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2019-06-25
Tutte le maggioranze alternative su giustizia, Tav, tasse e autonomie
Ansa
Sorpresa: la Lega non è un monolite. In questo primo anno di governo del cambiamento ci eravamo abituati a uno schema con tre centri decisionali: il Carroccio, il M5s e il Quirinale in asse con il premier Giuseppe Conte e il ministro dell'Economia, Giovanni Tria. La Lega è sempre apparsa super compatta intorno a Matteo Salvini; Conte si è barcamenato tra i suggerimenti del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e le indicazioni dei due partiti di maggioranza; il M5s invece lo abbiamo visto sempre frastagliato, con la corrente governista guidata da Luigi Di Maio perennemente criticata dall'ala ortodossa, di sinistra radicale, che fa capo al presidente della Camera Roberto Fico. Recentemente, a complicare ancora di più il già difficile lavoro di Di Maio, è arrivato pure Alessandro Di Battista. Altro elemento caratterizzante l'azione del governo, il «soccorso nerazzurro» arrivato in diverse occasioni da Fratelli d'Italia e Forza Italia su provvedimenti voluti dalla Lega e digeriti malvolentieri, con tanto di assenze al momento del voto in aula, dal M5s: un esempio su tutti, la legge sulla legittima difesa.
Ora, con la (parziale) sconfessione dei minibot da parte di Giancarlo Giorgetti, è venuto a galla che anche nella Lega ci sono diverse sensibilità. Il moltiplicarsi dei centri decisionali non è necessariamente un dato negativo, purché alla fine, al momento del voto in parlamento o in Consiglio dei ministri, si arrivi sempre a trovare un equilibrio di sintesi. Fino a questo momento, è sempre stato così, ed è probabile che si continuerà ad andare avanti su questo percorso: litigare fino allo sfinimento sui social, sui giornali e in tv ma ritornare compatti quando dai talk show si passa alla Camera e al Senato.
Nella Lega, ad esempio, non ci si divide solo sui minibot. L'autonomia differenziata di Lombardia, Veneto e Emilia Romagna è motivo di dissapori interni al Carroccio: i leghisti lombardi e soprattutto quelli veneti, a partire dai due governatori, Attilio Fontana e Luca Zaia, vorrebbero accelerare sull'iter; Salvini, ormai proiettato nella nuova dimensione di leader nazionale e europeo, non vuole mettere a rischio il governo, ben sapendo che il M5s, il cui granaio elettorale è al Sud, andrebbe in mille pezzi; Forza Italia è a sua volta spaccata in due come una mela, con l'ala nordista (Giovanni Toti) favorevole e quella sudista (Mara Carfagna) contraria. Fratelli d'Italia non garantirebbe il sostegno a un'autonomia «spinta». Se si andasse quindi alla discussione in aula, alla Camera e al Senato, e non solo in commissione (lo decideranno i presidenti, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati) ogni votazione sarebbe un terno al lotto.
Sull'economia, le divisioni fioccano. La Lega è compatta sulla flat tax, che non piace al M5s ma avrebbe il sostegno di Forza Italia e Fdi. In ogni caso, Luigi Di Maio sarebbe pronto a approvare la «tassa piatta», finanziandola in deficit, e qui entra in campo il subgoverno Mattarella-Conte-Tria, che non vuole ulteriori strappi con l'Europa. «Deve essere graduale e coperta dai tagli alla spesa», ha detto pochi giorni fa il ministro dell'Economia al Financial Times. In realtà, nel M5s non manca chi è a favore sia della flat tax che dell'autonomia: intervistata dalla Verità, Paola Taverna, vicepresidente del Senato, ha recentemente dichiarato di essere a favore di entrambi i provvedimenti. Il M5s, da parte sua, propone il salario minimo, che invece non piace alla Lega (tutta) e al subgoverno Mattarella-Conte-Tria.
Un argomento che vede la Lega compatta e il M5s spaccato è la Tav. Il Carroccio, così come il subgoverno, è per completare l'opera, e in effetti al di là delle chiacchiere televisive la Torino-Lione sta andando avanti. Anche Forza Italia, Fratelli d'Italia e Pd sono favorevoli. Il M5s ha diverse posizioni sull'argomento: Di Battista e Fico sono contrari, mentre Laura Castelli, viceministro all'Economia, vicinissima a Di Maio, ha manifestato la sua disponibilità a discutere di uno dei tanti progetti «light» dell'opera.
Sui temi della giustizia, Lega e M5s hanno visioni molto diverse. I pentastellati sono ancorati a posizioni iper-giustizialiste: il ministro Alfonso Bonafede ha preparato una bozza di riforma che prevede il blocco della prescrizione dal gennaio 2020 e una nuova regolamentazione sulla pubblicazione delle intercettazioni. Su questo tema, Matteo Salvini ha una posizione molto dura: il ministro dell'Interno ha più volte etichettato come «indecente» la pubblicazione sui giornali di conversazioni prive di rilievo penale. Per il Carroccio è il ministro della Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, a curare il dossier: la sua posizione sulla pubblicazione delle intercettazioni è leggermente meno rigida di quella di Salvini. Infine: le elezioni anticipate. La componente più tradizionale della Lega le vorrebbe per governare con le mani libere, Salvini frena, il M5s governista ne è terrorizzato, Di Battista non vede l'ora di tornare alle urne.
Il pignolo Boeri si accorge solo ora delle buste paga sempre più basse
S'è svegliato Tito Boeri. Forse qualche screanzato ha fatto rumore, e deve aver turbato il sonno (olimpico e bocconiano) dell'ex presidente dell'Istituto nazionale della previdenza sociale, eroe, martire e candidato (a tutto) del «partito» di Repubblica.
E così, ieri, con il tono indignato di chi scopre una vergogna e la denuncia al mondo, il professor Boeri, intervenendo sul giornale debenedettiano, ci ha comunicato tre cose. Primo: che in Italia ci sono situazioni di sfruttamento lavorativo (ma tu guarda che scoperta). Secondo: che nel Paese esiste un elevato livello di povertà tra chi svolge lavori manuali (non gli sfugge proprio nulla). E terzo: che ci vuole un salario minimo.
Attenzione, però: perché, con la bacchetta in mano, Boeri chiede a tutti gli alunni di mettere le manine sul banco e (zac! zac! zac!) non ne perdona uno. E come mai? Perché dicono di volere il salario minimo, ma in realtà (si intuisce: non avendolo consultato) starebbero prendendo fischi per fiaschi.
Bacchettata ai grillini, dunque, colpevoli di aver presentato una proposta «che nulla ha a che fare con il salario minimo», ma si limita a estendere la copertura dei contratti collettivi nazionali. Bacchettata per ragioni analoghe pure a quelli del Partito democratico.
Bacchettata per ragioni opposte a Fratelli d'Italia, che vorrebbero introdurre il salario minimo per chi non è coperto dalla contrattazione collettiva.
E infine raffica di bacchettate (non ne basta una sola, ci fa intuire il commento di Boeri) per la Lega, che - orrore! - non vuole il salario minimo. E perché Salvini e i suoi sarebbero contrari? Forse perché, legittimamente, ritengono la misura sbagliata? No: Boeri, che ne sa una più del diavolo, ci informa che il partito di Matteo Salvini è contrario «forse anche perché una parte del suo elettorato di riferimento vive dello sfruttamento della manodopera, soprattutto di quella immigrata». Avete letto bene: l'elettorato leghista, o una sua parte, è dipinto come una masnada sfruttatori di lavoratori e immigrati.
E allora che bisogna fare, per non sbagliare? Elementare, Watson: prima che quelle capre del governo e del Parlamento decidano, ci vuole una «commissione sui bassi salari». Ecco, una bella commissione: e il professor Boeri raccomanda che ci siano degli «esperti». Siamo dunque autorizzati a immaginarlo così, il docente editorialista di Repubblica, mentre interroga lo specchio: «Specchio delle mie brame, chi è il più esperto del reame?».
Ma, ironia a parte, sorge un dubbio. Stiamo parlando dello stesso Tito Boeri (non un omonimo) che, fino a pochi mesi fa e per un tempo non breve (dal 24 dicembre 2014 al 16 febbraio 2019), è stato presidente dell'Inps? Tra l'altro, un presidente dell'Inps particolarmente ciarliero, prodigo di interviste e interventi pubblici ad alta intensità politica. Intendiamoci bene. Non tocca al presidente dell'Inps dettare le linee politiche a governo e parlamento. Ma, visto che interveniva un giorno sì e l'altro no, perché questo tema sembra scoprirlo proprio ora?
Furono indimenticabili le sue sortite sugli immigrati che (argomentava dottamente) pagavano le pensioni agli italiani, le sue sfuriate contro quota 100, e via comiziando e ammonendo. Lo sfruttamento e i salari bassi li ha scoperti solo adesso? Nei suoi anni da super presidente non si è mai accorto del crollo del montante contributivo?
Bruxelles capisce la mala parata e frena sull’infrazione
La procedura d'infrazione, almeno per il momento, non s'ha da fare. Ne è convinto l'autorevole Financial Times, il quale citando come fonte «due funzionari europei» sostiene che nella giornata di oggi la Commissione europea non prenderà alcuna decisione in merito all'avvio della procedura nei confronti dell'Italia. L'obiettivo sarebbe quello di dare tempo al nostro governo di elaborare una strategia valida per aggiustare i conti. La riedizione di uno scontro con la Commissione a soli sei mesi di distanza dall'ultimo aspro contrasto, osserva il quotidiano economico britannico, comporterebbe il rischio di una crisi di fiducia da parte degli investitori circa la sostenibilità del nostro debito pubblico. All'indomani del Consiglio dell'Ue che ha visto fallire i negoziati per la nomina delle alte cariche delle istituzioni europee, il premier Giuseppe Conte aveva rilanciato fiducioso: «Sto lavorando con costanza, anche con il ministro Tria, per evitare una procedura di infrazione che farebbe male all'Italia. Nonostante la situazione sia davvero molto complicata, sono molto determinato e resto fiducioso che, grazie a un approccio costruttivo da parte di tutte le parti che siedono intorno al tavolo, si possa arrivare a una soluzione positiva nel reciproco interesse».
La scorsa settimana il premier aveva indirizzato alla Commissione una lunga e accorata lettera di risposta a seguito della dichiarata volontà di aprire la procedura. Non solo cifre, ma anche importanti considerazioni politiche. Su tutte, il forte richiamo ai «crescenti segnali di insofferenza» mostrati dalla società civile e l'invito alla necessità di «affrontare con lucidità e spirito critico alcuni limiti strutturali del progetto europeo». Sul versante dei numeri, il governo si è detto più volte ottimista, e si aspetta di poter riguadagnare un margine importante grazie all'andamento della raccolta fiscale attesa essere migliore del previsto.
Ma l'avvio di una procedura, e questo si legge anche tra le righe del pezzo del Ft, non causerebbe danni solo all'Italia. La mossa di rinviare a fine maggio il verdetto sui conti dell'Italia aveva una chiara finalità elettorale, così come quella di pubblicare i rapporti del semestre europeo una manciata di giorni dopo il voto. Probabilmente a un certo punto la Commissione si è resa conto che lo scontro fine a sé stesso avrebbe finito solo per alimentare il dissenso nei confronti dell'Europa, e ha preferito così spostare il tiro su altre tematiche.
Esaurita la tornata elettorale, la diatriba sull'Italia si inserisce nel contesto delle nomine per i «top jobs» continentali (presidenza della Commissione ma anche del Parlamento, della Bce e del Consiglio e dell'Alto rappresentante per gli affari esteri). Il pressing sui conti, serrato ma non asfissiante, fino a oggi è stato orientato alla politica della «porta aperta». La scelta di concedere sei mesi di tempo, anziché tre, per consentire «al governo italiano di adottare misure efficaci» (specie per ciò che concerne la riduzione del debito) va proprio in questa direzione. Ciò nonostante, Bruxelles ci tiene a chiudere la partita prima che la nuova Commissione prenda il potere. Se è ormai chiaro che l'Italia dovrà rinunciare ai tre incarichi di rilievo che ricopre oggi con Mario Draghi, Antonio Tajani e Federica Mogherini, non si può nemmeno negare il ruolo attivo che il nostro Paese può giocare in questa circostanza. Il calendario è piuttosto serrato. Oggi Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici aggiorneranno il presidente Juncker sulla vicenda italiana, mentre il 30 giugno è previsto un nuovo meeting per cercare la quadra sulle nomine. Dal 2 al 4 luglio il Parlamento europeo eleggerà il successore di Tajani, mentre il 9 luglio si svolgerà l'Ecofin che deciderà definitivamente sulla nostra procedura di infrazione.
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La compattezza del governo è erosa dalle spaccature dentro gli stessi azionisti. La Torino-Lione può contare sull'asse Lega-Fi-Pd e i grillini «romani». E la riforma delle Regioni può appoggiarsi all'ala nordista azzurra.Nuova rampogna del prof Tito Boeri sulle retribuzioni. All'Inps i contributi non lo insospettivano?Secondo il Financial Times la decisione sulla procedura sarà rinviata. Troppo pericolosa, per la tenuta dei mercati, una stangata.Lo speciale contiene tre articoli.Sorpresa: la Lega non è un monolite. In questo primo anno di governo del cambiamento ci eravamo abituati a uno schema con tre centri decisionali: il Carroccio, il M5s e il Quirinale in asse con il premier Giuseppe Conte e il ministro dell'Economia, Giovanni Tria. La Lega è sempre apparsa super compatta intorno a Matteo Salvini; Conte si è barcamenato tra i suggerimenti del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e le indicazioni dei due partiti di maggioranza; il M5s invece lo abbiamo visto sempre frastagliato, con la corrente governista guidata da Luigi Di Maio perennemente criticata dall'ala ortodossa, di sinistra radicale, che fa capo al presidente della Camera Roberto Fico. Recentemente, a complicare ancora di più il già difficile lavoro di Di Maio, è arrivato pure Alessandro Di Battista. Altro elemento caratterizzante l'azione del governo, il «soccorso nerazzurro» arrivato in diverse occasioni da Fratelli d'Italia e Forza Italia su provvedimenti voluti dalla Lega e digeriti malvolentieri, con tanto di assenze al momento del voto in aula, dal M5s: un esempio su tutti, la legge sulla legittima difesa.Ora, con la (parziale) sconfessione dei minibot da parte di Giancarlo Giorgetti, è venuto a galla che anche nella Lega ci sono diverse sensibilità. Il moltiplicarsi dei centri decisionali non è necessariamente un dato negativo, purché alla fine, al momento del voto in parlamento o in Consiglio dei ministri, si arrivi sempre a trovare un equilibrio di sintesi. Fino a questo momento, è sempre stato così, ed è probabile che si continuerà ad andare avanti su questo percorso: litigare fino allo sfinimento sui social, sui giornali e in tv ma ritornare compatti quando dai talk show si passa alla Camera e al Senato.Nella Lega, ad esempio, non ci si divide solo sui minibot. L'autonomia differenziata di Lombardia, Veneto e Emilia Romagna è motivo di dissapori interni al Carroccio: i leghisti lombardi e soprattutto quelli veneti, a partire dai due governatori, Attilio Fontana e Luca Zaia, vorrebbero accelerare sull'iter; Salvini, ormai proiettato nella nuova dimensione di leader nazionale e europeo, non vuole mettere a rischio il governo, ben sapendo che il M5s, il cui granaio elettorale è al Sud, andrebbe in mille pezzi; Forza Italia è a sua volta spaccata in due come una mela, con l'ala nordista (Giovanni Toti) favorevole e quella sudista (Mara Carfagna) contraria. Fratelli d'Italia non garantirebbe il sostegno a un'autonomia «spinta». Se si andasse quindi alla discussione in aula, alla Camera e al Senato, e non solo in commissione (lo decideranno i presidenti, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati) ogni votazione sarebbe un terno al lotto.Sull'economia, le divisioni fioccano. La Lega è compatta sulla flat tax, che non piace al M5s ma avrebbe il sostegno di Forza Italia e Fdi. In ogni caso, Luigi Di Maio sarebbe pronto a approvare la «tassa piatta», finanziandola in deficit, e qui entra in campo il subgoverno Mattarella-Conte-Tria, che non vuole ulteriori strappi con l'Europa. «Deve essere graduale e coperta dai tagli alla spesa», ha detto pochi giorni fa il ministro dell'Economia al Financial Times. In realtà, nel M5s non manca chi è a favore sia della flat tax che dell'autonomia: intervistata dalla Verità, Paola Taverna, vicepresidente del Senato, ha recentemente dichiarato di essere a favore di entrambi i provvedimenti. Il M5s, da parte sua, propone il salario minimo, che invece non piace alla Lega (tutta) e al subgoverno Mattarella-Conte-Tria.Un argomento che vede la Lega compatta e il M5s spaccato è la Tav. Il Carroccio, così come il subgoverno, è per completare l'opera, e in effetti al di là delle chiacchiere televisive la Torino-Lione sta andando avanti. Anche Forza Italia, Fratelli d'Italia e Pd sono favorevoli. Il M5s ha diverse posizioni sull'argomento: Di Battista e Fico sono contrari, mentre Laura Castelli, viceministro all'Economia, vicinissima a Di Maio, ha manifestato la sua disponibilità a discutere di uno dei tanti progetti «light» dell'opera. Sui temi della giustizia, Lega e M5s hanno visioni molto diverse. I pentastellati sono ancorati a posizioni iper-giustizialiste: il ministro Alfonso Bonafede ha preparato una bozza di riforma che prevede il blocco della prescrizione dal gennaio 2020 e una nuova regolamentazione sulla pubblicazione delle intercettazioni. Su questo tema, Matteo Salvini ha una posizione molto dura: il ministro dell'Interno ha più volte etichettato come «indecente» la pubblicazione sui giornali di conversazioni prive di rilievo penale. Per il Carroccio è il ministro della Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, a curare il dossier: la sua posizione sulla pubblicazione delle intercettazioni è leggermente meno rigida di quella di Salvini. Infine: le elezioni anticipate. La componente più tradizionale della Lega le vorrebbe per governare con le mani libere, Salvini frena, il M5s governista ne è terrorizzato, Di Battista non vede l'ora di tornare alle urne. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tutte-le-maggioranze-alternative-su-giustizia-tav-tasse-e-autonomie-2638973219.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-pignolo-boeri-si-accorge-solo-ora-delle-buste-paga-sempre-piu-basse" data-post-id="2638973219" data-published-at="1766934683" data-use-pagination="False"> Il pignolo Boeri si accorge solo ora delle buste paga sempre più basse S'è svegliato Tito Boeri. Forse qualche screanzato ha fatto rumore, e deve aver turbato il sonno (olimpico e bocconiano) dell'ex presidente dell'Istituto nazionale della previdenza sociale, eroe, martire e candidato (a tutto) del «partito» di Repubblica. E così, ieri, con il tono indignato di chi scopre una vergogna e la denuncia al mondo, il professor Boeri, intervenendo sul giornale debenedettiano, ci ha comunicato tre cose. Primo: che in Italia ci sono situazioni di sfruttamento lavorativo (ma tu guarda che scoperta). Secondo: che nel Paese esiste un elevato livello di povertà tra chi svolge lavori manuali (non gli sfugge proprio nulla). E terzo: che ci vuole un salario minimo. Attenzione, però: perché, con la bacchetta in mano, Boeri chiede a tutti gli alunni di mettere le manine sul banco e (zac! zac! zac!) non ne perdona uno. E come mai? Perché dicono di volere il salario minimo, ma in realtà (si intuisce: non avendolo consultato) starebbero prendendo fischi per fiaschi. Bacchettata ai grillini, dunque, colpevoli di aver presentato una proposta «che nulla ha a che fare con il salario minimo», ma si limita a estendere la copertura dei contratti collettivi nazionali. Bacchettata per ragioni analoghe pure a quelli del Partito democratico. Bacchettata per ragioni opposte a Fratelli d'Italia, che vorrebbero introdurre il salario minimo per chi non è coperto dalla contrattazione collettiva. E infine raffica di bacchettate (non ne basta una sola, ci fa intuire il commento di Boeri) per la Lega, che - orrore! - non vuole il salario minimo. E perché Salvini e i suoi sarebbero contrari? Forse perché, legittimamente, ritengono la misura sbagliata? No: Boeri, che ne sa una più del diavolo, ci informa che il partito di Matteo Salvini è contrario «forse anche perché una parte del suo elettorato di riferimento vive dello sfruttamento della manodopera, soprattutto di quella immigrata». Avete letto bene: l'elettorato leghista, o una sua parte, è dipinto come una masnada sfruttatori di lavoratori e immigrati. E allora che bisogna fare, per non sbagliare? Elementare, Watson: prima che quelle capre del governo e del Parlamento decidano, ci vuole una «commissione sui bassi salari». Ecco, una bella commissione: e il professor Boeri raccomanda che ci siano degli «esperti». Siamo dunque autorizzati a immaginarlo così, il docente editorialista di Repubblica, mentre interroga lo specchio: «Specchio delle mie brame, chi è il più esperto del reame?». Ma, ironia a parte, sorge un dubbio. Stiamo parlando dello stesso Tito Boeri (non un omonimo) che, fino a pochi mesi fa e per un tempo non breve (dal 24 dicembre 2014 al 16 febbraio 2019), è stato presidente dell'Inps? Tra l'altro, un presidente dell'Inps particolarmente ciarliero, prodigo di interviste e interventi pubblici ad alta intensità politica. Intendiamoci bene. Non tocca al presidente dell'Inps dettare le linee politiche a governo e parlamento. Ma, visto che interveniva un giorno sì e l'altro no, perché questo tema sembra scoprirlo proprio ora? Furono indimenticabili le sue sortite sugli immigrati che (argomentava dottamente) pagavano le pensioni agli italiani, le sue sfuriate contro quota 100, e via comiziando e ammonendo. Lo sfruttamento e i salari bassi li ha scoperti solo adesso? 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La riedizione di uno scontro con la Commissione a soli sei mesi di distanza dall'ultimo aspro contrasto, osserva il quotidiano economico britannico, comporterebbe il rischio di una crisi di fiducia da parte degli investitori circa la sostenibilità del nostro debito pubblico. All'indomani del Consiglio dell'Ue che ha visto fallire i negoziati per la nomina delle alte cariche delle istituzioni europee, il premier Giuseppe Conte aveva rilanciato fiducioso: «Sto lavorando con costanza, anche con il ministro Tria, per evitare una procedura di infrazione che farebbe male all'Italia. Nonostante la situazione sia davvero molto complicata, sono molto determinato e resto fiducioso che, grazie a un approccio costruttivo da parte di tutte le parti che siedono intorno al tavolo, si possa arrivare a una soluzione positiva nel reciproco interesse». La scorsa settimana il premier aveva indirizzato alla Commissione una lunga e accorata lettera di risposta a seguito della dichiarata volontà di aprire la procedura. Non solo cifre, ma anche importanti considerazioni politiche. Su tutte, il forte richiamo ai «crescenti segnali di insofferenza» mostrati dalla società civile e l'invito alla necessità di «affrontare con lucidità e spirito critico alcuni limiti strutturali del progetto europeo». Sul versante dei numeri, il governo si è detto più volte ottimista, e si aspetta di poter riguadagnare un margine importante grazie all'andamento della raccolta fiscale attesa essere migliore del previsto. Ma l'avvio di una procedura, e questo si legge anche tra le righe del pezzo del Ft, non causerebbe danni solo all'Italia. La mossa di rinviare a fine maggio il verdetto sui conti dell'Italia aveva una chiara finalità elettorale, così come quella di pubblicare i rapporti del semestre europeo una manciata di giorni dopo il voto. Probabilmente a un certo punto la Commissione si è resa conto che lo scontro fine a sé stesso avrebbe finito solo per alimentare il dissenso nei confronti dell'Europa, e ha preferito così spostare il tiro su altre tematiche. Esaurita la tornata elettorale, la diatriba sull'Italia si inserisce nel contesto delle nomine per i «top jobs» continentali (presidenza della Commissione ma anche del Parlamento, della Bce e del Consiglio e dell'Alto rappresentante per gli affari esteri). Il pressing sui conti, serrato ma non asfissiante, fino a oggi è stato orientato alla politica della «porta aperta». La scelta di concedere sei mesi di tempo, anziché tre, per consentire «al governo italiano di adottare misure efficaci» (specie per ciò che concerne la riduzione del debito) va proprio in questa direzione. Ciò nonostante, Bruxelles ci tiene a chiudere la partita prima che la nuova Commissione prenda il potere. Se è ormai chiaro che l'Italia dovrà rinunciare ai tre incarichi di rilievo che ricopre oggi con Mario Draghi, Antonio Tajani e Federica Mogherini, non si può nemmeno negare il ruolo attivo che il nostro Paese può giocare in questa circostanza. Il calendario è piuttosto serrato. Oggi Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici aggiorneranno il presidente Juncker sulla vicenda italiana, mentre il 30 giugno è previsto un nuovo meeting per cercare la quadra sulle nomine. Dal 2 al 4 luglio il Parlamento europeo eleggerà il successore di Tajani, mentre il 9 luglio si svolgerà l'Ecofin che deciderà definitivamente sulla nostra procedura di infrazione.
Uno scatto della famiglia anglo-australiana, che viveva nel bosco di Palmoli, in provincia di Chieti, pubblicato sul sito web della mamma, Caterine Louise Birmingham (Ansa)
Non hanno alternative Catherine Birmingham e Nathan Trevallion, se non quella di passare al contrattacco visto che, giorno dopo giorno, sembrano scivolare sempre di più nella morsa dei giudici, dei periti e degli operatori della salute mentale. Oltre alle valutazioni sui minori da parte del servizio di neuropsichiatria infantile per individuare eventuali carenze, sono sotto esame le «capacità genitoriali» dei coniugi ma anche le loro propensioni «negoziali», troppo limitate secondo i servizi, e persino la loro personalità ritenuta «troppo rigida».
Non solo. Sebbene la famiglia abbia detto sì alle richieste del tribunale per spostarsi in una casa più adeguata, completare i cicli vaccinali, ricevere una maestra a domicilio per il percorso di home schooling, cercando dunque una mediazione tra la propria filosofia educativa e le richieste dello Stato, gli sforzi non sono bastati. E l’asticella è salita sempre più in alto. Quindi non rimane che provare a smontare le accuse. E così, dopo che lo scorso 19 dicembre, la Corte d’Appello ha rigettato il ricorso contro l’ordinanza, il giorno prima di Natale, i legali della famiglia, Marco Femminella e Danila Solinas, hanno deciso di controbattere ad alcuni dei punti dirimenti per i giudici.
Uno su tutti il rifiuto del sondino naso-gastrico nel trattamento dell’intossicazione da funghi dei figli in occasione del ricovero in ospedale nel settembre 2024, verosimilmente per via del materiale plastico. Un episodio significativo per i giudici in quanto «denoterebbe l’assoluta indisponibilità dei genitori a derogare anche solo temporaneamente e in via emergenziale ai principi ispiratori delle proprie scelte esistenziali». Per tutta risposta, gli avvocati hanno allegato alcune foto dei bambini mentre mangiano un gelato utilizzando cucchiaini di plastica, dunque smentendo l’iniziale resistenza da parte della madre nei confronti di certi oggetti. In altre immagini i piccoli giocano nel centro commerciale e sono al parco in compagnia di alcuni coetanei. Anche qui scene di «normalità» per smontare il ritratto apposto dai giudici alla famiglia, descritta come un gruppo di eremiti avulsi dai contesti sociali.
In un altro scatto si lavano le mani nel bagno di un locale pubblico. L’ennesima immagine che sconfesserebbe il teorema dei servizi secondo cui i piccoli Trevallion avrebbero paura della doccia e rifiuterebbero di lavarsi.
Nell’istanza i legali rispondono anche alle accuse rivolte contro la madre australiana, descritta come incline allo scontro con gli operatori. Secondo i legali, alla base del giudizio negativo dei servizi sociali vi sarebbe frizioni con l’assistente sociale che avrebbe interpretato come oppositivi alcuni suoi comportamenti. In particolare l’abitudine di svegliare i bambini la mattina prima dell’orario prestabilito. Un’accusa respinta con forza dalla madre che dice di passare solo a controllarli. Qualora dormano, spiega, si reca in cucina per preparare il porridge, per restituire ai figli un’atmosfera di casa. A quanto pare, peraltro, il più delle volte i fratellini sono già svegli perché non dormono bene.
Come rivelato da Il Centro, in alcuni messaggi inviati agli amici, la madre si dice preoccupata perché hanno delle ferite alle mani, in particolare la più grande. «Si mordono di continuo, è segno di un’ansia profonda», scrive.
Nel frattempo, in vista dei test psicologici, i legali hanno nominato come consulenti di parte la psicologa Martina Aiello e lo psichiatra Tonino Cantelmi, cattolico militante e professore associato all’Università Gregoriana che nel 2020 era stato individuato da papa Francesco come «membro del dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale». Per il suo curriculum, oltre a sostenere la coppia nelle valutazioni psicologiche disposte dal tribunale, potrebbe accompagnarla nell’assunzione di una posizione meno radicale. Per i test, però, ci vorranno almeno 120 giorni. Altri quattro mesi in cui i piccoli dovranno stare nella casa famiglia.
Uno scenario di fronte al quale uno dei commenti più duri arriva dal vicepremier Matteo Salvini: «Non avrò pace fino a che non troveremo il modo legale di riportare a casa quei bimbi. Oggi 16.000 famiglie italiane hanno scelto l’home-schooling, che facciamo, li portiamo via tutti perché qualcuno ritiene che i bambini siano dello Stato? È orribile e sovietico. Non socializzavano o potevano diventare dei bulli? Chi dice queste cose vada sulle metro o in certe periferie e faccia due chiacchiere con i tredicenni armati di coltello che fanno stupri di gruppo: magari hanno avuto tanta socialità, però non hanno mai incontrato un assistente sociale».
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Ansa
Di quest’ultimo, un paio di settimane fa, si era appreso che l’authority lo aveva intercettato per oltre due anni. Kisel è in strettissimi rapporti con Serhiy Shefir, a sua volta cofondatore, insieme a Zelensky, della casa di produzione Kvartal 95. Le captazioni erano state interrotte di recente e lo stesso Kisel aveva scoperto solo dai giornali di essere sorvegliato. La nuova operazione non sarebbe collegata all’inchiesta sulle mazzette nel settore degli appalti energetici. Quella, per intenderci, da cui provenivano le famigerate foto dei cessi d’oro. Il sistema avrebbe avuto al vertice Timur Mindich, pure lui molto vicino al presidente: è il coproprietario di Kvartal 95. Il manager era fuggito in Israele pochi giorni prima che scoppiasse il bubbone e, il giorno di Santo Stefano, ha rilasciato un’intervista, sempre a Ukrainska Pravda, nella quale si è lamentato per la campagna mediatica che sarebbe stata imbastita contro di lui.
La Nabu, su Facebook, ha pubblicato una foto dei suoi funzionari, ai quali inizialmente era stato impedito l’accesso al Parlamento di Kiev dai gendarmi della Guardia nazionale. «Da notare», si leggeva nel post, «che l’ostruzione delle indagini è una diretta violazione della legge». I militari si sono giustificati citando le disposizioni della legge marziale e sottolineando che, in un secondo momento, ai detective è stato permesso di entrare nel «distretto governativo». L’Anticorruzione ritiene di aver individuato «un gruppo criminale organizzato, che includeva deputati in carica […]. Secondo le indagini, i membri del gruppo hanno ricevuto sistematicamente vantaggi impropri in cambio di voti nella Verkhovna Rada».
Zelensky, partito per la missione Oltreoceano, ha fatto sapere che la sua intenzione, prima e dopo il vertice con Trump, era di coordinarsi con gli alleati europei: «Non riconosceremo nulla a qualsiasi condizione», ha precisato. Il numero uno della resistenza aveva in programma un colloquio insieme ai leader di Italia, Germania, Francia, Regno Unito, Polonia, Finlandia, Svezia, Ue e Nato. Dopo la chiamata, il premier polacco, Donald Tusk ha ribadito che le garanzie di sicurezza per il Paese invaso saranno «cruciali» e che andranno rese «specifiche e affidabili».
Nella notte, Varsavia aveva fatto decollare i suoi caccia, durante i massicci bombardamenti russi sulla capitale ucraina, condotti anche con missili ipersonici, che hanno costretto la popolazione a trovare riparo nei rifugi sotterranei. I raid hanno ucciso un settantunenne e ferito altre 32 persone, tra cui due bambini, lasciando al buio oltre un milione di case. Un drone ucraino, invece, ha provocato la morte di un uomo nella regione russa del Kursk. Di qui, il reciproco scambio di accuse tra belligeranti di non voler rinunciare ai combattimenti. Emmanuel Macron, in predicato di parlare con Vladimir Putin, ha rinfacciato a Mosca la «determinazione» a «prolungare la guerra». Per Zelensky, lo zar non prende sul serio gli sforzi diplomatici. Giorgia Meloni, intanto, ha insistito sull’«importanza, mai come in questo momento, di mantenere l’unità di vedute tra partner europei, Ucraina e Stati Uniti per porre fine a quasi quattro anni di conflitto». Ursula von der Leyen ha chiesto di preservare «sovranità e integrità territoriale» dell’Ucraina, però accoglie «con favore tutti gli sforzi» volti a raggiungere «una pace giusta e duratura». È la formula magica con cui Bruxelles, fin qui, ha sabotato ogni soluzione diplomatica.
Il leader ucraino, durante il viaggio, ha affrontato la questione di un eventuale referendum sul piano di pace e delle elezioni presidenziali: «Non mi aggrappo alla poltrona», ha giurato, ma «ci devono essere un cielo sgombro», cioè privo di minacce aeree, «e sicurezza su tutto il nostro territorio».
In Florida, il comandante in capo ucraino, oggi, discuterà di garanzie di sicurezza (pare che gli Usa siano disposti a fornirne per 15 anni), di dimensioni dell’esercito (Kiev vuole mantenere 800.000 effettivi in tempo di pace), dello status dei territori contesi e della gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhia, che gli americani vorrebbero controllata congiuntamente anche dai russi. Il bilaterale inizierà alle 15 locali, le 21 italiane. Non vi prenderanno parte rappresentanti del Vecchio continente. Risentiranno Zelensky al termine del faccia a faccia. Nella serata di venerdì, Trump aveva lasciato trasparire una certa impazienza: l’omologo ucraino, aveva avvertito, al netto degli annunci sulle «nuove idee» per porre fine al conflitto, «non ha nulla di concreto se non lo approvo io».
Ieri, il responsabile della Direzione principale dell’intelligence del ministero della Difesa ucraino, Kyrylo Budanov, ha ipotizzato che il prossimo febbraio si aprirà una finestra per raggiungere la tregua. A suo avviso, la difficoltà per i nemici di reclutare ancora soldati a contratto, combinata con l’approssimarsi della bella stagione, potrebbe facilitare la cessazione delle ostilità.
Zelensky, dal canto suo, sarà pure disinteressato allo scranno, ma non ai quattrini. E mentre si va scoperchiando l’ennesimo scandalo, torna a battere cassa: «Stimiamo», ha spiegato ieri, «che la ricostruzione richiederà circa 700-800 miliardi di dollari». Un oceano in cui potranno sguazzare certi suoi connazionali squali.
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Alessandro Morelli (Imagoeconomica)
Eh?
«Visitando i cantieri a Livigno per le Olimpiadi e per la Coppa del Mondo di sci (tenutasi ieri, Ndr) sono caduto e purtroppo mi sono rotto tre costole. Ma il giorno dopo ero a votare a Roma (tossisce, Ndr)».
Fa male tossire con le costole rotte. Vero?
«Ancora peggio starnutire».Perché manca il controllo. Un po’ come alla Lega che al Senato ha addirittura dato battaglia al suo ministro Giorgetti. Sicuro che va tutto bene?
«La Lega è solo una, con un unico leader: Matteo. Detto ciò, abbiamo due responsabilità: una di governo - che avvertiamo tutti - e una nei confronti dei nostri elettori».
Giù le mani dalle pensioni quindi…
«In realtà ancora una volta abbiamo trovato la quadra in questa legge di bilancio. Il Governo raggiunge i suoi obiettivi e gli obiettivi Lega sono stati raggiunti. Un segno di maturità nella discussione. Nessuna becera spaccatura».
Il Parlamento avrebbe fatto il suo lavoro. Anche se per poche ore. Solita legge di bilancio calata da Palazzo Chigi. Discussioni zero...
«L’opposizione dice che non si è dato il tempo di discutere».
Questo è vero, su!
«No! E le dico perché. È la settima legge di bilancio che io voto. È una di quelle che in assoluto ha avuto la maggiore discussione parlamentare. Tenga conto che la legge di bilancio si cucina in Commissione. E qui la discussione è stata ampia e approfondita. Come non mai. Poi la legge viene servita in aula. E qui i tempi sono più compressi. Ma la Commissione è Parlamento».
Ponte sullo Stretto. Avete rinunciato a un po’ di fondi per dare più soldi alle imprese.
«Ancora una volta il buonsenso di chi sa governare. Per non sollevare dubbi avremmo potuto lasciare lì quei fondi».
Ma?
«Ma il momentaneo stop della Corte dei conti non ci ha consentito spendere quanto avevamo preventivato nel 2025 (732 milioni) e da bravi amministratori abbiamo spostato quella cifra negli anni successivi. Dove avevamo previsto di spendere molto di più. E questo di più si aggiunge alle coperture extra di questa legge di bilancio. Il ministro Giorgetti ha abilmente sfruttato un ulteriore spazio di manovra».
È anche così che avete racimolato ulteriori 3,5 miliardi. Ieri il capogruppo alla Camera Galeazzo Bignami ha detto che ci sarà un intervento a favore dell’Ucraina a 360 gradi. Quindi vuol dire aiuti militari. E su questo la Lega ne ha fatto una battaglia identitaria. Cosa ci dobbiamo aspettare dal prossimo decreto Ucraina?
«Che nei 360 gradi ci sia un’assoluta priorità per gli investimenti legati alla difesa delle popolazioni civili. Quindi, per esempio, a strumenti che possono permettere anche la sopravvivenza in situazioni chiaramente di guerra. Pensiamo alla possibilità di produzione energetica, di riscaldamento o d’altro. Nei 360 gradi ci sta un’assoluta priorità relativamente alla difesa e alla tutela dei civili. Coerente con i nostri obiettivi. Per noi è fondamentale innanzitutto cambiare il decreto nella sua struttura. Che non sia fotocopia dei precedenti. Siamo in un momento, vedi l’incontro fra Trump e Zelensky, dove l’iniziativa diplomatica è sempre più avanzata. Fortunatamente in questo caso non abbiamo una flottiglia fra i piedi che per esigenze di visibilità mette i bastoni fra le ruote al processo di pace»
Però, le dico il mio pensiero, c’è l’Unione europea a mettersi nel mezzo. Un finanziamento da 90 miliardi per le esigenze belliche non aiuta secondo me il raggiungimento della pace. Mentre i servizi ucraini avrebbero smascherato un gruppo criminale organizzato per lucrare sugli aiuti. Dentro il quale ci starebbero anche alcuni deputati ucraini.
«Il problema è rappresentato sì dai 90 miliardi, ma ancora peggio dalla posizione che l’Europa continua ad avere. È rimasta a guardare i leader mondiali e non hanno giocato d’anticipo neppure sui leader europei. Ennesima prova che l’Ue è costruita su basi finanziarie più che politiche. L’auspicio è che ora Bruxelles non si metta di traverso di fronte agli sforzi di Trump».
Ultima domanda: Mohammad Hannoun, capo dei palestinesi in Italia, con l’accusa di collateralismo ad Hamas. Sotto sotto vi piace inchiodare l’opposizione alla manifesta vicinanza con questo soggetto.
«Il problema non è tanto Hannoun. Quanto piuttosto la connivenza della sinistra con una strategia politica che sta portando l’estremismo islamico dentro ai confini d’Europa. Cosa che sta avvenendo oramai da anni. I Fratelli musulmani sono considerati terroristi in molti Paesi arabi e invece sono spesso accolti a braccia aperte da noi E questa è solo la punta dell’iceberg. Questo è un caso puramente politico. Questa operazione che dimostra l’altissimo livello di efficienza del Ministero dell’Interno in tutte le sue compagini, dall’altra parte però ci palesa come una buona parte della sinistra sia connivente con frange sicuramente ostili alla nostra cultura e alla nostra politica. Consideri che ci siamo assuefatti alla violenza purtroppo. E glielo dice uno che per aver criticato questo mondo oggi ha le spalle guardate dai poliziotti. Quando arriva un ordine dall’alto pronunciato da un imam, a quel punto chiunque si sente autorizzato ad agire».
Una corsa a chi è più zelante nel realizzare quell’ordine…
«Consideri che i familiari di chi si sacrifica per obbedire all’ordine (oppure viene arrestato) viene poi sostenuta e finanziata dalle organizzazioni. Abitudine questa tipica nelle associazioni criminali organizzate come la mafia».
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