
La Casa Bianca annuncia il rientro dei soldati da Siria e Afghanistan e il governo si spacca: il segretario alla Difesa, James Mattis, dà le dimissioni, nel Partito repubblicano c'è scetticismo. Pur di non applaudire il puzzone, pure la sinistra insorge contro di lui.La politica estera dell'amministrazione Trump sembra stia dando una sterzata decisamente isolazionista: in particolare dopo il recente annuncio, da parte del presidente americano, di voler ritirare le truppe statunitensi dal territorio siriano e afghano. Una notizia a dir poco esplosiva dalle parti di Washington, che ha creato un parapiglia politico notevole. Non soltanto il segretario alla Difesa, James Mattis, ha annunciato le proprie dimissioni, ma, più in generale, si è verificata una vera e propria levata di scudi in seno allo stesso Partito repubblicano. Numerosi senatori hanno infatti criticato duramente la decisione di Trump, affermando che il disimpegno dalla Siria altro non farebbe se non rafforzare la posizione della Russia nell'area.Un'eventualità (non certo remota) che l'establishment repubblicano vede come il proverbiale fumo negli occhi. Un'eventualità che ha condotto lo stesso Mattis a dimettersi: non è difatti un mistero che tra Trump e il capo del Pentagono ci siano da tempo degli attriti. Non solo sulla Siria ma, più in generale, anche sulla distensione dei rapporti con Mosca. Senza poi dimenticare il dossier iraniano. Pur non essendo certo un ammiratore della Repubblica islamica, Mattis non ha mai condiviso il ritiro statunitense dall'accordo sul nucleare, considerandolo di fatto soltanto un favore geopolitico a Mosca. Alla luce di tutto questo, è chiaro che la debole «pax repubblicana» che si era venuta a creare attorno alla figura di Trump stia, in questo periodo, subendo vigorosi scossoni. Le ali più tradizionaliste dell'elefantino vedevano infatti in Mattis una sorta di baluardo in difesa delle loro idee: politica internazionale muscolare, difesa del soft power americano all'estero e diffusione a livello globale del libero mercato.Tutti elementi che, come si intuisce, cozzano (e neanche poco) con il modello trumpiano dell'America First. Un modello rispetto a cui il presidente è dovuto scendere comunque a vari compromessi in questi due anni. Se oggi la divaricazione tra il tendenziale isolazionismo di Trump e il «globalismo» dei repubblicani classici appare con maggiore evidenza, non dobbiamo tuttavia neppure dimenticare che il presidente abbia dovuto spesso cedere su varie questioni in passato. Il tentativo di disgelo con il Cremlino, per esempio, si è sempre rivelato irto di ostacoli: soprattutto a causa del ricatto politico rappresentato dall'inchiesta Russiagate. Un'inchiesta che, se sotto il profilo penale non ha ad oggi prodotto granché, ha comunque rappresentato una straordinaria arma per coartare le politiche «eretiche» del presidente. In tutto questo, non dimentichiamo poi gli attacchi militari alla Siria che questa presidenza (per quanto obtorto collo) ha condotto, proprio sotto la pressione di dinamiche legate alla politica interna statunitense. Insomma, le dimissioni di Mattis mettono nuovamente in chiaro come, soprattutto sul fronte internazionale, la Casa Bianca sia costantemente costretta a muoversi tra complicatissimi equilibrismi. E che tutto questo non possa essere quindi semplicisticamente derubricato a dilettantismo o a faciloneria. Il desiderio di Trump sarebbe infatti quello di superare definitivamente le vecchie logiche della Guerra fredda, secondo una prospettiva realista di matrice nixoniana: il problema è il quotidiano Vietnam cui il magnate si trova sottoposto a Washington, che gli impedisce di fatto di muoversi con la disinvoltura che vorrebbe. Anche perché, esattamente come Barack Obama, The Donald è un presidente abituato a governare con i sondaggi tra le mani. E, proprio per questo, sa perfettamente che ormai il classico approccio muscolare della politica estera americana risulti profondamente impopolare tra gli elettori statunitensi. Non a caso, nei mesi scorsi, il magnate aveva a più riprese promesso un ritiro dalla Siria proprio nel corso di alcuni comizi elettorali. E con le presidenziali che si avvicinano non è escludibile che il recente annuncio abbia un primario obiettivo di natura elettorale. Che del resto ci sia un rimescolamento ideologico in atto è evidente non soltanto negli Usa. Se un tempo la sinistra italiana si contraddistingueva per posizioni pacifiste e duramente anti americaniste, oggi quella stessa sinistra (o quel che ne resta) sembra aver cambiato opinione. Il Partito democratico, per esempio, ha mostrato non poca avversione per Assad. E anche la posizione espressa sulla Russia appare abbastanza ondivaga o sostanzialmente tendente ad accusare Putin di hackerare e spiare le democrazie di tutto il mondo. Una posizione che fa il paio con quella dei repubblicani americani più tradizionalisti che accusano Trump di arrendevolezza verso il Cremlino. Paradosso tra i paradossi: la sinistra italiana si ritrova oggi dalla stessa parte che fu di Ronald Reagan. A questo punto, la fine del mondo non è forse troppo lontana.
Getty images
Attacco in Qatar per colpire i capi dell’organizzazione terroristica riuniti per discutere l’ultima offerta del presidente Usa. I media palestinesi smentiscono la morte dei vertici. Sdegno di Papa e capi di Stato.
La Procura di Torino indaga su un presunto sistema di frode fiscale basato su appalti fittizi e somministrazione irregolare di manodopera. Nove persone e dieci società coinvolte, beni sequestrati e amministrazione giudiziaria di una società con 500 dipendenti.
content.jwplatform.com
Pubblicati sui social i filmati del presunto attacco, ma le autorità tunisine negano presenze ostili nei cieli: «Solo un incendio».