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2019-06-25
Tutte le maggioranze alternative su giustizia, Tav, tasse e autonomie
Ansa
Sorpresa: la Lega non è un monolite. In questo primo anno di governo del cambiamento ci eravamo abituati a uno schema con tre centri decisionali: il Carroccio, il M5s e il Quirinale in asse con il premier Giuseppe Conte e il ministro dell'Economia, Giovanni Tria. La Lega è sempre apparsa super compatta intorno a Matteo Salvini; Conte si è barcamenato tra i suggerimenti del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e le indicazioni dei due partiti di maggioranza; il M5s invece lo abbiamo visto sempre frastagliato, con la corrente governista guidata da Luigi Di Maio perennemente criticata dall'ala ortodossa, di sinistra radicale, che fa capo al presidente della Camera Roberto Fico. Recentemente, a complicare ancora di più il già difficile lavoro di Di Maio, è arrivato pure Alessandro Di Battista. Altro elemento caratterizzante l'azione del governo, il «soccorso nerazzurro» arrivato in diverse occasioni da Fratelli d'Italia e Forza Italia su provvedimenti voluti dalla Lega e digeriti malvolentieri, con tanto di assenze al momento del voto in aula, dal M5s: un esempio su tutti, la legge sulla legittima difesa.
Ora, con la (parziale) sconfessione dei minibot da parte di Giancarlo Giorgetti, è venuto a galla che anche nella Lega ci sono diverse sensibilità. Il moltiplicarsi dei centri decisionali non è necessariamente un dato negativo, purché alla fine, al momento del voto in parlamento o in Consiglio dei ministri, si arrivi sempre a trovare un equilibrio di sintesi. Fino a questo momento, è sempre stato così, ed è probabile che si continuerà ad andare avanti su questo percorso: litigare fino allo sfinimento sui social, sui giornali e in tv ma ritornare compatti quando dai talk show si passa alla Camera e al Senato.
Nella Lega, ad esempio, non ci si divide solo sui minibot. L'autonomia differenziata di Lombardia, Veneto e Emilia Romagna è motivo di dissapori interni al Carroccio: i leghisti lombardi e soprattutto quelli veneti, a partire dai due governatori, Attilio Fontana e Luca Zaia, vorrebbero accelerare sull'iter; Salvini, ormai proiettato nella nuova dimensione di leader nazionale e europeo, non vuole mettere a rischio il governo, ben sapendo che il M5s, il cui granaio elettorale è al Sud, andrebbe in mille pezzi; Forza Italia è a sua volta spaccata in due come una mela, con l'ala nordista (Giovanni Toti) favorevole e quella sudista (Mara Carfagna) contraria. Fratelli d'Italia non garantirebbe il sostegno a un'autonomia «spinta». Se si andasse quindi alla discussione in aula, alla Camera e al Senato, e non solo in commissione (lo decideranno i presidenti, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati) ogni votazione sarebbe un terno al lotto.
Sull'economia, le divisioni fioccano. La Lega è compatta sulla flat tax, che non piace al M5s ma avrebbe il sostegno di Forza Italia e Fdi. In ogni caso, Luigi Di Maio sarebbe pronto a approvare la «tassa piatta», finanziandola in deficit, e qui entra in campo il subgoverno Mattarella-Conte-Tria, che non vuole ulteriori strappi con l'Europa. «Deve essere graduale e coperta dai tagli alla spesa», ha detto pochi giorni fa il ministro dell'Economia al Financial Times. In realtà, nel M5s non manca chi è a favore sia della flat tax che dell'autonomia: intervistata dalla Verità, Paola Taverna, vicepresidente del Senato, ha recentemente dichiarato di essere a favore di entrambi i provvedimenti. Il M5s, da parte sua, propone il salario minimo, che invece non piace alla Lega (tutta) e al subgoverno Mattarella-Conte-Tria.
Un argomento che vede la Lega compatta e il M5s spaccato è la Tav. Il Carroccio, così come il subgoverno, è per completare l'opera, e in effetti al di là delle chiacchiere televisive la Torino-Lione sta andando avanti. Anche Forza Italia, Fratelli d'Italia e Pd sono favorevoli. Il M5s ha diverse posizioni sull'argomento: Di Battista e Fico sono contrari, mentre Laura Castelli, viceministro all'Economia, vicinissima a Di Maio, ha manifestato la sua disponibilità a discutere di uno dei tanti progetti «light» dell'opera.
Sui temi della giustizia, Lega e M5s hanno visioni molto diverse. I pentastellati sono ancorati a posizioni iper-giustizialiste: il ministro Alfonso Bonafede ha preparato una bozza di riforma che prevede il blocco della prescrizione dal gennaio 2020 e una nuova regolamentazione sulla pubblicazione delle intercettazioni. Su questo tema, Matteo Salvini ha una posizione molto dura: il ministro dell'Interno ha più volte etichettato come «indecente» la pubblicazione sui giornali di conversazioni prive di rilievo penale. Per il Carroccio è il ministro della Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, a curare il dossier: la sua posizione sulla pubblicazione delle intercettazioni è leggermente meno rigida di quella di Salvini. Infine: le elezioni anticipate. La componente più tradizionale della Lega le vorrebbe per governare con le mani libere, Salvini frena, il M5s governista ne è terrorizzato, Di Battista non vede l'ora di tornare alle urne.
Il pignolo Boeri si accorge solo ora delle buste paga sempre più basse
S'è svegliato Tito Boeri. Forse qualche screanzato ha fatto rumore, e deve aver turbato il sonno (olimpico e bocconiano) dell'ex presidente dell'Istituto nazionale della previdenza sociale, eroe, martire e candidato (a tutto) del «partito» di Repubblica.
E così, ieri, con il tono indignato di chi scopre una vergogna e la denuncia al mondo, il professor Boeri, intervenendo sul giornale debenedettiano, ci ha comunicato tre cose. Primo: che in Italia ci sono situazioni di sfruttamento lavorativo (ma tu guarda che scoperta). Secondo: che nel Paese esiste un elevato livello di povertà tra chi svolge lavori manuali (non gli sfugge proprio nulla). E terzo: che ci vuole un salario minimo.
Attenzione, però: perché, con la bacchetta in mano, Boeri chiede a tutti gli alunni di mettere le manine sul banco e (zac! zac! zac!) non ne perdona uno. E come mai? Perché dicono di volere il salario minimo, ma in realtà (si intuisce: non avendolo consultato) starebbero prendendo fischi per fiaschi.
Bacchettata ai grillini, dunque, colpevoli di aver presentato una proposta «che nulla ha a che fare con il salario minimo», ma si limita a estendere la copertura dei contratti collettivi nazionali. Bacchettata per ragioni analoghe pure a quelli del Partito democratico.
Bacchettata per ragioni opposte a Fratelli d'Italia, che vorrebbero introdurre il salario minimo per chi non è coperto dalla contrattazione collettiva.
E infine raffica di bacchettate (non ne basta una sola, ci fa intuire il commento di Boeri) per la Lega, che - orrore! - non vuole il salario minimo. E perché Salvini e i suoi sarebbero contrari? Forse perché, legittimamente, ritengono la misura sbagliata? No: Boeri, che ne sa una più del diavolo, ci informa che il partito di Matteo Salvini è contrario «forse anche perché una parte del suo elettorato di riferimento vive dello sfruttamento della manodopera, soprattutto di quella immigrata». Avete letto bene: l'elettorato leghista, o una sua parte, è dipinto come una masnada sfruttatori di lavoratori e immigrati.
E allora che bisogna fare, per non sbagliare? Elementare, Watson: prima che quelle capre del governo e del Parlamento decidano, ci vuole una «commissione sui bassi salari». Ecco, una bella commissione: e il professor Boeri raccomanda che ci siano degli «esperti». Siamo dunque autorizzati a immaginarlo così, il docente editorialista di Repubblica, mentre interroga lo specchio: «Specchio delle mie brame, chi è il più esperto del reame?».
Ma, ironia a parte, sorge un dubbio. Stiamo parlando dello stesso Tito Boeri (non un omonimo) che, fino a pochi mesi fa e per un tempo non breve (dal 24 dicembre 2014 al 16 febbraio 2019), è stato presidente dell'Inps? Tra l'altro, un presidente dell'Inps particolarmente ciarliero, prodigo di interviste e interventi pubblici ad alta intensità politica. Intendiamoci bene. Non tocca al presidente dell'Inps dettare le linee politiche a governo e parlamento. Ma, visto che interveniva un giorno sì e l'altro no, perché questo tema sembra scoprirlo proprio ora?
Furono indimenticabili le sue sortite sugli immigrati che (argomentava dottamente) pagavano le pensioni agli italiani, le sue sfuriate contro quota 100, e via comiziando e ammonendo. Lo sfruttamento e i salari bassi li ha scoperti solo adesso? Nei suoi anni da super presidente non si è mai accorto del crollo del montante contributivo?
Bruxelles capisce la mala parata e frena sull’infrazione
La procedura d'infrazione, almeno per il momento, non s'ha da fare. Ne è convinto l'autorevole Financial Times, il quale citando come fonte «due funzionari europei» sostiene che nella giornata di oggi la Commissione europea non prenderà alcuna decisione in merito all'avvio della procedura nei confronti dell'Italia. L'obiettivo sarebbe quello di dare tempo al nostro governo di elaborare una strategia valida per aggiustare i conti. La riedizione di uno scontro con la Commissione a soli sei mesi di distanza dall'ultimo aspro contrasto, osserva il quotidiano economico britannico, comporterebbe il rischio di una crisi di fiducia da parte degli investitori circa la sostenibilità del nostro debito pubblico. All'indomani del Consiglio dell'Ue che ha visto fallire i negoziati per la nomina delle alte cariche delle istituzioni europee, il premier Giuseppe Conte aveva rilanciato fiducioso: «Sto lavorando con costanza, anche con il ministro Tria, per evitare una procedura di infrazione che farebbe male all'Italia. Nonostante la situazione sia davvero molto complicata, sono molto determinato e resto fiducioso che, grazie a un approccio costruttivo da parte di tutte le parti che siedono intorno al tavolo, si possa arrivare a una soluzione positiva nel reciproco interesse».
La scorsa settimana il premier aveva indirizzato alla Commissione una lunga e accorata lettera di risposta a seguito della dichiarata volontà di aprire la procedura. Non solo cifre, ma anche importanti considerazioni politiche. Su tutte, il forte richiamo ai «crescenti segnali di insofferenza» mostrati dalla società civile e l'invito alla necessità di «affrontare con lucidità e spirito critico alcuni limiti strutturali del progetto europeo». Sul versante dei numeri, il governo si è detto più volte ottimista, e si aspetta di poter riguadagnare un margine importante grazie all'andamento della raccolta fiscale attesa essere migliore del previsto.
Ma l'avvio di una procedura, e questo si legge anche tra le righe del pezzo del Ft, non causerebbe danni solo all'Italia. La mossa di rinviare a fine maggio il verdetto sui conti dell'Italia aveva una chiara finalità elettorale, così come quella di pubblicare i rapporti del semestre europeo una manciata di giorni dopo il voto. Probabilmente a un certo punto la Commissione si è resa conto che lo scontro fine a sé stesso avrebbe finito solo per alimentare il dissenso nei confronti dell'Europa, e ha preferito così spostare il tiro su altre tematiche.
Esaurita la tornata elettorale, la diatriba sull'Italia si inserisce nel contesto delle nomine per i «top jobs» continentali (presidenza della Commissione ma anche del Parlamento, della Bce e del Consiglio e dell'Alto rappresentante per gli affari esteri). Il pressing sui conti, serrato ma non asfissiante, fino a oggi è stato orientato alla politica della «porta aperta». La scelta di concedere sei mesi di tempo, anziché tre, per consentire «al governo italiano di adottare misure efficaci» (specie per ciò che concerne la riduzione del debito) va proprio in questa direzione. Ciò nonostante, Bruxelles ci tiene a chiudere la partita prima che la nuova Commissione prenda il potere. Se è ormai chiaro che l'Italia dovrà rinunciare ai tre incarichi di rilievo che ricopre oggi con Mario Draghi, Antonio Tajani e Federica Mogherini, non si può nemmeno negare il ruolo attivo che il nostro Paese può giocare in questa circostanza. Il calendario è piuttosto serrato. Oggi Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici aggiorneranno il presidente Juncker sulla vicenda italiana, mentre il 30 giugno è previsto un nuovo meeting per cercare la quadra sulle nomine. Dal 2 al 4 luglio il Parlamento europeo eleggerà il successore di Tajani, mentre il 9 luglio si svolgerà l'Ecofin che deciderà definitivamente sulla nostra procedura di infrazione.
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La compattezza del governo è erosa dalle spaccature dentro gli stessi azionisti. La Torino-Lione può contare sull'asse Lega-Fi-Pd e i grillini «romani». E la riforma delle Regioni può appoggiarsi all'ala nordista azzurra.Nuova rampogna del prof Tito Boeri sulle retribuzioni. All'Inps i contributi non lo insospettivano?Secondo il Financial Times la decisione sulla procedura sarà rinviata. Troppo pericolosa, per la tenuta dei mercati, una stangata.Lo speciale contiene tre articoli.Sorpresa: la Lega non è un monolite. In questo primo anno di governo del cambiamento ci eravamo abituati a uno schema con tre centri decisionali: il Carroccio, il M5s e il Quirinale in asse con il premier Giuseppe Conte e il ministro dell'Economia, Giovanni Tria. La Lega è sempre apparsa super compatta intorno a Matteo Salvini; Conte si è barcamenato tra i suggerimenti del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e le indicazioni dei due partiti di maggioranza; il M5s invece lo abbiamo visto sempre frastagliato, con la corrente governista guidata da Luigi Di Maio perennemente criticata dall'ala ortodossa, di sinistra radicale, che fa capo al presidente della Camera Roberto Fico. Recentemente, a complicare ancora di più il già difficile lavoro di Di Maio, è arrivato pure Alessandro Di Battista. Altro elemento caratterizzante l'azione del governo, il «soccorso nerazzurro» arrivato in diverse occasioni da Fratelli d'Italia e Forza Italia su provvedimenti voluti dalla Lega e digeriti malvolentieri, con tanto di assenze al momento del voto in aula, dal M5s: un esempio su tutti, la legge sulla legittima difesa.Ora, con la (parziale) sconfessione dei minibot da parte di Giancarlo Giorgetti, è venuto a galla che anche nella Lega ci sono diverse sensibilità. Il moltiplicarsi dei centri decisionali non è necessariamente un dato negativo, purché alla fine, al momento del voto in parlamento o in Consiglio dei ministri, si arrivi sempre a trovare un equilibrio di sintesi. Fino a questo momento, è sempre stato così, ed è probabile che si continuerà ad andare avanti su questo percorso: litigare fino allo sfinimento sui social, sui giornali e in tv ma ritornare compatti quando dai talk show si passa alla Camera e al Senato.Nella Lega, ad esempio, non ci si divide solo sui minibot. L'autonomia differenziata di Lombardia, Veneto e Emilia Romagna è motivo di dissapori interni al Carroccio: i leghisti lombardi e soprattutto quelli veneti, a partire dai due governatori, Attilio Fontana e Luca Zaia, vorrebbero accelerare sull'iter; Salvini, ormai proiettato nella nuova dimensione di leader nazionale e europeo, non vuole mettere a rischio il governo, ben sapendo che il M5s, il cui granaio elettorale è al Sud, andrebbe in mille pezzi; Forza Italia è a sua volta spaccata in due come una mela, con l'ala nordista (Giovanni Toti) favorevole e quella sudista (Mara Carfagna) contraria. Fratelli d'Italia non garantirebbe il sostegno a un'autonomia «spinta». Se si andasse quindi alla discussione in aula, alla Camera e al Senato, e non solo in commissione (lo decideranno i presidenti, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati) ogni votazione sarebbe un terno al lotto.Sull'economia, le divisioni fioccano. La Lega è compatta sulla flat tax, che non piace al M5s ma avrebbe il sostegno di Forza Italia e Fdi. In ogni caso, Luigi Di Maio sarebbe pronto a approvare la «tassa piatta», finanziandola in deficit, e qui entra in campo il subgoverno Mattarella-Conte-Tria, che non vuole ulteriori strappi con l'Europa. «Deve essere graduale e coperta dai tagli alla spesa», ha detto pochi giorni fa il ministro dell'Economia al Financial Times. In realtà, nel M5s non manca chi è a favore sia della flat tax che dell'autonomia: intervistata dalla Verità, Paola Taverna, vicepresidente del Senato, ha recentemente dichiarato di essere a favore di entrambi i provvedimenti. Il M5s, da parte sua, propone il salario minimo, che invece non piace alla Lega (tutta) e al subgoverno Mattarella-Conte-Tria.Un argomento che vede la Lega compatta e il M5s spaccato è la Tav. Il Carroccio, così come il subgoverno, è per completare l'opera, e in effetti al di là delle chiacchiere televisive la Torino-Lione sta andando avanti. Anche Forza Italia, Fratelli d'Italia e Pd sono favorevoli. Il M5s ha diverse posizioni sull'argomento: Di Battista e Fico sono contrari, mentre Laura Castelli, viceministro all'Economia, vicinissima a Di Maio, ha manifestato la sua disponibilità a discutere di uno dei tanti progetti «light» dell'opera. Sui temi della giustizia, Lega e M5s hanno visioni molto diverse. I pentastellati sono ancorati a posizioni iper-giustizialiste: il ministro Alfonso Bonafede ha preparato una bozza di riforma che prevede il blocco della prescrizione dal gennaio 2020 e una nuova regolamentazione sulla pubblicazione delle intercettazioni. Su questo tema, Matteo Salvini ha una posizione molto dura: il ministro dell'Interno ha più volte etichettato come «indecente» la pubblicazione sui giornali di conversazioni prive di rilievo penale. Per il Carroccio è il ministro della Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, a curare il dossier: la sua posizione sulla pubblicazione delle intercettazioni è leggermente meno rigida di quella di Salvini. Infine: le elezioni anticipate. La componente più tradizionale della Lega le vorrebbe per governare con le mani libere, Salvini frena, il M5s governista ne è terrorizzato, Di Battista non vede l'ora di tornare alle urne. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tutte-le-maggioranze-alternative-su-giustizia-tav-tasse-e-autonomie-2638973219.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-pignolo-boeri-si-accorge-solo-ora-delle-buste-paga-sempre-piu-basse" data-post-id="2638973219" data-published-at="1765059614" data-use-pagination="False"> Il pignolo Boeri si accorge solo ora delle buste paga sempre più basse S'è svegliato Tito Boeri. Forse qualche screanzato ha fatto rumore, e deve aver turbato il sonno (olimpico e bocconiano) dell'ex presidente dell'Istituto nazionale della previdenza sociale, eroe, martire e candidato (a tutto) del «partito» di Repubblica. E così, ieri, con il tono indignato di chi scopre una vergogna e la denuncia al mondo, il professor Boeri, intervenendo sul giornale debenedettiano, ci ha comunicato tre cose. Primo: che in Italia ci sono situazioni di sfruttamento lavorativo (ma tu guarda che scoperta). Secondo: che nel Paese esiste un elevato livello di povertà tra chi svolge lavori manuali (non gli sfugge proprio nulla). E terzo: che ci vuole un salario minimo. Attenzione, però: perché, con la bacchetta in mano, Boeri chiede a tutti gli alunni di mettere le manine sul banco e (zac! zac! zac!) non ne perdona uno. E come mai? Perché dicono di volere il salario minimo, ma in realtà (si intuisce: non avendolo consultato) starebbero prendendo fischi per fiaschi. Bacchettata ai grillini, dunque, colpevoli di aver presentato una proposta «che nulla ha a che fare con il salario minimo», ma si limita a estendere la copertura dei contratti collettivi nazionali. Bacchettata per ragioni analoghe pure a quelli del Partito democratico. Bacchettata per ragioni opposte a Fratelli d'Italia, che vorrebbero introdurre il salario minimo per chi non è coperto dalla contrattazione collettiva. E infine raffica di bacchettate (non ne basta una sola, ci fa intuire il commento di Boeri) per la Lega, che - orrore! - non vuole il salario minimo. E perché Salvini e i suoi sarebbero contrari? Forse perché, legittimamente, ritengono la misura sbagliata? No: Boeri, che ne sa una più del diavolo, ci informa che il partito di Matteo Salvini è contrario «forse anche perché una parte del suo elettorato di riferimento vive dello sfruttamento della manodopera, soprattutto di quella immigrata». Avete letto bene: l'elettorato leghista, o una sua parte, è dipinto come una masnada sfruttatori di lavoratori e immigrati. E allora che bisogna fare, per non sbagliare? Elementare, Watson: prima che quelle capre del governo e del Parlamento decidano, ci vuole una «commissione sui bassi salari». Ecco, una bella commissione: e il professor Boeri raccomanda che ci siano degli «esperti». Siamo dunque autorizzati a immaginarlo così, il docente editorialista di Repubblica, mentre interroga lo specchio: «Specchio delle mie brame, chi è il più esperto del reame?». Ma, ironia a parte, sorge un dubbio. Stiamo parlando dello stesso Tito Boeri (non un omonimo) che, fino a pochi mesi fa e per un tempo non breve (dal 24 dicembre 2014 al 16 febbraio 2019), è stato presidente dell'Inps? Tra l'altro, un presidente dell'Inps particolarmente ciarliero, prodigo di interviste e interventi pubblici ad alta intensità politica. Intendiamoci bene. Non tocca al presidente dell'Inps dettare le linee politiche a governo e parlamento. Ma, visto che interveniva un giorno sì e l'altro no, perché questo tema sembra scoprirlo proprio ora? Furono indimenticabili le sue sortite sugli immigrati che (argomentava dottamente) pagavano le pensioni agli italiani, le sue sfuriate contro quota 100, e via comiziando e ammonendo. Lo sfruttamento e i salari bassi li ha scoperti solo adesso? 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La riedizione di uno scontro con la Commissione a soli sei mesi di distanza dall'ultimo aspro contrasto, osserva il quotidiano economico britannico, comporterebbe il rischio di una crisi di fiducia da parte degli investitori circa la sostenibilità del nostro debito pubblico. All'indomani del Consiglio dell'Ue che ha visto fallire i negoziati per la nomina delle alte cariche delle istituzioni europee, il premier Giuseppe Conte aveva rilanciato fiducioso: «Sto lavorando con costanza, anche con il ministro Tria, per evitare una procedura di infrazione che farebbe male all'Italia. Nonostante la situazione sia davvero molto complicata, sono molto determinato e resto fiducioso che, grazie a un approccio costruttivo da parte di tutte le parti che siedono intorno al tavolo, si possa arrivare a una soluzione positiva nel reciproco interesse». La scorsa settimana il premier aveva indirizzato alla Commissione una lunga e accorata lettera di risposta a seguito della dichiarata volontà di aprire la procedura. Non solo cifre, ma anche importanti considerazioni politiche. Su tutte, il forte richiamo ai «crescenti segnali di insofferenza» mostrati dalla società civile e l'invito alla necessità di «affrontare con lucidità e spirito critico alcuni limiti strutturali del progetto europeo». Sul versante dei numeri, il governo si è detto più volte ottimista, e si aspetta di poter riguadagnare un margine importante grazie all'andamento della raccolta fiscale attesa essere migliore del previsto. Ma l'avvio di una procedura, e questo si legge anche tra le righe del pezzo del Ft, non causerebbe danni solo all'Italia. La mossa di rinviare a fine maggio il verdetto sui conti dell'Italia aveva una chiara finalità elettorale, così come quella di pubblicare i rapporti del semestre europeo una manciata di giorni dopo il voto. Probabilmente a un certo punto la Commissione si è resa conto che lo scontro fine a sé stesso avrebbe finito solo per alimentare il dissenso nei confronti dell'Europa, e ha preferito così spostare il tiro su altre tematiche. Esaurita la tornata elettorale, la diatriba sull'Italia si inserisce nel contesto delle nomine per i «top jobs» continentali (presidenza della Commissione ma anche del Parlamento, della Bce e del Consiglio e dell'Alto rappresentante per gli affari esteri). Il pressing sui conti, serrato ma non asfissiante, fino a oggi è stato orientato alla politica della «porta aperta». La scelta di concedere sei mesi di tempo, anziché tre, per consentire «al governo italiano di adottare misure efficaci» (specie per ciò che concerne la riduzione del debito) va proprio in questa direzione. Ciò nonostante, Bruxelles ci tiene a chiudere la partita prima che la nuova Commissione prenda il potere. Se è ormai chiaro che l'Italia dovrà rinunciare ai tre incarichi di rilievo che ricopre oggi con Mario Draghi, Antonio Tajani e Federica Mogherini, non si può nemmeno negare il ruolo attivo che il nostro Paese può giocare in questa circostanza. Il calendario è piuttosto serrato. Oggi Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici aggiorneranno il presidente Juncker sulla vicenda italiana, mentre il 30 giugno è previsto un nuovo meeting per cercare la quadra sulle nomine. Dal 2 al 4 luglio il Parlamento europeo eleggerà il successore di Tajani, mentre il 9 luglio si svolgerà l'Ecofin che deciderà definitivamente sulla nostra procedura di infrazione.
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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