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2024-12-13
Trump avverte Netanyahu: «Voglio la pace»
Donald Trump (Getty Images)
Per Donald Trump, guerra e pace sono inestricabilmente intrecciate in Medio Oriente. Nella sua intervista a Time, il presidente americano in pectore ha chiesto la cessazione delle ostilità a Gaza ma, al contempo, non ha escluso un conflitto con l’Iran.
In particolare, parlando della crisi nella Striscia e riferendosi a Benjamin Netanyahu, ha dichiarato: «Penso che abbia fiducia in me e che sappia che voglio che finisca. Voglio che tutto finisca. Non voglio che vengano uccise persone». Quando gli è stato chiesto se si fida del premier israeliano, il tycoon ha replicato: «Non mi fido di nessuno». Trump ha anche rivendicato gli Accordi di Abramo (da lui mediati nel 2020), non ha chiarito le sue intenzioni sulla Cisgiordania e, pur non escludendola a priori, ha rifiutato di impegnarsi totalmente a favore della soluzione a due Stati. «Io sostengo qualsiasi soluzione possiamo adottare per ottenere la pace. Ci sono altre idee oltre ai due Stati, ma sostengo qualsiasi cosa, qualsiasi cosa sia necessaria per ottenere non solo la pace, ma una pace duratura», ha affermato, specificando di voler evitare un nuovo 7 ottobre, da lui definito «un giorno tragico». Tuttavia attenzione: pur invocando una cessazione delle ostilità a Gaza, Trump non ha escluso un conflitto con l’Iran. Quando gli è stato chiesto quali sono le probabilità di una guerra contro Teheran durante la sua nuova amministrazione, ha infatti risposto: «Tutto può succedere. Tutto può succedere. È una situazione molto volatile».
Nel frattempo, la diplomazia continua a muoversi. Mercoledì, il direttore del Mossad, David Barnea, ha incontrato a Doha il primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, per discutere di un accordo su ostaggi e cessate il fuoco a Gaza. Tutto questo, mentre, nello stesso giorno, il Wall Street Journal rivelava che Hamas avrebbe aperto alla possibilità che, nell’ambito di un’intesa per la tregua, le truppe dell’Idf restino temporaneamente nella Striscia. Se le cose stessero veramente così, l’organizzazione terroristica avrebbe accettato una delle principali richieste avanzate da Israele. La stessa testata ha inoltre riferito che l’accordo attualmente sul tavolo prevedrebbe un cessate il fuoco di 60 giorni. Verrebbero poi liberati prigionieri (tra cui cittadini americani) da entrambe le parti, mentre Israele permetterebbe un incremento degli aiuti umanitari nella Striscia. In questo quadro, ieri, il consigliere per la sicurezza nazionale americano, Jake Sullivan, ha detto che Netanyahu «è pronto a raggiungere un’intesa».
Tali recenti sviluppi sono frutto degli ultimi avvenimenti. In primis, a inizio dicembre, Trump aveva minacciato Hamas, dicendo che avrebbe «scatenato l’inferno» se gli ostaggi non fossero stati rilasciati entro la data del suo insediamento alla Casa Bianca. In secondo luogo, la crisi siriana ha avuto impatti profondi. La caduta di Bashar Al Assad ha indebolito ulteriormente l’Iran che, in questi anni, è stato tra i principali finanziatori della stessa Hamas. L’organizzazione terroristica ha quindi fatto buon viso a cattivo gioco. Ha esultato, sì, per il crollo del dittatore siriano ma lo ha fatto per una ragione ben precisa: per tornare, cioè, pienamente sotto l’ombrello del suo altro storico sponsor, il Qatar. Parliamo di quel Qatar che, assieme alla Turchia, ha di fatto spalleggiato gli insorti siriani che hanno abbattuto il regime ba’thista di Damasco: un regime che - ricordiamolo - era il principale alleato mediorientale di Teheran. Con l’Iran così debole, Doha, che vuole ritagliarsi il ruolo di mediatore cruciale, ha quindi adesso più leva per convincere Hamas ad accettare anche le condizioni maggiormente indigeste.
E qui veniamo alla neppur troppo velata minaccia di Trump nei confronti dell’Iran, formulata durante la sua intervista a Time. Primo: il presidente americano in pectore vuole mettere sotto pressione gli ayatollah per evitare che spingano nuovamente Hamas a far deragliare non solo l’intesa su ostaggi e cessate il fuoco ma anche il piano di pace per il conflitto israelo-palestinese: stiamo parlando del cosiddetto «accordo del secolo», che il tycoon aveva presentato durante il primo mandato e che Joe Biden aveva frettolosamente archiviato. Secondo qualcuno, Trump sarebbe ora intenzionato a rispolverarlo e stavolta potrebbe avere successo, visto che i suoi rapporti con Abu Mazen - ricevuto ieri da papa Francesco - sembrano migliorati. In secondo luogo, e qui veniamo agli Accordi di Abramo, Trump punta a spegnere le ambizioni nucleari di Teheran, che sono temute tanto da Israele quanto dall’Arabia Saudita. Il timore è che, per ripristinare la deterrenza a seguito dell’indebolimento subìto, il regime khomeinista possa accelerare nel suo tentativo di dotarsi dell’arma atomica. Guarda caso, proprio ieri, alcuni funzionari israeliani hanno fatto sapere al Times of Israel che lo Stato ebraico sarebbe pronto a bombardare i siti nucleari iraniani.
È chiaro che sia Trump che Netanyahu guardano di buon occhio all’indebolimento di Teheran promosso da Qatar e Turchia. Tuttavia, dall’altra parte, Doha e Ankara sono storici sostenitori della Fratellanza musulmana. Il che è fonte di preoccupazione per Israele e per i Paesi sunniti che hanno sottoscritto gli Accordi di Abramo (come gli Emirati) o che potrebbero sottoscriverli (come l’Arabia Saudita). E proprio la Fratellanza musulmana rappresenta la grande sfida che attende Trump in Medio Oriente.
Tregua «turca» tra Etiopia e Somalia. Erdogan s’allarga nel Corno d’Africa
Non solo Siria e Ucraina. Recep Tayyip Erdogan punta a rivelarsi decisivo anche nel Corno d’Africa. Mercoledì, il leader turco ha ricevuto ad Ankara il presidente somalo, Hassan Sheikh Mohamud, e il premier etiope, Abiy Ahmed, mediando con successo un’intesa tra i due. In particolare, Addis Abeba e Mogadiscio hanno concordato di risolvere per via diplomatica la loro grave disputa sul Somaliland. «I leader di Somalia ed Etiopia hanno riaffermato il loro rispetto e impegno verso la sovranità, l’unità, l’indipendenza e l’integrità territoriale reciproca, superando malintesi e conflitti per progredire insieme verso un benessere condiviso», recita una dichiarazione congiunta dei due Paesi, pubblicata dopo i loro incontri separati con il sultano. Il documento aggiunge che Somalia ed Etiopia «hanno accolto con favore l’assistenza della Turchia nell’attuazione di questi impegni e si sono impegnati a risolvere eventuali differenze in modo pacifico». Ricordiamo che, a gennaio, il Somaliland aveva garantito all’Etiopia l’accesso al Mar Rosso in cambio di un possibile riconoscimento diplomatico da parte del governo di Addis Abeba. L’intesa aveva irritato notevolmente Mogadiscio, che considera il Somaliland come parte del proprio territorio. Ne erano sorte notevoli tensioni, tanto che si paventava l’esplodere di un conflitto armato. In questo clima, a ottobre, la Somalia aveva rafforzato i legami di sicurezza con Eritrea ed Egitto in chiave anti etiope. Ma che cosa ci guadagna Erdogan da questa mediazione? Innanzitutto, il sultano aveva consolidato significativamente i propri rapporti nel settore della Difesa sia con l’Etiopia (nel 2021), sia con la Somalia (nel 2024). Non ha quindi alcun interesse che i due Paesi si facciano la guerra. In secondo luogo, incrementando la propria influenza sulla Somalia, il presidente turco potrà, grazie soprattutto al porto di Bosaso, esercitare una maggiore proiezione verso il Golfo di Aden e, dunque, verso lo Yemen. Il che gli consente di mettere sotto pressione gli Huthi, che sono storicamente spalleggiati dall’Iran. Quello stesso Iran a cui Erdogan ha recentemente sferrato un duro colpo, appoggiando de facto l’offensiva dei ribelli siriani contro Bashar Al Assad. D’altronde, l’assistenza militare turca a Mogadiscio è anche finalizzata alla lotta contro l’organizzazione jihadista Al Shabaab: era lo scorso luglio, quando la Cnn riportò che, secondo l’intelligence americana, gli Huthi sarebbero stati in trattative con questo gruppo per fornirgli armamenti. In terzo luogo, più in generale, Erdogan sta rafforzando la propria influenza sul continente africano. Non a caso, sta promuovendo un disgelo nei confronti di alcuni governi con cui è stato in passato ai ferri corti a causa del suo sostegno alla Fratellanza musulmana. A novembre, il sultano ha mandato un proprio inviato a Bengasi per incontrare i vertici delle forze militari del generale Khalifa Haftar. A settembre, ha ricevuto il presidente egiziano, Abdel Fattah Al Sisi, siglando con lui numerosi accordi e avviando uno Strategic cooperation council tra Turchia ed Egitto. Il mese scorso, Ankara e Il Cairo hanno inoltre concordato di cooperare per una stabilizzazione dei rapporti tra Mogadiscio e Addis Abeba. Sembrerebbe che, dopo averle assestato un colpo in Siria, il sultano voglia arginare la Russia sia in Nord Africa (Egitto ed Est libico) sia nel Corno d’Africa (Somalia ed Etiopia). La sua strategia è sempre la stessa: combinare forza e diplomazia, usando l’attività di mediazione per acquisire centralità geopolitica.
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Il presidente Usa eletto: «Deve finire tutto, Bibi lo sa ma non mi fido di nessuno». Passi avanti a Doha nella trattativa tra il Mossad e Hamas per liberare gli ostaggi . The Donald intanto mette pressione anche sugli ayatollah: «Non escludo un conflitto con l’Iran». Ankara media con successo tra Addis Abeba e Mogadiscio. Ora tremano gli Huthi.Lo speciale contiene due articoli.Per Donald Trump, guerra e pace sono inestricabilmente intrecciate in Medio Oriente. Nella sua intervista a Time, il presidente americano in pectore ha chiesto la cessazione delle ostilità a Gaza ma, al contempo, non ha escluso un conflitto con l’Iran. In particolare, parlando della crisi nella Striscia e riferendosi a Benjamin Netanyahu, ha dichiarato: «Penso che abbia fiducia in me e che sappia che voglio che finisca. Voglio che tutto finisca. Non voglio che vengano uccise persone». Quando gli è stato chiesto se si fida del premier israeliano, il tycoon ha replicato: «Non mi fido di nessuno». Trump ha anche rivendicato gli Accordi di Abramo (da lui mediati nel 2020), non ha chiarito le sue intenzioni sulla Cisgiordania e, pur non escludendola a priori, ha rifiutato di impegnarsi totalmente a favore della soluzione a due Stati. «Io sostengo qualsiasi soluzione possiamo adottare per ottenere la pace. Ci sono altre idee oltre ai due Stati, ma sostengo qualsiasi cosa, qualsiasi cosa sia necessaria per ottenere non solo la pace, ma una pace duratura», ha affermato, specificando di voler evitare un nuovo 7 ottobre, da lui definito «un giorno tragico». Tuttavia attenzione: pur invocando una cessazione delle ostilità a Gaza, Trump non ha escluso un conflitto con l’Iran. Quando gli è stato chiesto quali sono le probabilità di una guerra contro Teheran durante la sua nuova amministrazione, ha infatti risposto: «Tutto può succedere. Tutto può succedere. È una situazione molto volatile». Nel frattempo, la diplomazia continua a muoversi. Mercoledì, il direttore del Mossad, David Barnea, ha incontrato a Doha il primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, per discutere di un accordo su ostaggi e cessate il fuoco a Gaza. Tutto questo, mentre, nello stesso giorno, il Wall Street Journal rivelava che Hamas avrebbe aperto alla possibilità che, nell’ambito di un’intesa per la tregua, le truppe dell’Idf restino temporaneamente nella Striscia. Se le cose stessero veramente così, l’organizzazione terroristica avrebbe accettato una delle principali richieste avanzate da Israele. La stessa testata ha inoltre riferito che l’accordo attualmente sul tavolo prevedrebbe un cessate il fuoco di 60 giorni. Verrebbero poi liberati prigionieri (tra cui cittadini americani) da entrambe le parti, mentre Israele permetterebbe un incremento degli aiuti umanitari nella Striscia. In questo quadro, ieri, il consigliere per la sicurezza nazionale americano, Jake Sullivan, ha detto che Netanyahu «è pronto a raggiungere un’intesa». Tali recenti sviluppi sono frutto degli ultimi avvenimenti. In primis, a inizio dicembre, Trump aveva minacciato Hamas, dicendo che avrebbe «scatenato l’inferno» se gli ostaggi non fossero stati rilasciati entro la data del suo insediamento alla Casa Bianca. In secondo luogo, la crisi siriana ha avuto impatti profondi. La caduta di Bashar Al Assad ha indebolito ulteriormente l’Iran che, in questi anni, è stato tra i principali finanziatori della stessa Hamas. L’organizzazione terroristica ha quindi fatto buon viso a cattivo gioco. Ha esultato, sì, per il crollo del dittatore siriano ma lo ha fatto per una ragione ben precisa: per tornare, cioè, pienamente sotto l’ombrello del suo altro storico sponsor, il Qatar. Parliamo di quel Qatar che, assieme alla Turchia, ha di fatto spalleggiato gli insorti siriani che hanno abbattuto il regime ba’thista di Damasco: un regime che - ricordiamolo - era il principale alleato mediorientale di Teheran. Con l’Iran così debole, Doha, che vuole ritagliarsi il ruolo di mediatore cruciale, ha quindi adesso più leva per convincere Hamas ad accettare anche le condizioni maggiormente indigeste. E qui veniamo alla neppur troppo velata minaccia di Trump nei confronti dell’Iran, formulata durante la sua intervista a Time. Primo: il presidente americano in pectore vuole mettere sotto pressione gli ayatollah per evitare che spingano nuovamente Hamas a far deragliare non solo l’intesa su ostaggi e cessate il fuoco ma anche il piano di pace per il conflitto israelo-palestinese: stiamo parlando del cosiddetto «accordo del secolo», che il tycoon aveva presentato durante il primo mandato e che Joe Biden aveva frettolosamente archiviato. Secondo qualcuno, Trump sarebbe ora intenzionato a rispolverarlo e stavolta potrebbe avere successo, visto che i suoi rapporti con Abu Mazen - ricevuto ieri da papa Francesco - sembrano migliorati. In secondo luogo, e qui veniamo agli Accordi di Abramo, Trump punta a spegnere le ambizioni nucleari di Teheran, che sono temute tanto da Israele quanto dall’Arabia Saudita. Il timore è che, per ripristinare la deterrenza a seguito dell’indebolimento subìto, il regime khomeinista possa accelerare nel suo tentativo di dotarsi dell’arma atomica. Guarda caso, proprio ieri, alcuni funzionari israeliani hanno fatto sapere al Times of Israel che lo Stato ebraico sarebbe pronto a bombardare i siti nucleari iraniani. È chiaro che sia Trump che Netanyahu guardano di buon occhio all’indebolimento di Teheran promosso da Qatar e Turchia. Tuttavia, dall’altra parte, Doha e Ankara sono storici sostenitori della Fratellanza musulmana. Il che è fonte di preoccupazione per Israele e per i Paesi sunniti che hanno sottoscritto gli Accordi di Abramo (come gli Emirati) o che potrebbero sottoscriverli (come l’Arabia Saudita). E proprio la Fratellanza musulmana rappresenta la grande sfida che attende Trump in Medio Oriente. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-avverte-netanyahu-voglio-pace-2670448421.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tregua-turca-tra-etiopia-e-somalia-erdogan-sallarga-nel-corno-dafrica" data-post-id="2670448421" data-published-at="1734093484" data-use-pagination="False"> Tregua «turca» tra Etiopia e Somalia. Erdogan s’allarga nel Corno d’Africa Non solo Siria e Ucraina. Recep Tayyip Erdogan punta a rivelarsi decisivo anche nel Corno d’Africa. Mercoledì, il leader turco ha ricevuto ad Ankara il presidente somalo, Hassan Sheikh Mohamud, e il premier etiope, Abiy Ahmed, mediando con successo un’intesa tra i due. In particolare, Addis Abeba e Mogadiscio hanno concordato di risolvere per via diplomatica la loro grave disputa sul Somaliland. «I leader di Somalia ed Etiopia hanno riaffermato il loro rispetto e impegno verso la sovranità, l’unità, l’indipendenza e l’integrità territoriale reciproca, superando malintesi e conflitti per progredire insieme verso un benessere condiviso», recita una dichiarazione congiunta dei due Paesi, pubblicata dopo i loro incontri separati con il sultano. Il documento aggiunge che Somalia ed Etiopia «hanno accolto con favore l’assistenza della Turchia nell’attuazione di questi impegni e si sono impegnati a risolvere eventuali differenze in modo pacifico». Ricordiamo che, a gennaio, il Somaliland aveva garantito all’Etiopia l’accesso al Mar Rosso in cambio di un possibile riconoscimento diplomatico da parte del governo di Addis Abeba. L’intesa aveva irritato notevolmente Mogadiscio, che considera il Somaliland come parte del proprio territorio. Ne erano sorte notevoli tensioni, tanto che si paventava l’esplodere di un conflitto armato. In questo clima, a ottobre, la Somalia aveva rafforzato i legami di sicurezza con Eritrea ed Egitto in chiave anti etiope. Ma che cosa ci guadagna Erdogan da questa mediazione? Innanzitutto, il sultano aveva consolidato significativamente i propri rapporti nel settore della Difesa sia con l’Etiopia (nel 2021), sia con la Somalia (nel 2024). Non ha quindi alcun interesse che i due Paesi si facciano la guerra. In secondo luogo, incrementando la propria influenza sulla Somalia, il presidente turco potrà, grazie soprattutto al porto di Bosaso, esercitare una maggiore proiezione verso il Golfo di Aden e, dunque, verso lo Yemen. Il che gli consente di mettere sotto pressione gli Huthi, che sono storicamente spalleggiati dall’Iran. Quello stesso Iran a cui Erdogan ha recentemente sferrato un duro colpo, appoggiando de facto l’offensiva dei ribelli siriani contro Bashar Al Assad. D’altronde, l’assistenza militare turca a Mogadiscio è anche finalizzata alla lotta contro l’organizzazione jihadista Al Shabaab: era lo scorso luglio, quando la Cnn riportò che, secondo l’intelligence americana, gli Huthi sarebbero stati in trattative con questo gruppo per fornirgli armamenti. In terzo luogo, più in generale, Erdogan sta rafforzando la propria influenza sul continente africano. Non a caso, sta promuovendo un disgelo nei confronti di alcuni governi con cui è stato in passato ai ferri corti a causa del suo sostegno alla Fratellanza musulmana. A novembre, il sultano ha mandato un proprio inviato a Bengasi per incontrare i vertici delle forze militari del generale Khalifa Haftar. A settembre, ha ricevuto il presidente egiziano, Abdel Fattah Al Sisi, siglando con lui numerosi accordi e avviando uno Strategic cooperation council tra Turchia ed Egitto. Il mese scorso, Ankara e Il Cairo hanno inoltre concordato di cooperare per una stabilizzazione dei rapporti tra Mogadiscio e Addis Abeba. Sembrerebbe che, dopo averle assestato un colpo in Siria, il sultano voglia arginare la Russia sia in Nord Africa (Egitto ed Est libico) sia nel Corno d’Africa (Somalia ed Etiopia). La sua strategia è sempre la stessa: combinare forza e diplomazia, usando l’attività di mediazione per acquisire centralità geopolitica.
Massimo Giannini (Ansa)
Se a destra la manifestazione dell’indipendenza di pensiero ha prodotto sconcerto e un filo d’irritazione, a sinistra ha causato brividi di sconcerto e profondo stupore. Particolarmente emozionato Massimo Giannini di Repubblica, il quale ha intuito di aver assistito a qualcosa di importante ma non ha capito bene di che si tratti. Il noto editorialista ieri ha pensato di parassitare il pensiero di Veneziani e di aggrapparsi ai commenti di altre voci libere come Mario Giordano, Franco Cardini e Giordano Bruno Guerri per sputare un po' di veleno sul governo. «Se rimettiamo insieme le parole e le opere della premier e della sua milizia», ha scritto Giannini, «qual è la svolta culturale che segna il cambio d’epoca? La Ducia Maior: qualche frasetta sciolta di Roger Scruton in Parlamento, qualche citazione a caso di Thomas Eliot al meeting di Rimini. I gerarchi minori: qualche intemerata su Peppa Pig da Mollicone, qualche pièce teatrale di Mellone. Per il resto, fuffa ideologica e poltronificio».
Liquidati i nemici politici, Giannini si è messo a parlare della sinistra, e lo ha fatto secondo il più classico copione della rampogna progressista. Funziona così: prima si ribadisce l’inevitabile superiorità morale, poi si finge di avanzare una critica per dimostrare d’essere fedelissimi ma pure un po' pensosi. «Nonostante le disfatte elettorali, la rive gauche è ancora popolata di scrittori e attori, registi e opinionisti», dice Giannini. «Ma con due differenze fondamentali rispetto all’altra sponda. La prima è che nessuno li alleva: non c’è più il Pci di Berlinguer, che organizzava gli stati generali della cultura convocando intellettuali di ogni ordine e grado. La seconda è che nessuno li criminalizza: se di qua sono di casa la critica distruttiva al Pd e la satira abrasiva sul campo largo, di là non capita mai nulla di simile».
A ben vedere, sono false entrambe le affermazioni. Vero che non esiste più il Pci con la sua cultura d’apparato, ma è vero pure che a intrupparsi i creativi sinistrorsi ci pensano da soli, seguendo alla lettera le indicazioni di un comitato centrale evanescente ma sempre autoritario che si è incistato nei loro cervelli: fedeli alla linea anche quando la linea non c’è. E infatti non appena qualcuno esce dal seminato, subito i rimasugli del progressismo intellettuale lo crocifiggono in sala mensa. Che si tratti di Massimo Cacciari, Giorgio Agamben, Carlo Rovelli, Lucio Caracciolo, Angelo D’Orsi, Luca Ricolfi o altri venerati maestri, poco importa: chi tradisce la paga cara, e solo dopo appropriata quarantena può tornare a dirsi presentabile.
Ed è esattamente qui che sta il punto. Giannini e gli altri del suo giro non hanno i galloni per fare la morale a chicchessia. S’attaccano alla stoffa altrui - quella di Veneziani nello specifico - perché difettano della propria. Se la destra non ha brillato per originalità, la sinistra in questi anni si è risvegliata dal coma soltanto per chiedere la censura di questo o quell’altro, per infangare e demonizzare, per appiccare roghi e costruire gogne. Infamie di cui hanno fatto le spese autori di ogni orientamento: di destra, soprattutto, ma pure di sinistra, se indipendenti e intellettualmente onesti.
Giannini resta comprensibilmente ammirato dalla tempra dei Veneziani, dei Cardini e dei Giordano perché dalle sue parti non esiste, e se esiste è avversata con ferocia (altro che le sfuriate infantili viste a destra negli ultimi giorni). E infatti l’editorialista di Repubblica che fa? Prende le parti del nemico solo nella misura in cui sono utili alla sua causa. Non celebra l’onestà e il piglio avventuroso: li perverte per metterli - per altro senza riuscirci - al servizio della sua ortodossia. Sfrutta l’indipendenza altrui per ribadire la propria servitù.
Tutto ciò sarebbe decisamente poco interessante se non donasse una lezione anche alla destra, ai patrioti e ai conservatori o sedicenti tali. Il problema, per usare un nannimorettismo oggi di moda, non è Giannini in sé, ma Giannini in noi. Tradotto: per imporre l’egemonia soffocando la libertà basta e avanza Repubblica. E se il carro dei vincitori somiglia a quello dei perdenti, tanto vale perdere, almeno ci si risparmia la spocchia.
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Giuseppe Cruciani (Ansa)
Il professor Lorenzo Castellani, ricercatore e docente di storia delle istituzioni politiche presso la Luiss di Roma, nonché autore di Eminenze grigie. Uomini all’ombra del potere (2024), su X sintetizza così: «Checco Zalone ha spianato i petulanti stand up comedian (quasi tutti «impegnati» a sinistra); Corona sfida i media tradizionali con un linguaggio da uomo qualunque e fa decine di milioni di visualizzazioni; la Zanzara riempie i teatri ed è la trasmissione più ascoltata del Paese. Si è detto per anni che la sinistra sia egemone nell’alta cultura (vero, diciamo, all’80%), ma la «non-sinistra» (non la chiamerei semplicemente destra) ha interamente in mano la cultura e il linguaggio popolare».
Professor Castellani, quindi vorrebbe dirci che la cultura non è più solo ad appannaggio della sinistra?
«Se guardiamo alle istituzioni della cultura ovvero ai luoghi ufficiali della stessa è sempre la sinistra a primeggiare. Ma se guardiamo alla cultura in senso ampio, allora cambia tutto. L’alta cultura è predominante nelle istituzioni ufficiali della sinistra ma in altri ambiti l’ideologia di sinistra viene sconfitta da altre manifestazioni culturali che incontrano di più i gusti del Paese».
Si riferisce a Zalone?
«Certo, anche. Zalone è sempre stato apolitico, non ha mai ceduto al politicamente corretto. Fa un cinema che fa riflettere e non vuole indottrinare nessuno, non fa moralismi a senso unico come capita ad altri tipi di comicità di sinistra».
Sanremo è di destra o di sinistra? A volte legare la politica a certe forme di spettacolo non fa scadere nel ridicolo?
«Anche a Sanremo non c’è più una forma di piena differenziazione tra alta cultura e cultura nazionale popolare. A me piace parlare di cultura in senso ampio, non solo di alta cultura, la “Kultur alla tedesca”, che permea nel popolo e permette riflessioni ampie».
Di che tipo?
«Sembra sempre ci sia questa contrapposizione tra il mondo dell’alta cultura, cinema, teatri, fondazioni, fiere del libro, case editrici, think tank nelle università, dove c’è oggettivamente sempre il predominio della sinistra, del mondo progressista, nelle sue varie sfaccettature, e grandi fenomeni di cultura di massa dove prevale l’esatto contrario rispetto all’etica progressista e a quell’atteggiamento pedagogico-educativo e moralistico che il mondo di sinistra tende ad avere nei confronti del popolo. L’idea di fondo della sinistra è stata sempre quella che bisogna civilizzare gli italiani e portarli con la mano come bimbi verso comportamenti più virtuosi».
Ma oggi non è più così. Ci sono vari altri casi giusto?
«Esatto, abbiamo un Fabrizio Corona che su YouTube, con un linguaggio molto politicamente scorretto, attacca il potere in tutte le sue forme e ha un successo enorme. Lo fa in maniera qualunquistica ma è questo che piace alla gente. Si occupa di questioni di cultura di massa, fenomeni che riguardano il crime, il trash, che non rientrano certamente nell’alta cultura ma che creano fenomeni di massa che hanno più visibilità e rilevanza di certi argomenti che trattano tv o giornali».
E non è il solo.
«La Zanzara, che adesso riempie anche i teatri e che offre un interessante esperimento sociale. Cruciani e Parenzo sostengono tutto il contrario del catechismo del politicamente corretto, sicuramente molto al di fuori dei perimetri della cultura ufficiale di sinistra. Ma per questo funziona ed è un fenomeno molto partecipato».
Anche dalla sinistra stessa presumo.
«Certo. Io ci sono andato ed è pieno di studenti della mia università, dirigenti d’azienda, professori, è un fenomeno trasversale che ha conquistato pezzi della classe dirigente».
Insomma, la presunta alta cultura della sinistra è in crisi perché risulta noiosa al grande pubblico?
«Sicuramente la cultura in senso ampio arriva di più alla gente».
Un po’ come in politica?
«Certi politici usano linguaggi più semplici e diretti e vengono capiti più facilmente. È quello che succedeva a Grillo e oggi alla Meloni. Ci sono fenomeni di massa che vengono seguiti da milioni persone e che rigettano l’idea che ci sia una rigida morale comportamentale linguistica da seguire che invece appartiene alla sinistra».
Anche nella musica?
«Certo, le canzoni che hanno avuto più successo negli ultimi anni sono quelle vicine al genere trap, che parlano di consumismo, esaltano il machismo, usano linguaggi volgari e una completa assenza di morale, nulla a che fare con il mondo progressista. Però quelle canzoni arrivano e funzionano. Tanto è vero che anche Sorrentino nel suo ultimo film ha dato un ruolo centrale a Gue Pequeno e alle sue canzoni che fa cantare anche a Servillo».
Quindi la cultura appartenuta da sempre alla sinistra è in caduta perché non arriva più alla gente comune?
«Non credo che la destra debba sfidare la sinistra sull’alta cultura. Però penso che siano in atto nella cultura popolare di massa delle forme di anti-progressismo e anarchismo, dei movimenti spontanei che sono in contrasto con l’alta cultura principalmente di sinistra e che vengono maggiormente capiti dalla gente e da qui il loro enorme successo. C’è questo contrasto tra cultura ufficiale e quella di massa nazional popolare; due mondi che sembrano non parlarsi.
Per la sinistra è come un boomerang?
«In effetti il tentativo di indottrinare della sinistra ha prodotto una reazione ancor più forte nella destra. Più la sinistra ha cercato di catechizzare la gente, più questi fenomeni sono cresciuti. La regola di doversi comportare in un certo modo, oggi è più fallita che mai».
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Ignazio La Russa (Ansa)
È appena il caso di ricordare che La Russa nel 1971, ovvero la bellezza di 54 anni fa, era già responsabile a Milano del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Msi. «Era il 1946, il Natale era passato da un giorno», dice La Russa nel video, «la guerra era finita da poco più di un anno e un gruppo di uomini, che erano sconfitti dalla storia, dalla guerra, nella loro militanza che era stata per l'Italia in guerra, l'Italia fascista, non si arresero, ma non chiesero neanche per un attimo di tornare indietro. E pensarono al futuro, non tentarono di sovvertire con la forza ciò che peraltro sarebbe stato impossibile sovvertire. Accettarono il sistema democratico e fondarono un partito, il Movimento sociale italiano, che guardava al futuro. I fondatori ebbero come parola d'ordine un motto che posso riassumere brevemente: dissero non rinnegare, cioè non rinnegavano il loro passato, ma anche non restaurare, cioè non tornare indietro. Non volevano ripetere quello che era stato, volevano un'Italia che marciasse verso il futuro».
«Quello che è importante ricordare oggi», aggiunge ancora La Russa, «è che allora, 26 dicembre 1946, scelsero come simbolo la fiamma. La fiamma tricolore, la fiamma con il verde, il bianco e il rosso. Sono passati molti anni, sono mutate moltissime cose, è maturata, migliorata, cambiata la visione degli uomini che si sono succeduti, che hanno raccolto il loro testimone, anche con fratture importanti nel modo di pensare, ma quel simbolo è rimasto, un simbolo di continuità e anche un simbolo di amore, di resilienza si direbbe oggi, un simbolo che guarda all’Italia del domani e non a quella di ieri, senza dimenticare la nostra storia».
Un modo come un altro per far felici gli elettori di Fdi che sono rimasti fedeli al partito da sempre, e che magari non si ritrovano pienamente nel nuovo corso della destra italiana, soprattutto in politica estera, ma anche su alcuni aspetti della strategia economica e sociale del governo. Per garantire una buona presenza sui media del messaggio nostalgico di La Russa, occorreva però qualche attacco da sinistra, che è subito caduta nella trappola: «Assurdo. Il presidente del Senato e seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa», attacca il deputato del Pd Stefano Vaccari, «rivendica la nascita, nel 1946, del Movimento sociale italiano. Addirittura il senatore La Russa parla di continuità di quella storia evocando la fiamma tricolore, simbolo ben evidente nel logo di Fratelli d'Italia, il suo partito. Sapevamo delle difficoltà del presidente La Russa a fare i conti con il suo passato, visti i busti di Mussolini ben visibili nella sua casa, ma che arrivasse ad una sfrontatezza simile non era immaginabile». Sulla stessa lunghezza d’onda altri parlamentari dem come Federico Fornaro, Irene Manzi e Andrea De Maria, il deputato di Avs Filiberto Zaratti. Missione compiuta: La Russa è riuscito nel suo intento di riscaldare (con la fiamma) il cuore dei vecchi militanti missini, e di trascinare la sinistra nell’ennesima polemica completamente a vuoto.
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Uno scatto della famiglia anglo-australiana, che viveva nel bosco di Palmoli, in provincia di Chieti, pubblicato sul sito web della mamma, Caterine Louise Birmingham (Ansa)
Non hanno alternative Catherine Birmingham e Nathan Trevallion, se non quella di passare al contrattacco visto che, giorno dopo giorno, sembrano scivolare sempre di più nella morsa dei giudici, dei periti e degli operatori della salute mentale. Oltre alle valutazioni sui minori da parte del servizio di neuropsichiatria infantile per individuare eventuali carenze, sono sotto esame le «capacità genitoriali» dei coniugi ma anche le loro propensioni «negoziali», troppo limitate secondo i servizi, e persino la loro personalità ritenuta «troppo rigida».
Non solo. Sebbene la famiglia abbia detto sì alle richieste del tribunale per spostarsi in una casa più adeguata, completare i cicli vaccinali, ricevere una maestra a domicilio per il percorso di home schooling, cercando dunque una mediazione tra la propria filosofia educativa e le richieste dello Stato, gli sforzi non sono bastati. E l’asticella è salita sempre più in alto. Quindi non rimane che provare a smontare le accuse. E così, dopo che lo scorso 19 dicembre, la Corte d’Appello ha rigettato il ricorso contro l’ordinanza, il giorno prima di Natale, i legali della famiglia, Marco Femminella e Danila Solinas, hanno deciso di controbattere ad alcuni dei punti dirimenti per i giudici.
Uno su tutti il rifiuto del sondino naso-gastrico nel trattamento dell’intossicazione da funghi dei figli in occasione del ricovero in ospedale nel settembre 2024, verosimilmente per via del materiale plastico. Un episodio significativo per i giudici in quanto «denoterebbe l’assoluta indisponibilità dei genitori a derogare anche solo temporaneamente e in via emergenziale ai principi ispiratori delle proprie scelte esistenziali». Per tutta risposta, gli avvocati hanno allegato alcune foto dei bambini mentre mangiano un gelato utilizzando cucchiaini di plastica, dunque smentendo l’iniziale resistenza da parte della madre nei confronti di certi oggetti. In altre immagini i piccoli giocano nel centro commerciale e sono al parco in compagnia di alcuni coetanei. Anche qui scene di «normalità» per smontare il ritratto apposto dai giudici alla famiglia, descritta come un gruppo di eremiti avulsi dai contesti sociali.
In un altro scatto si lavano le mani nel bagno di un locale pubblico. L’ennesima immagine che sconfesserebbe il teorema dei servizi secondo cui i piccoli Trevallion avrebbero paura della doccia e rifiuterebbero di lavarsi.
Nell’istanza i legali rispondono anche alle accuse rivolte contro la madre australiana, descritta come incline allo scontro con gli operatori. Secondo i legali, alla base del giudizio negativo dei servizi sociali vi sarebbe frizioni con l’assistente sociale che avrebbe interpretato come oppositivi alcuni suoi comportamenti. In particolare l’abitudine di svegliare i bambini la mattina prima dell’orario prestabilito. Un’accusa respinta con forza dalla madre che dice di passare solo a controllarli. Qualora dormano, spiega, si reca in cucina per preparare il porridge, per restituire ai figli un’atmosfera di casa. A quanto pare, peraltro, il più delle volte i fratellini sono già svegli perché non dormono bene.
Come rivelato da Il Centro, in alcuni messaggi inviati agli amici, la madre si dice preoccupata perché hanno delle ferite alle mani, in particolare la più grande. «Si mordono di continuo, è segno di un’ansia profonda», scrive.
Nel frattempo, in vista dei test psicologici, i legali hanno nominato come consulenti di parte la psicologa Martina Aiello e lo psichiatra Tonino Cantelmi, cattolico militante e professore associato all’Università Gregoriana che nel 2020 era stato individuato da papa Francesco come «membro del dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale». Per il suo curriculum, oltre a sostenere la coppia nelle valutazioni psicologiche disposte dal tribunale, potrebbe accompagnarla nell’assunzione di una posizione meno radicale. Per i test, però, ci vorranno almeno 120 giorni. Altri quattro mesi in cui i piccoli dovranno stare nella casa famiglia.
Uno scenario di fronte al quale uno dei commenti più duri arriva dal vicepremier Matteo Salvini: «Non avrò pace fino a che non troveremo il modo legale di riportare a casa quei bimbi. Oggi 16.000 famiglie italiane hanno scelto l’home-schooling, che facciamo, li portiamo via tutti perché qualcuno ritiene che i bambini siano dello Stato? È orribile e sovietico. Non socializzavano o potevano diventare dei bulli? Chi dice queste cose vada sulle metro o in certe periferie e faccia due chiacchiere con i tredicenni armati di coltello che fanno stupri di gruppo: magari hanno avuto tanta socialità, però non hanno mai incontrato un assistente sociale».
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