luce di quanto raccontato ieri dalla Bbc, secondo cui «molte» delle persone morte «sono state uccise dai soldati americani» nella calca e nella confusione seguita alle esplosioni) sarebbero state raccolte nuove informazioni che avrebbero giustificato il blitz: sarebbe lui la «mente» dell'attacco.
Gli Stati Uniti avrebbero aspettato che moglie e figli del soggetto uscissero dal compound per entrare in azione, hanno riferito fonti alla Cnn. Secondo alcune ricostruzioni l'uomo sarebbe stato colpito dal drone mentre si trovava a bordo di un veicolo con un altro terrorista, in una zona isolata. L'obiettivo era anche «associato al pericolo di nuovi attacchi all'aeroporto» di Kabul, dove sono ancora in corso le operazioni di evacuazione in vista del ritiro del 31 agosto, hanno aggiunto le stesse fonti.
Gli Stati Uniti continuano a temere un nuovo attentato contro lo scalo. Ma a questi timori si aggiungono anche quelli su suolo americano. Il dipartimento per la Sicurezza interna degli Stati Uniti sta monitorando tre minacce principali, incluso il rischio che individui associati allo Stato islamico o ad Al Qaeda possano sfruttare il processo di ricollocazione dall'Afghanistan per infiltrarsi nel Paese. «È in corso un approfondito screening di chi entra», ha detto in una riunione tra i vertici della Sicurezza interna il capo dell'intelligence, John Cohen, secondo quanto riportato dalla Cnn.
Ma la vendetta americana potrebbe non essere finita qui. Politico ha rivelato che il presidente Biden ha dato luce verde al Pentagono per attacchi contro obiettivi legati allo Stato islamico nel Khorasan senza dover attendere l'approvazione della Casa Bianca. L'indicazione del presidente «è di farlo e basta», ha detto una fonte. «Quando ne prendi uno, diventano maldestri, e questo ti permette di trovarne altri», ha aggiunto. Ieri un portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca ha ricordato quanto dichiarato nei giorni scorsi dal maggior generale William Taylor: «Abbiamo risorse e capacità per eseguire qualsiasi tipo di operazione come richiesto».
Intanto, venerdì sera, poco dopo l'Italia, anche la Francia ha concluso le operazioni di evacuazione che hanno portato in salvo circa 3.000 persone in due settimane, da quando cioè anche la capitale afgana è caduta nelle mani dei talebani. Ieri, invece, è partito da Kabul l'ultimo volo militare britannico dedicato all'evacuazione dei civili. Le ultime ore, ha spiegato il generale Nick Carter, capo delle forze armate del Regno Unito, a Bbc Radio 4, serviranno per «far uscire le nostre truppe con gli aerei rimanenti». Su quei voli, hanno riferito fonti della Difesa britannica ai media internazionali, potrebbe essere imbarcato anche un piccolo numero di civili. In totale il Regno Unito ha messo in salvo quasi 15.000 persone da Kabul.
Ma il tempo sta per scadere anche per gli Stati Uniti. Martedì è fissata la deadline per il ritiro delle truppe, ribadita più volte negli ultimi giorni sia dall'amministrazione Biden sia, a mo' di avvertimento, dai talebani. E così venerdì le forze americane hanno distrutto la l Eagle Base, ex fabbrica di mattoni trasformata in ultimo quartier generale della Cia a Kabul. Obiettivo: evitare che informazioni e apparecchiature finiscano in mano ai talebani o ai gruppi terroristici. Ieri, invece, le truppe americane hanno iniziato a lasciare Kabul, come ha confermato il portavoce del Pentagono, John Kirby, senza però fornire cifre.
L’allarme sottovalutato di tre mesi fa: «Aiutanti a rischio, bisogna salvarli»
La rabbia è un eufemismo davanti al mattatoio e alla trappola in cui sono imprigionati milioni di afgani e la credibilità dell'intero Occidente. Che senza un piano serio e condiviso per mettere in salvo i civili che hanno collaborato con noi si sarebbe aperto l'inferno, lo si sapeva. Perfettamente e con largo anticipo. «Signor presidente» metteva in guardia un appello il primo giugno firmato da 17 organizzazioni indirizzato a Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, ma anche alla Nato, «il tempo sta scadendo per proteggere gli afgani alleati della Nato». E avvertiva molto chiaramente che con l'accelerazione in atto nel lasciare il Paese, «entro l'11 settembre» secondo la data inizialmente prevista, rimanevano 30 giorni: «Chiediamo ai Paesi membri della Nato di agire immediatamente per evacuare i civili coinvolti localmente e le loro famiglie per garantire che coloro hanno protetto le nostre vite siano al sicuro dalle rappresaglie». Nero su bianco, data 1° giugno 2021. La lettera è firmata da «Human Rights First» («Prima i diritti umani») e da altre 16 associazioni umanitarie, di veterani, americane, tedesche, olandesi, francesi, organizzazioni internazionali, Amnesty International. È rivolta all'inquilino della Casa Bianca ma chiama in causa direttamente l'Alleanza Atlantica e in copia è stata inoltrata al segretario generale della Nato, Jens Stoltberg, e ai capi degli Stati membri. Sì, Italia compresa. È la prova abbastanza sconvolgente che oltre al fallimento politico, umano e personale di Biden le responsabilità del tradimento nei confronti degli afgani sono più complesse ed estese, e riguardano anche Roma.
Il documento precisa che l'allarme nasce dallo stretto contatto che le organizzazioni firmatarie hanno mantenuto con gli afgani «le cui vite sono a rischio». Temono – con sacrosanta ragione – di essere esclusi «dall'ambizione Nato di restare uniti nel lasciare insieme» il Paese: «Hanno paura di essere abbandonati non solo per la mancanza di criteri» unici per l'evacuazione dei civili «ma anche perché il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza (già a giugno, ndr) rende difficile viaggiare» e sbrigare le procedure burocratiche «per ottenere i documenti in tempo».
Come dicevamo, il testo oltre che a Biden in copia è stato inviato anche al presidente canadese, a quello australiano, ad Angela Merkel, Boris Johnson, Emmanuel Macron. E a Sergio Mattarella, presidente della Repubblica. Ecco, gentile signor presidente Mattarella, come Biden lo è per quelle statunitensi, lei è il capo supremo delle forze armate italiane. Ha idea perché questo allarme sia stato sottovalutato? Lei non ha avuto modo di leggerlo? Non è mai arrivato? I suoi ottimi consiglieri, a cominciare da quello agli affari militari, non l'hanno avvertita, o lo hanno ritenuto ingiustificato?
Se possibile anche più incisivo è l'appello rivolto al presidente Usa ancora prima, addirittura il 10 maggio, questo firmato da 16 associazioni di veterani americani. Ricordano a Biden che in Afghanistan «i nostri sforzi sono stati possibili solo perché gli alleati locali ci hanno aiutato a fare quel lavoro». «Il futuro di un'intera generazione di afgani che hanno creduto e lavorato con noi è a rischio». Dieci maggio.
Anzi, la lettera mette i brividi. «La nostra esperienza ci dice che il Dipartimento della Difesa può fare questo sforzo», soprattutto i veterani elencano i numeri di altre crisi. Nel 1975 l'amministrazione Ford portò in salvo 130.000 vietnamiti, nel 1996 la presidenza Clinton aviotrasportò negli Usa «migliaia di iracheni dal Nord Iraq», nel 1999 20.000 kosovari vennero assistiti e accolti negli Stati Uniti. Al Colle (ma anche a Palazzo Chigi, alla Farnesina, al ministero della Difesa) l'avranno letta? L'appello del primo giugno, quello inviato anche a Mattarella, indica in modo pragmatico che cosa si sarebbe dovuto fare: un piano di accoglienza «flessibile e generoso» perché i collaboratori afgani sarebbero diventati bersagli «indipendentemente dalla data e dall'importanza del loro impiego»; qualora il numero di richieste fosse diventato enorme portare subito i civili in luoghi sicuri dove poter procedere in sicurezza ai controlli e al rilascio dei visti. Quindi la conclusione profetica: senza uno sforzo coordinato, non solo gli Usa, «la Nato rischia di tradire la sua promessa che il ritiro dal Paese sarà ordinato e deliberato». Niente di tutto questo è stato fatto, nonostante già dalla fine di giugno l'Italia abbia evacuato i primi collaboratori ex Nato dall'Afghanistan. Anzi, è stato fatto il contrario. Nessuno ovviamente muove addebiti personali al presidente Mattarella. Aver portato in salvo altre 4.000 persone negli ultimi dieci giorni è un miracolo, garantito dai nostri militari, dai nostri corpi speciali e dalla nostra intelligence. Ma qualche spiegazione e informazione in più dal Quirinale può aiutare. A capire prima di tutto perché quello che si sarebbe dovuto fare non è stato fatto, prima ancora di individuare le responsabilità che oltre al campione di inconsistenza Biden sono con tutta evidenza articolate ed estese. Lo dobbiamo ai nostri amici afgani traditi e ai nostri caduti.
Cina e Usa si riavvicinano (un po’)
La crisi afghana sta avvicinando Stati Uniti e Cina? Secondo quanto riferito ieri dal South China Morning Post, una fonte vicina all'Esercito popolare di liberazione ha confermato che – la settimana scorsa – sono ripresi colloqui ad alto livello tra i vertici militari dei due rispettivi Paesi. Si tratta della prima volta da quando Joe Biden è diventato presidente degli Stati Uniti. La testata ha in particolare sottolineato che «la crisi dell'Afghanistan è stato il problema più urgente discusso nella videoconferenza della scorsa settimana tra il maggiore generale Huang Xueping […] e il suo omologo del Pentagono, Michael Chase».
Insomma, sembrerebbe che Washington e Pechino stiano tentando una manovra di avvicinamento, nel tentativo di gestire il caos afghano. Il che potrebbe costituire una sorta di preludio al G20 straordinario che Mario Draghi punta a organizzare per il mese prossimo: un G20 in cui il nostro premier mira al coinvolgimento di un elevato numero di attori internazionali. Ecco che dunque, in un simile quadro, la ripresa dei colloqui tra i vertici militari di Washington e Pechino potrebbe andare nella direzione auspicata da Draghi. Del resto, dopo l'apertura incassata da Russia e India, sembrerebbe che il premier avrà un colloquio telefonico con il presidente cinese Xi Jinping il 3 o il 4 settembre. Un colloquio che costituirà probabilmente il vero punto di svolta nell'organizzazione di questo G20.
Certo, il premier dovrà fare molta attenzione, perché si sta muovendo su un terreno scosceso. Se è vero che i colloqui militari sino-americani gli offrano in parte una copertura politica oltreatlantico, è altrettanto vero che i rapporti tra Washington e Pechino continuino a rivelarsi particolarmente tesi. Proprio ieri il ministero della Difesa cinese ha protestato contro il passaggio di una nave da guerra statunitense nelle acque dello stretto di Taiwan. Inoltre, Washington e Pechino nutrono interessi divergenti in Afghanistan. Se la Cina punta a fare la parte del leone nella ricostruzione economica del Paese, non è escluso che i servizi segreti statunitensi puntino a instaurare canali sotterranei con alcuni pezzi del composito fronte talebano per destabilizzare lo Xinjiang. La partita è quindi pericolosamente aggrovigliata. Per questo Draghi deve muoversi con estrema cautela.
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Riduci
Uno dei bersagli sarebbe la «mente» del raid all'aeroporto. Il timore degli 007: possibili terroristi infiltrati tra i profughi.A giugno 17 organizzazioni sollecitarono una via d'uscita per i collaboratori Nato. La richiesta di intervento inoltrata alle cancellerie continentali e anche al Quirinale.I massimi vertici militari di Cina e Stati Uniti hanno ripreso a parlarsi per gestire la crisi. Il premier italiano sentirà Xi Jinping, attesa per la decisione di Pechino sul summit.Lo speciale contiene tre articoli.«Non perdoneremo, non dimenticheremo, vi daremo la caccia e ve la faremo pagare», aveva promesso giovedì sera il presidente statunitense Joe Biden in mondovisione. Parole che, come ha notato il New York Times, ricordavano quelle pronunciate dall'allora presidente George W. Bush dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001.La vendetta degli Stati Uniti per l'attentato che giovedì ha causato la morte di circa 200 persone tra cui 13 soldati americani nei pressi dell'aeroporto di Kabul, in Afghanistan, è arrivata a poco più di 36 ore di distanza. «Due obiettivi di alto profilo dello Stato islamico sono stati uccisi e uno è stato ferito», ha spiegato ieri il maggior generale William Taylor, numero due dello Stato maggiore congiunto americano, aggiungendo alcuni dettagli rispetto alle iniziali informazioni fornite dal Pentagono. «Non siamo a conoscenza di vittime civili», ha aggiunto.L'attacco con un drone, un MQ-9 Reaper, è avvenuto nelle prime ore di ieri mattina contro un compound nell'area di Jalalabad, non lontano dal confine con il Pakistan, lì dove lo Stato islamico nel Khorasan era più radicato prima di essere cacciato dall'offensiva dell'esercito afgano prima e dei talebani poi. È la stessa area in cui Osama Bin Laden aveva aperto le prime basi della sua organizzazione terroristica, Al Qaeda, quella che pianificò gli attentati contro l'America l'11 settembre di vent'anni fa.Uno degli obiettivi, di cui non sono state diffuse le generalità, era già noto da tempo all'intelligence statunitense, hanno riferito le forze americane. Ma a seguito dell'attentato a Kabul (su cui su servirà far chiarezza anche alla luce di quanto raccontato ieri dalla Bbc, secondo cui «molte» delle persone morte «sono state uccise dai soldati americani» nella calca e nella confusione seguita alle esplosioni) sarebbero state raccolte nuove informazioni che avrebbero giustificato il blitz: sarebbe lui la «mente» dell'attacco.Gli Stati Uniti avrebbero aspettato che moglie e figli del soggetto uscissero dal compound per entrare in azione, hanno riferito fonti alla Cnn. Secondo alcune ricostruzioni l'uomo sarebbe stato colpito dal drone mentre si trovava a bordo di un veicolo con un altro terrorista, in una zona isolata. L'obiettivo era anche «associato al pericolo di nuovi attacchi all'aeroporto» di Kabul, dove sono ancora in corso le operazioni di evacuazione in vista del ritiro del 31 agosto, hanno aggiunto le stesse fonti.Gli Stati Uniti continuano a temere un nuovo attentato contro lo scalo. Ma a questi timori si aggiungono anche quelli su suolo americano. Il dipartimento per la Sicurezza interna degli Stati Uniti sta monitorando tre minacce principali, incluso il rischio che individui associati allo Stato islamico o ad Al Qaeda possano sfruttare il processo di ricollocazione dall'Afghanistan per infiltrarsi nel Paese. «È in corso un approfondito screening di chi entra», ha detto in una riunione tra i vertici della Sicurezza interna il capo dell'intelligence, John Cohen, secondo quanto riportato dalla Cnn.Ma la vendetta americana potrebbe non essere finita qui. Politico ha rivelato che il presidente Biden ha dato luce verde al Pentagono per attacchi contro obiettivi legati allo Stato islamico nel Khorasan senza dover attendere l'approvazione della Casa Bianca. L'indicazione del presidente «è di farlo e basta», ha detto una fonte. «Quando ne prendi uno, diventano maldestri, e questo ti permette di trovarne altri», ha aggiunto. Ieri un portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca ha ricordato quanto dichiarato nei giorni scorsi dal maggior generale William Taylor: «Abbiamo risorse e capacità per eseguire qualsiasi tipo di operazione come richiesto».Intanto, venerdì sera, poco dopo l'Italia, anche la Francia ha concluso le operazioni di evacuazione che hanno portato in salvo circa 3.000 persone in due settimane, da quando cioè anche la capitale afgana è caduta nelle mani dei talebani. Ieri, invece, è partito da Kabul l'ultimo volo militare britannico dedicato all'evacuazione dei civili. Le ultime ore, ha spiegato il generale Nick Carter, capo delle forze armate del Regno Unito, a Bbc Radio 4, serviranno per «far uscire le nostre truppe con gli aerei rimanenti». Su quei voli, hanno riferito fonti della Difesa britannica ai media internazionali, potrebbe essere imbarcato anche un piccolo numero di civili. In totale il Regno Unito ha messo in salvo quasi 15.000 persone da Kabul.Ma il tempo sta per scadere anche per gli Stati Uniti. Martedì è fissata la deadline per il ritiro delle truppe, ribadita più volte negli ultimi giorni sia dall'amministrazione Biden sia, a mo' di avvertimento, dai talebani. E così venerdì le forze americane hanno distrutto la l Eagle Base, ex fabbrica di mattoni trasformata in ultimo quartier generale della Cia a Kabul. Obiettivo: evitare che informazioni e apparecchiature finiscano in mano ai talebani o ai gruppi terroristici. Ieri, invece, le truppe americane hanno iniziato a lasciare Kabul, come ha confermato il portavoce del Pentagono, John Kirby, senza però fornire cifre.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/uccisi-capi-isis-biden-attentati-2654825806.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lallarme-sottovalutato-di-tre-mesi-fa-aiutanti-a-rischio-bisogna-salvarli" data-post-id="2654825806" data-published-at="1630180255" data-use-pagination="False"> L’allarme sottovalutato di tre mesi fa: «Aiutanti a rischio, bisogna salvarli» La rabbia è un eufemismo davanti al mattatoio e alla trappola in cui sono imprigionati milioni di afgani e la credibilità dell'intero Occidente. Che senza un piano serio e condiviso per mettere in salvo i civili che hanno collaborato con noi si sarebbe aperto l'inferno, lo si sapeva. Perfettamente e con largo anticipo. «Signor presidente» metteva in guardia un appello il primo giugno firmato da 17 organizzazioni indirizzato a Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, ma anche alla Nato, «il tempo sta scadendo per proteggere gli afgani alleati della Nato». E avvertiva molto chiaramente che con l'accelerazione in atto nel lasciare il Paese, «entro l'11 settembre» secondo la data inizialmente prevista, rimanevano 30 giorni: «Chiediamo ai Paesi membri della Nato di agire immediatamente per evacuare i civili coinvolti localmente e le loro famiglie per garantire che coloro hanno protetto le nostre vite siano al sicuro dalle rappresaglie». Nero su bianco, data 1° giugno 2021. La lettera è firmata da «Human Rights First» («Prima i diritti umani») e da altre 16 associazioni umanitarie, di veterani, americane, tedesche, olandesi, francesi, organizzazioni internazionali, Amnesty International. È rivolta all'inquilino della Casa Bianca ma chiama in causa direttamente l'Alleanza Atlantica e in copia è stata inoltrata al segretario generale della Nato, Jens Stoltberg, e ai capi degli Stati membri. Sì, Italia compresa. È la prova abbastanza sconvolgente che oltre al fallimento politico, umano e personale di Biden le responsabilità del tradimento nei confronti degli afgani sono più complesse ed estese, e riguardano anche Roma. Il documento precisa che l'allarme nasce dallo stretto contatto che le organizzazioni firmatarie hanno mantenuto con gli afgani «le cui vite sono a rischio». Temono – con sacrosanta ragione – di essere esclusi «dall'ambizione Nato di restare uniti nel lasciare insieme» il Paese: «Hanno paura di essere abbandonati non solo per la mancanza di criteri» unici per l'evacuazione dei civili «ma anche perché il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza (già a giugno, ndr) rende difficile viaggiare» e sbrigare le procedure burocratiche «per ottenere i documenti in tempo». Come dicevamo, il testo oltre che a Biden in copia è stato inviato anche al presidente canadese, a quello australiano, ad Angela Merkel, Boris Johnson, Emmanuel Macron. E a Sergio Mattarella, presidente della Repubblica. Ecco, gentile signor presidente Mattarella, come Biden lo è per quelle statunitensi, lei è il capo supremo delle forze armate italiane. Ha idea perché questo allarme sia stato sottovalutato? Lei non ha avuto modo di leggerlo? Non è mai arrivato? I suoi ottimi consiglieri, a cominciare da quello agli affari militari, non l'hanno avvertita, o lo hanno ritenuto ingiustificato? Se possibile anche più incisivo è l'appello rivolto al presidente Usa ancora prima, addirittura il 10 maggio, questo firmato da 16 associazioni di veterani americani. Ricordano a Biden che in Afghanistan «i nostri sforzi sono stati possibili solo perché gli alleati locali ci hanno aiutato a fare quel lavoro». «Il futuro di un'intera generazione di afgani che hanno creduto e lavorato con noi è a rischio». Dieci maggio. Anzi, la lettera mette i brividi. «La nostra esperienza ci dice che il Dipartimento della Difesa può fare questo sforzo», soprattutto i veterani elencano i numeri di altre crisi. Nel 1975 l'amministrazione Ford portò in salvo 130.000 vietnamiti, nel 1996 la presidenza Clinton aviotrasportò negli Usa «migliaia di iracheni dal Nord Iraq», nel 1999 20.000 kosovari vennero assistiti e accolti negli Stati Uniti. Al Colle (ma anche a Palazzo Chigi, alla Farnesina, al ministero della Difesa) l'avranno letta? L'appello del primo giugno, quello inviato anche a Mattarella, indica in modo pragmatico che cosa si sarebbe dovuto fare: un piano di accoglienza «flessibile e generoso» perché i collaboratori afgani sarebbero diventati bersagli «indipendentemente dalla data e dall'importanza del loro impiego»; qualora il numero di richieste fosse diventato enorme portare subito i civili in luoghi sicuri dove poter procedere in sicurezza ai controlli e al rilascio dei visti. Quindi la conclusione profetica: senza uno sforzo coordinato, non solo gli Usa, «la Nato rischia di tradire la sua promessa che il ritiro dal Paese sarà ordinato e deliberato». Niente di tutto questo è stato fatto, nonostante già dalla fine di giugno l'Italia abbia evacuato i primi collaboratori ex Nato dall'Afghanistan. Anzi, è stato fatto il contrario. Nessuno ovviamente muove addebiti personali al presidente Mattarella. Aver portato in salvo altre 4.000 persone negli ultimi dieci giorni è un miracolo, garantito dai nostri militari, dai nostri corpi speciali e dalla nostra intelligence. Ma qualche spiegazione e informazione in più dal Quirinale può aiutare. A capire prima di tutto perché quello che si sarebbe dovuto fare non è stato fatto, prima ancora di individuare le responsabilità che oltre al campione di inconsistenza Biden sono con tutta evidenza articolate ed estese. Lo dobbiamo ai nostri amici afgani traditi e ai nostri caduti. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/uccisi-capi-isis-biden-attentati-2654825806.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="cina-e-usa-si-riavvicinano-un-po" data-post-id="2654825806" data-published-at="1630180255" data-use-pagination="False"> Cina e Usa si riavvicinano (un po’) La crisi afghana sta avvicinando Stati Uniti e Cina? Secondo quanto riferito ieri dal South China Morning Post, una fonte vicina all'Esercito popolare di liberazione ha confermato che – la settimana scorsa – sono ripresi colloqui ad alto livello tra i vertici militari dei due rispettivi Paesi. Si tratta della prima volta da quando Joe Biden è diventato presidente degli Stati Uniti. La testata ha in particolare sottolineato che «la crisi dell'Afghanistan è stato il problema più urgente discusso nella videoconferenza della scorsa settimana tra il maggiore generale Huang Xueping […] e il suo omologo del Pentagono, Michael Chase». Insomma, sembrerebbe che Washington e Pechino stiano tentando una manovra di avvicinamento, nel tentativo di gestire il caos afghano. Il che potrebbe costituire una sorta di preludio al G20 straordinario che Mario Draghi punta a organizzare per il mese prossimo: un G20 in cui il nostro premier mira al coinvolgimento di un elevato numero di attori internazionali. Ecco che dunque, in un simile quadro, la ripresa dei colloqui tra i vertici militari di Washington e Pechino potrebbe andare nella direzione auspicata da Draghi. Del resto, dopo l'apertura incassata da Russia e India, sembrerebbe che il premier avrà un colloquio telefonico con il presidente cinese Xi Jinping il 3 o il 4 settembre. Un colloquio che costituirà probabilmente il vero punto di svolta nell'organizzazione di questo G20. Certo, il premier dovrà fare molta attenzione, perché si sta muovendo su un terreno scosceso. Se è vero che i colloqui militari sino-americani gli offrano in parte una copertura politica oltreatlantico, è altrettanto vero che i rapporti tra Washington e Pechino continuino a rivelarsi particolarmente tesi. Proprio ieri il ministero della Difesa cinese ha protestato contro il passaggio di una nave da guerra statunitense nelle acque dello stretto di Taiwan. Inoltre, Washington e Pechino nutrono interessi divergenti in Afghanistan. Se la Cina punta a fare la parte del leone nella ricostruzione economica del Paese, non è escluso che i servizi segreti statunitensi puntino a instaurare canali sotterranei con alcuni pezzi del composito fronte talebano per destabilizzare lo Xinjiang. La partita è quindi pericolosamente aggrovigliata. Per questo Draghi deve muoversi con estrema cautela.
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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