È un po' troppo comodo, però, dire «non lo vedrò mai più». È un po' troppo comodo cancellare l'esistenza del figlio assassino, evitare di specchiarsi dentro il suo orrore, fuggire dal suo fallimento, che poi è anche il fallimento di chi l'ha messo al mondo. E l'ha cresciuto. E l'ha, si fa per dire, educato senza essere però capace di insegnargli la differenza che passa tra un cornetto caldo e la vita di un uomo.
È un po' troppo comodo, però, dire «non lo vedrò mai più». È un po' troppo comodo cancellare l'esistenza del figlio assassino, evitare di specchiarsi dentro il suo orrore, fuggire dal suo fallimento, che poi è anche il fallimento di chi l'ha messo al mondo. E l'ha cresciuto. E l'ha, si fa per dire, educato senza essere però capace di insegnargli la differenza che passa tra un cornetto caldo e la vita di un uomo. Tra un'amicizia e un'associazione a delinquere. Tra uno scherzo e un omicidio. È un po' troppo comodo adesso chiudergli la porta in faccia, dopo averla lasciato troppo aperta. È un po' troppo comodo tirarsene fuori, tapparsi gli occhi e le orecchie, far finta di non conoscere quel sedicenne, di non averlo accarezzato, imboccato, di non aver tenuto fra le proprie mani quelle sue mani che ora sono sporche di sangue. È spaventoso il racconto che i tre minorenni assassini di Napoli hanno fatto al magistrato. «Erano le 3 di notte, volevamo andarci a comprare un cornetto alla cornetteria Nuova vita, ma era chiusa. E allora, in considerazione dell'orario e del fatto che la cornetteria era chiusa, decidemmo che volevamo aggredire la guardia giurata». È chiaro, no? Quando c'è la cornetteria chiusa che fai? Aggredisci la guardia giurata. Ovvio. La ammazzi a bastonate. Del resto a Napoli alle 3 di notte che ti resta? O mangi cornetti caldi o uccidi le guardie giurate per rubare loro la pistola. Lo sanno tutti. «Dopo aver impugnato i bastoni, cominciammo a colpirlo con colpi sferrati unicamente alla testa», raccontano i tre. Come se fosse una cosa normale. Come se non si rendessero conto di quello che facevano. Uno dei ragazzi assassini, appena arrestato, ha chiesto addirittura di poter andare alla partita: «Gioco come terzino». Si capisce: si può togliere la vita a una persona, mica un terzino alla squadra di calcio. Sia chiaro: le colpe sono individuali. Tutte. Personali. Sempre. E non usciremo da queste spirali di violenza se non cominceremo a insegnare ai ragazzi che la responsabilità del crimine che commettono è tutta loro e soltanto loro. Basta con il giustificazionismo, il perdonismo, il poverinismo, le spiegazioni sociologiche e del contesto ambientale. Se uno a 16 anni non capisce che, trovando la cornetteria chiusa alle 3 di notte, può andare a cercarne un'altra aperta o, meglio ancora, può andare a dormire, anziché sfasciare la testa a bastonate al primo che passa, per quanto mi riguarda merita di restare chiuso in galera per il resto dei suoi giorni. La società non ci perderebbe nulla. E gli altri sedicenni come lui capirebbero che non si scherza con la propria vita. E tanto meno con quella delle guardie giurate. Ma i genitori possono chiamarsi fuori? Possono dire che non c'entrano? Se uno si trova in casa un figlio che ammazza una guardia giurata e poi chiede, come se nulla fosse, di andare a giocare la partita, non sarà anche colpa loro? Non avrebbero dovuto fargli capire per tempo, con le buone o con le cattive, che fare l'assassino e fare il terzino sono due cose un po' incompatibili fra di loro? Che alle 3 di notte, forse, è meglio starsene a casa a dormire piuttosto che andare in giro a sfondare la testa alle persone perbene? Che non si uccide il primo che passa tanto meno per rubargli la pistola? Non avrebbero dovuto spiegargli nelle dovute maniere, magari con i disegnini o con una raffica di calci in culo, come si vive (e si permette agli altri di vivere) in questo mondo? Ecco: è evidente che i genitori di quei tre ragazzi non hanno adempiuto al loro compito. Non come dovevano. Lo dimostra il risultato: il migliore dei tre, raccontano le cronache, il più a posto, il più bravo ragazzo, inneggiava su Facebook a Totò Riina. Figurarsi gli altri. E allora adesso è troppo comodo cavarsela dicendo, come ha fatto la mamma di uno di loro, «per noi lui non esiste più, non lo vedremo mai più». Quello che non esiste più, purtroppo, quello che non vedremo più, è la guardia giurata che è stata uccisa e che quella sera si stava solo guadagnano la pagnotta, altro che cornetteria. I ragazzi assassini invece esistono. Eccome se esistono. Esistono e interrogano, con la loro spietata violenza, tutti noi. Ma soprattutto interrogano i loro genitori, li coinvolgono nel crimine, li trascinano nell'abisso. I genitori, anche se assolti, sono lo stesso coinvolti: non possono far finta di niente. Non possono tagliare i fili, far scomparire i figli, esodarli dalla loro vita. Anzi: dovrebbero andare a trovarli in carcere tutti i giorni (sempre che Paolo Gentiloni, nel frattempo, non svuoti definitivamente tutte le carceri). Dovrebbero essere condannati a stare almeno ore accanto alla cella dei loro ragazzi. A guardarli. A ascoltarli. A fissarli negli occhi. A cercare di specchiarsi dentro quella tragedia che non hanno saputo capire né evitare. E che adesso non possono sotterrare in prigione come se non li riguardasse.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».
Antonio Scoppetta (Ansa)
- Nell’inchiesta spunta Alberto Marchesi, dal passato turbolento e gran frequentatore di sale da gioco con toghe e carabinieri
- Ora i loro legali meditano di denunciare la Procura per possibile falso ideologico.
Lo speciale contiene due articoli
92 giorni di cella insieme con Cleo Stefanescu, nipote di uno dei personaggi tornati di moda intorno all’omicidio di Garlasco: Flavius Savu, il rumeno che avrebbe ricattato il vicerettore del santuario della Bozzola accusato di molestie.
Marchesi ha vissuto in bilico tra l’abisso e la resurrezione, tra campi agricoli e casinò, dove, tra un processo e l’altro, si recava con magistrati e carabinieri. Sostiene di essere in cura per ludopatia dal 1987, ma resta un gran frequentatore di case da gioco, a partire da quella di Campione d’Italia, dove l’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti è stato presidente fino a settembre.
Dopo i problemi con la droga si è reinventato agricoltore, ha creato un’azienda ed è diventato presidente del Consorzio forestale di Pavia, un mondo su cui vegliano i carabinieri della Forestale, quelli da cui provenivano alcuni dei militari finiti sotto inchiesta per svariati reati, come il maresciallo Antonio Scoppetta (Marchesi lo conosce da almeno vent’anni).





