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2023-11-10
Novembre 1953: la rivolta di Trieste
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Barricate nel centro di Trieste nel novembre 1953 (Getty Images)
Dal giugno 1945 la città di Trieste e il territorio circostante erano stati divisi in due zone di influenza, secondo gli accordi del 1947. La zona A, che comprendeva la città e il porto, nelle mani degli Angloamericani, la zona B controllata dagli jugoslavi del maresciallo Josif Broz «Tito». L’amministrazione, pensata come provvisoria al termine della guerra, fu nei primi anni Cinquanta uno dei punti più caldi della nascente Guerra fredda. La città sul confine delle due culture italiana e slava e culla dell’irredentismo durante la Grande guerra, si trovò nuovamente contesa nell’immediato dopoguerra. Trieste divenne il fulcro geopolitico dello scontro fra passato e futuro della città giuliana e tra i due blocchi mondiali contrapposti. Gli attori della contesa erano molteplici: tra gli italiani stessi, divisi tra i sostenitori del ritorno di Trieste e del territorio circostante all’Italia e gli «indipendentisti» che sognavano una città extraterritoriale; tra gli slavi residenti nell’enclave nata dai trattati di pace che spingevano per un’annessione completa alla Jugoslavia e il governo di Belgrado, che spingeva per il controllo totale del «Territorio Libero di Trieste» (TLT) per la valenza strategica del porto sull’Adriatico. I partiti italiani erano a loro volta divisi: l’Msi per un ritorno senza condizioni all’Italia, la Democrazia Cristiana dipendente dalle decisioni degli Alleati e i comunisti divisi tra un appoggio alle rivendicazioni titine e le istanze indipendentiste. Ad aggravare il quadro, durante l’anno 1953, contribuì la forte instabilità politica italiana alla fine dell’era De Gasperi (che morì proprio durante l’anno). Le elezioni avevano premiato soprattutto il Movimento Sociale Italiano allora retto da Augusto De Marsanich (di origini dalmate) e penalizzato la Dc, che perse oltre il 10% dei consensi anche per l’effetto della legge elettorale, nota anche come «legge truffa». A livello internazionale erano cambiati gli equilibri rispetto alla fine della Seconda guerra mondiale. In particolar modo era mutato il ruolo della Jugoslavia titina all’interno dei paesi della Cortina di Ferro, a causa della rottura tra Belgrado e Mosca del 1948. La morte di Stalin avvenuta proprio nel 1953 aveva spinto gli Angloamericani e la Nato ad un avvicinamento diplomatico con Tito, fatto che preoccupava il governo italiano da poco guidato dal democristiano Giuseppe Pella. La tensione tra Italia e Jugoslavia salì vertiginosamente durante l’estate 1953 e portò ad una serie di provocazioni tra Pella e Tito, accompagnate da reciproci incidenti tra militari lungo la linea di confine italo-jugoslava, fino a pochi anni prima territorio italiano. Pella, da molti considerato in premier debole, reagì risolutamente alle provocazioni del leader comunista jugoslavo, arrivando ad ammassare reparti dell’Esercito lungo la frontiera giuliana e friulana (tre compagnie di alpini nel Tarvisiano, una compagnia da Udine a Cividale, gruppi meccanizzati a Monfalcone), fatto che allarmò non poco gli Alleati e al quale Tito rispose con le stesse armi (ammassamento di truppe in Istria e un grande raduno di ex partigiani). In quei giorni, pareva che la guerra tra Italia e Jugoslavia fosse solo questione di ore e i rumori dei blindati si potevano udire distintamente ai confini del TLT.
La zona libera e Trieste erano di fatto una polveriera, una sorta di «striscia di Gaza» dell’alto Adriatico stretta tra radicato irredentismo italiano, sentimenti indipendentisti e mire espansionistiche slave. Come divisa era la popolazione, così le forze dell’ordine del Governo militare alleato (GMA). La Polizia Civile era infatti composta per un terzo da ex militari italiani (soprattutto Carabinieri), per un altro terzo da Italiani e Sloveni di sentimenti indipendentisti e per il restante terzo da Sloveni comunisti e filotitini. In città la maggioranza era filoitaliana, ma gli eventi postbellici crearono una naturale alleanza tra i sostenitori sloveni del maresciallo Tito e gli indipendentisti italiani, costituiti in buona parte da comunisti. Questa miscela esplosiva fu alimentata dalla paralisi diplomatica internazionale e dalla poca risolutezza alleata nel superare gli accordi del 1947, scontentando sia il governo italiano che gli jugoslavi che avevano mire sulla zona A. Nei giorni precedenti la sollevazione, diversi furono gli episodi di provocazione e minaccia da entrambe le parti. I filojugoslavi organizzarono gruppi di provocatori che di notte prendevano di mira le case di italiani con insulti e sassaiole. Dall’altra parte la propaganda filoitaliana si fece sentire per l’effetto di infiltrati attraverso la frontiera della zona A, dalle origini disparate. Tra gli altri, si parlò anche di gruppi paramilitari pronti ad intervenire a Trieste dalla vicina Udine. In questa situazione di incertezza e grave tensione interetnica, le notizie dall’estero e i giornali di tutti gli orientamenti fecero intendere che la merce di scambio tra gli Alleati e Tito fosse proprio Trieste con il territorio della zona A. Anche la debolezza del GMA presieduto da Lord Winterton fece impennare la tensione, anche per l’ordine di evacuazione delle famiglie dei militari angloamericani diramato in quei giorni dal comando militare del TLT.
Il calendario inoltre non aiutò a placare gli animi. Il 3 novembre si festeggiava il patrono della città, San Giusto, che coincideva con la data dell’ingresso dei Bersaglieri e il giorno seguente, il 4 novembre, si sarebbe celebrata la vittoria nella Grande guerra. Con una visione miope, appoggiata anche da Londra, Winterton decise per un giro di vite sulla propaganda filoitaliana arrestando alcuni esponenti sospetti ma anche funzionari del distretto militare di sentimenti contrari al governo alleato. La miscela esplose il 3 novembre 1953 e bruciò violenta per i giorni successivi. La scintilla degli scontri tra le forze dell’ordine del TLT e i manifestanti pro-ritorno di Trieste all’Italia scoccò attorno al più importante dei simboli di appartenenza, il Tricolore. La giunta comunale di Trieste, presieduta dal sindaco filo-italiano Gianni Bartoli (democristiano), decise di celebrare la ricorrenza del 3 novembre con l’esposizione del tricolore dal pennone del municipio, che il governo alleato rifiutò categoricamente di concedere. Winterton, in tutta risposta, ordinò la mobilitazione di 6.000 uomini in assetto antisommossa alzando così ulteriormente il livello della contesa. La mattina della festa di San Giusto, la Bandiera italiana fu esposta nonostante il divieto. Poco dopo, la Polizia Civile del TLT irruppe nel palazzo comunale sequestrando il vessillo. La notizia si sparse rapidamente in città e generò la reazione spontanea di manifestanti, in prevalenza studenti, che improvvisarono piccoli cortei nel centro della città, che furono rapidamente dispersi dall’intervento della Polizia Civile.
Molto peggio andò il 4 novembre, festa della Vittoria. La celebrazione nazionale prevedeva come di rito la commemorazione presso l’ossario di Redipuglia, alla quale avrebbe dovuto presenziare il primo ministro Pella, che per motivi di prudenza deviò il luogo del discorso su Venezia. Da Trieste furono organizzati autobus e treni che portarono gli Italiani del capoluogo giuliano sui gradoni del monumento ai caduti, dove furono esposti striscioni a favore di Trieste italiana. Contemporaneamente l’omelia del vescovo Antonio Santin, diffusa via radio, era stata letta come un appoggio ai diritti degli Italiani nelle sorti della città. Al ritorno dei pellegrini triestini da Redipuglia la situazione degenerò. Drappelli di filoitaliani organizzarono piccoli cortei di protesta alla cui testa stava il Tricolore, che i manifestanti intendevano portare verso Piazza Unità d’Italia. Intercettati dal BetFor (La forza militare britannica a Trieste) e dalla Polizia civile ingaggiarono una sassaiola contro gli agenti che cercavano di strappare la bandiera dalle mani dei filoitaliani. L’intervento della squadra speciale antisommossa (il «Riot squad») fece esplodere la violenza. Lungo le vie del centro città i manifestanti scagliarono sedie e tavoli contro il reparto di polizia, che rispose con gli idranti e i manganelli causando i primi feriti, preludio nefasto del giorno successivo. Il 5 novembre gli uomini delle squadre antisommossa mostrarono tutta la ferocia di cui erano capaci. Gli studenti, già mobilitati dal mattino, si scontrarono subito con le forze dell’ordine sui gradini della chiesa di Sant’Antonio. Il maggiore Williams, comandante dei «maiòni» (come venivano chiamati gli agenti della Polizia Civile per il maglione girocollo che portavano) fu malmenato e fatto oggetto di lancio di pietre. La reazione della Polizia non si fece attendere e i manifestanti si barricarono all’interno della chiesa. Neppure la sacralità del luogo impedì alle forze del TLT di fare irruzione con gli idranti e nel contatto con i manifestanti fu gravemente ferita un’anziana fedele e uno studente, che ebbe il cranio fracassato dalle manganellate. Solo l’intervento del parroco riesce a garantire l’uscita protetta dei giovani filoitaliani, che sono ugualmente malmenati dagli agenti. Tutt’altro che sotto controllo, la situazione peggiorò quando nel pomeriggio fu decisa la riconsacrazione della chiesa di Sant’Antonio, poiché necessaria secondo il diritto canonico qualora un edificio religioso fosse stato teatro di un fato di sangue. Una folla maggiore di quella della mattinata si presentò alla cerimonia officiata del vescovo Santin, guardata a vista da cordoni della Polizia civile. Forse a causa delle provocazioni di alcuni gruppi ai margini della cerimonia, ripresero gli scontri. Questa volta però i militari del Reparto mobile aprirono il fuoco ad altezza uomo. Ancora oggi la dinamica di quei fatti non è chiara, in quanto alcuni sostengono che i colpi sarebbero partiti anche dai palazzi circostanti, con la volontà quindi di colpire come in un «tiro al piccione». Sul selciato segnato dal sangue rimase il corpo del quattordicenne Pierino Addobbati, poco più che un bambino. Con lui morì il cinquantenne Antonio Zavadil, colpito da una pallottola vagante. I feriti furono 30, alcuni gravissimi. La giornata terminò in Piazza Unità d’Italia dove la folla cercò nuovamente di issare il Tricolore venendo respinta dalle cariche di polizia.
Il giorno successivo Trieste si mostrò spettrale. Fu proclamato lo sciopero generale, mentre migliaia di tricolori sventolavano dai balconi. Al mattino un drappello di Italiani si recò presso la sede del partito indipendentista e la assalì devastandola. Nelle stesse ore sul pennone del municipio i funzionari fecero sventolare ancora il Tricolore abbrunato (a lutto). L'esposizione della bandiera fece intervenire nuovamente il Reparto mobile pronto a sequestrare nuovamente il vessillo italiano. In Piazza Unità d'Italia la polizia aprì il fuoco ad altezza d'uomo dopo il lancio da parte dei manifestanti di alcune bombe carta lacrimogene. Questa volta ancora più violenta perché la Polizia sparò inginocchiandosi ad altezza uomo e lo scontro a fuoco durò ininterrotto per circa 10 minuti. Quando il fumo dei lacrimogeni si diradò, sul selciato c'erano i corpi di Francesco Paglia di 24 anni e del quarantasettenne Saverio Montano. Temporaneamente dispersi e disorientati dalla ferocia delle forze dell'ordine. Poco dopo mezzogiorno, di fronte alla Prefettura, qualcuno dei manifestanti gettò alcune bombe carta che ferirono alcuni agenti della Polizia civile e la situazione precipitò nuovamente. A perdere la vita sotto le pallottole inglesi furono il cinquantenne Erminio Bassa e il giovanissimo Leonardo Manzi, di soli quindici anni. Nonostante la gravità della situazione, che causò quattro morti solamente nelle prime ore del 6 novembre, la polizia agli ordini degli Inglesi non si fermò, mentre le truppe americane che erano state usate soltanto come cuscinetto si ritirarono nelle caserme. Il Reparto mobile guidato dal colonnello Baker in sommo spregio si recò nuovamente in Comune e sequestrò per la seconda volta il tricolore, minacciando direttamente la giunta e il sindaco. In serata tornò nuovamente una relativa calma, ma ormai i titoli dei giornali di tutto il mondo preparavano i piombi per raccontare la «rivolta di Trieste», mentre a livello diplomatico gli Americani iniziarono a prendere le distanze dagli alleati britannici, addossando a questi ultimi tutta la responsabilità delle violenze della Polizia. Pella protestò formalmente con Londra e Washington, mentre per le strade d'Italia la gente scese nelle piazze per rivendicare la legittimità della lotta dei fratelli triestini. La storia racconta che Trieste ritornò all'Italia l'anno successivo, il 5 ottobre 1954, dopo l'ingresso dei bersaglieri e dei fanti mentre in cielo volavano gli F-84 italiani decollati da Treviso e in porto arrivavano le corazzate della Marina e persino la Amerigo Vespucci. Dal punto di vista formale passò all'Italia la zona A, decurtata di una decina di chilometri a favore della Jugoslavia titina. Quei ragazzi e quegli uomini, martiri di un «secondo Risorgimento», non erano morti invano.
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Settant'anni fa la città fu interessata da gravi scontri di piazza tra la polizia angloamericana del Territorio Libero e i manifestanti che chiedevano il ritorno all'Italia, stretti tra la Guerra fredda e la minaccia della Jugoslavia del maresciallo Tito. Sei morti e decine di feriti.Dal giugno 1945 la città di Trieste e il territorio circostante erano stati divisi in due zone di influenza, secondo gli accordi del 1947. La zona A, che comprendeva la città e il porto, nelle mani degli Angloamericani, la zona B controllata dagli jugoslavi del maresciallo Josif Broz «Tito». L’amministrazione, pensata come provvisoria al termine della guerra, fu nei primi anni Cinquanta uno dei punti più caldi della nascente Guerra fredda. La città sul confine delle due culture italiana e slava e culla dell’irredentismo durante la Grande guerra, si trovò nuovamente contesa nell’immediato dopoguerra. Trieste divenne il fulcro geopolitico dello scontro fra passato e futuro della città giuliana e tra i due blocchi mondiali contrapposti. Gli attori della contesa erano molteplici: tra gli italiani stessi, divisi tra i sostenitori del ritorno di Trieste e del territorio circostante all’Italia e gli «indipendentisti» che sognavano una città extraterritoriale; tra gli slavi residenti nell’enclave nata dai trattati di pace che spingevano per un’annessione completa alla Jugoslavia e il governo di Belgrado, che spingeva per il controllo totale del «Territorio Libero di Trieste» (TLT) per la valenza strategica del porto sull’Adriatico. I partiti italiani erano a loro volta divisi: l’Msi per un ritorno senza condizioni all’Italia, la Democrazia Cristiana dipendente dalle decisioni degli Alleati e i comunisti divisi tra un appoggio alle rivendicazioni titine e le istanze indipendentiste. Ad aggravare il quadro, durante l’anno 1953, contribuì la forte instabilità politica italiana alla fine dell’era De Gasperi (che morì proprio durante l’anno). Le elezioni avevano premiato soprattutto il Movimento Sociale Italiano allora retto da Augusto De Marsanich (di origini dalmate) e penalizzato la Dc, che perse oltre il 10% dei consensi anche per l’effetto della legge elettorale, nota anche come «legge truffa». A livello internazionale erano cambiati gli equilibri rispetto alla fine della Seconda guerra mondiale. In particolar modo era mutato il ruolo della Jugoslavia titina all’interno dei paesi della Cortina di Ferro, a causa della rottura tra Belgrado e Mosca del 1948. La morte di Stalin avvenuta proprio nel 1953 aveva spinto gli Angloamericani e la Nato ad un avvicinamento diplomatico con Tito, fatto che preoccupava il governo italiano da poco guidato dal democristiano Giuseppe Pella. La tensione tra Italia e Jugoslavia salì vertiginosamente durante l’estate 1953 e portò ad una serie di provocazioni tra Pella e Tito, accompagnate da reciproci incidenti tra militari lungo la linea di confine italo-jugoslava, fino a pochi anni prima territorio italiano. Pella, da molti considerato in premier debole, reagì risolutamente alle provocazioni del leader comunista jugoslavo, arrivando ad ammassare reparti dell’Esercito lungo la frontiera giuliana e friulana (tre compagnie di alpini nel Tarvisiano, una compagnia da Udine a Cividale, gruppi meccanizzati a Monfalcone), fatto che allarmò non poco gli Alleati e al quale Tito rispose con le stesse armi (ammassamento di truppe in Istria e un grande raduno di ex partigiani). In quei giorni, pareva che la guerra tra Italia e Jugoslavia fosse solo questione di ore e i rumori dei blindati si potevano udire distintamente ai confini del TLT.La zona libera e Trieste erano di fatto una polveriera, una sorta di «striscia di Gaza» dell’alto Adriatico stretta tra radicato irredentismo italiano, sentimenti indipendentisti e mire espansionistiche slave. Come divisa era la popolazione, così le forze dell’ordine del Governo militare alleato (GMA). La Polizia Civile era infatti composta per un terzo da ex militari italiani (soprattutto Carabinieri), per un altro terzo da Italiani e Sloveni di sentimenti indipendentisti e per il restante terzo da Sloveni comunisti e filotitini. In città la maggioranza era filoitaliana, ma gli eventi postbellici crearono una naturale alleanza tra i sostenitori sloveni del maresciallo Tito e gli indipendentisti italiani, costituiti in buona parte da comunisti. Questa miscela esplosiva fu alimentata dalla paralisi diplomatica internazionale e dalla poca risolutezza alleata nel superare gli accordi del 1947, scontentando sia il governo italiano che gli jugoslavi che avevano mire sulla zona A. Nei giorni precedenti la sollevazione, diversi furono gli episodi di provocazione e minaccia da entrambe le parti. I filojugoslavi organizzarono gruppi di provocatori che di notte prendevano di mira le case di italiani con insulti e sassaiole. Dall’altra parte la propaganda filoitaliana si fece sentire per l’effetto di infiltrati attraverso la frontiera della zona A, dalle origini disparate. Tra gli altri, si parlò anche di gruppi paramilitari pronti ad intervenire a Trieste dalla vicina Udine. In questa situazione di incertezza e grave tensione interetnica, le notizie dall’estero e i giornali di tutti gli orientamenti fecero intendere che la merce di scambio tra gli Alleati e Tito fosse proprio Trieste con il territorio della zona A. Anche la debolezza del GMA presieduto da Lord Winterton fece impennare la tensione, anche per l’ordine di evacuazione delle famiglie dei militari angloamericani diramato in quei giorni dal comando militare del TLT. Il calendario inoltre non aiutò a placare gli animi. Il 3 novembre si festeggiava il patrono della città, San Giusto, che coincideva con la data dell’ingresso dei Bersaglieri e il giorno seguente, il 4 novembre, si sarebbe celebrata la vittoria nella Grande guerra. Con una visione miope, appoggiata anche da Londra, Winterton decise per un giro di vite sulla propaganda filoitaliana arrestando alcuni esponenti sospetti ma anche funzionari del distretto militare di sentimenti contrari al governo alleato. La miscela esplose il 3 novembre 1953 e bruciò violenta per i giorni successivi. La scintilla degli scontri tra le forze dell’ordine del TLT e i manifestanti pro-ritorno di Trieste all’Italia scoccò attorno al più importante dei simboli di appartenenza, il Tricolore. La giunta comunale di Trieste, presieduta dal sindaco filo-italiano Gianni Bartoli (democristiano), decise di celebrare la ricorrenza del 3 novembre con l’esposizione del tricolore dal pennone del municipio, che il governo alleato rifiutò categoricamente di concedere. Winterton, in tutta risposta, ordinò la mobilitazione di 6.000 uomini in assetto antisommossa alzando così ulteriormente il livello della contesa. La mattina della festa di San Giusto, la Bandiera italiana fu esposta nonostante il divieto. Poco dopo, la Polizia Civile del TLT irruppe nel palazzo comunale sequestrando il vessillo. La notizia si sparse rapidamente in città e generò la reazione spontanea di manifestanti, in prevalenza studenti, che improvvisarono piccoli cortei nel centro della città, che furono rapidamente dispersi dall’intervento della Polizia Civile. Molto peggio andò il 4 novembre, festa della Vittoria. La celebrazione nazionale prevedeva come di rito la commemorazione presso l’ossario di Redipuglia, alla quale avrebbe dovuto presenziare il primo ministro Pella, che per motivi di prudenza deviò il luogo del discorso su Venezia. Da Trieste furono organizzati autobus e treni che portarono gli Italiani del capoluogo giuliano sui gradoni del monumento ai caduti, dove furono esposti striscioni a favore di Trieste italiana. Contemporaneamente l’omelia del vescovo Antonio Santin, diffusa via radio, era stata letta come un appoggio ai diritti degli Italiani nelle sorti della città. Al ritorno dei pellegrini triestini da Redipuglia la situazione degenerò. Drappelli di filoitaliani organizzarono piccoli cortei di protesta alla cui testa stava il Tricolore, che i manifestanti intendevano portare verso Piazza Unità d’Italia. Intercettati dal BetFor (La forza militare britannica a Trieste) e dalla Polizia civile ingaggiarono una sassaiola contro gli agenti che cercavano di strappare la bandiera dalle mani dei filoitaliani. L’intervento della squadra speciale antisommossa (il «Riot squad») fece esplodere la violenza. Lungo le vie del centro città i manifestanti scagliarono sedie e tavoli contro il reparto di polizia, che rispose con gli idranti e i manganelli causando i primi feriti, preludio nefasto del giorno successivo. Il 5 novembre gli uomini delle squadre antisommossa mostrarono tutta la ferocia di cui erano capaci. Gli studenti, già mobilitati dal mattino, si scontrarono subito con le forze dell’ordine sui gradini della chiesa di Sant’Antonio. Il maggiore Williams, comandante dei «maiòni» (come venivano chiamati gli agenti della Polizia Civile per il maglione girocollo che portavano) fu malmenato e fatto oggetto di lancio di pietre. La reazione della Polizia non si fece attendere e i manifestanti si barricarono all’interno della chiesa. Neppure la sacralità del luogo impedì alle forze del TLT di fare irruzione con gli idranti e nel contatto con i manifestanti fu gravemente ferita un’anziana fedele e uno studente, che ebbe il cranio fracassato dalle manganellate. Solo l’intervento del parroco riesce a garantire l’uscita protetta dei giovani filoitaliani, che sono ugualmente malmenati dagli agenti. Tutt’altro che sotto controllo, la situazione peggiorò quando nel pomeriggio fu decisa la riconsacrazione della chiesa di Sant’Antonio, poiché necessaria secondo il diritto canonico qualora un edificio religioso fosse stato teatro di un fato di sangue. Una folla maggiore di quella della mattinata si presentò alla cerimonia officiata del vescovo Santin, guardata a vista da cordoni della Polizia civile. Forse a causa delle provocazioni di alcuni gruppi ai margini della cerimonia, ripresero gli scontri. Questa volta però i militari del Reparto mobile aprirono il fuoco ad altezza uomo. Ancora oggi la dinamica di quei fatti non è chiara, in quanto alcuni sostengono che i colpi sarebbero partiti anche dai palazzi circostanti, con la volontà quindi di colpire come in un «tiro al piccione». Sul selciato segnato dal sangue rimase il corpo del quattordicenne Pierino Addobbati, poco più che un bambino. Con lui morì il cinquantenne Antonio Zavadil, colpito da una pallottola vagante. I feriti furono 30, alcuni gravissimi. La giornata terminò in Piazza Unità d’Italia dove la folla cercò nuovamente di issare il Tricolore venendo respinta dalle cariche di polizia.Il giorno successivo Trieste si mostrò spettrale. Fu proclamato lo sciopero generale, mentre migliaia di tricolori sventolavano dai balconi. Al mattino un drappello di Italiani si recò presso la sede del partito indipendentista e la assalì devastandola. Nelle stesse ore sul pennone del municipio i funzionari fecero sventolare ancora il Tricolore abbrunato (a lutto). L'esposizione della bandiera fece intervenire nuovamente il Reparto mobile pronto a sequestrare nuovamente il vessillo italiano. In Piazza Unità d'Italia la polizia aprì il fuoco ad altezza d'uomo dopo il lancio da parte dei manifestanti di alcune bombe carta lacrimogene. Questa volta ancora più violenta perché la Polizia sparò inginocchiandosi ad altezza uomo e lo scontro a fuoco durò ininterrotto per circa 10 minuti. Quando il fumo dei lacrimogeni si diradò, sul selciato c'erano i corpi di Francesco Paglia di 24 anni e del quarantasettenne Saverio Montano. Temporaneamente dispersi e disorientati dalla ferocia delle forze dell'ordine. Poco dopo mezzogiorno, di fronte alla Prefettura, qualcuno dei manifestanti gettò alcune bombe carta che ferirono alcuni agenti della Polizia civile e la situazione precipitò nuovamente. A perdere la vita sotto le pallottole inglesi furono il cinquantenne Erminio Bassa e il giovanissimo Leonardo Manzi, di soli quindici anni. Nonostante la gravità della situazione, che causò quattro morti solamente nelle prime ore del 6 novembre, la polizia agli ordini degli Inglesi non si fermò, mentre le truppe americane che erano state usate soltanto come cuscinetto si ritirarono nelle caserme. Il Reparto mobile guidato dal colonnello Baker in sommo spregio si recò nuovamente in Comune e sequestrò per la seconda volta il tricolore, minacciando direttamente la giunta e il sindaco. In serata tornò nuovamente una relativa calma, ma ormai i titoli dei giornali di tutto il mondo preparavano i piombi per raccontare la «rivolta di Trieste», mentre a livello diplomatico gli Americani iniziarono a prendere le distanze dagli alleati britannici, addossando a questi ultimi tutta la responsabilità delle violenze della Polizia. Pella protestò formalmente con Londra e Washington, mentre per le strade d'Italia la gente scese nelle piazze per rivendicare la legittimità della lotta dei fratelli triestini. La storia racconta che Trieste ritornò all'Italia l'anno successivo, il 5 ottobre 1954, dopo l'ingresso dei bersaglieri e dei fanti mentre in cielo volavano gli F-84 italiani decollati da Treviso e in porto arrivavano le corazzate della Marina e persino la Amerigo Vespucci. Dal punto di vista formale passò all'Italia la zona A, decurtata di una decina di chilometri a favore della Jugoslavia titina. Quei ragazzi e quegli uomini, martiri di un «secondo Risorgimento», non erano morti invano.
Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni ed Elly Schlein (Ansa)
E ieri questo enorme divario si è fatto sentire ancor più forte in Aula. Il campo largo, ormai pieno di buche e pozzanghere, si è sfasciato anche sulla politica estera. In vista del Consiglio europeo il presidente del Consiglio ha tenuto le sue comunicazioni. La maggioranza si è presentata compatta con una risoluzione unica. Le opposizioni avevano cinque testi. Più che un campo largo, un campo sparso.
Divisi su tutti i dossier internazionali. Le distanze tra M5s e Pd sono abissali. Il dato politico è lampante: Avs, Più Europa, Azione, Italia viva, Pd, M5s sono sempre più come l’armata Brancaleone. Ognun per sé, nessun per tutti.
In tema di Ucraina, Pd e M5s sono spaccati sugli aiuti a Kiev. La Schlein vuole che continuino, mentre Conte ne chiede la sospensione. E poi ancora il Pd (area riformista) spinge per l’utilizzo degli asset russi congelati (210 miliardi) in aiuto a Kiev, il M5s dice no e anzi chiede di sospendere le sanzioni contro Putin. Schlein e Conte litigano anche su Trump. Il M5s spinge per il «piano Trump» per la pace in Ucraina. La risposta di Schlein? «La pace per Kiev non sia delegata a una telefonata Trump-Putin».
Ma risultano divisi anche Avs, Italia viva e Azione. Il partito di Calenda è il più filo ucraino e chiede che Ue e Italia restino al fianco del popolo ucraino per una pace giusta. Avs si accoda al M5s e propone lo stop agli aiuti militari per Zelensky. Ogni sostegno economico, politico e militare all’Ucraina, anche con l’utilizzo degli asset russi, è invece la posizione di Più Europa, condivisa con Italia viva e Azione.
Poi il Medio Oriente. Nella risoluzione Pd c’è la richiesta di riconoscere lo Stato di Palestina e sospendere il memorandum tra Italia e Israele. M5s e Avs accusano di genocidio il governo israeliano ignorando l’antisemitismo dilagante.
Terzo tema, il piano di riarmo europeo. Il Pd dice no al potenziamento degli eserciti nazionali e sì al piano della difesa comune europea. Avs e M5s bocciano la difesa comune europea. Italia viva e Azione appoggiano la linea europea sul riarmo.
Infine, che il campo largo sia solo un’illusione lo dimostra anche il caso di Alessandra Moretti finita nell’inchiesta Qatargate. Il Parlamento europeo vota a favore della revoca dell’immunità all’europarlamentare del Pd. Grazie al M5s che dà in pasto la compagna dem al temutissimo sistema giudiziario belga.
L’alleanza tra Pd e M5s è un vero bluff e l’intervento di Giuseppe Conte ad Atreju lo ha sottoscritto. «Non siamo alleati con nessuno». Tradotto: capotavola è dove mi siedo io. Altro che campo largo, abbiamo capito che lui giocherà da solo. E lo stesso farà la Schlein. Ad Atreju, come anche ieri in aula, Conte si è ripreso la scena. Ha lanciato la sfida al Pd ormai malconcio, privo di una direzione politica e incapace di imporsi come baricentro dell’opposizione.
Ieri abbiamo definitivamente capito che il campo largo non esiste. Conte non ci sta ad essere comandato da una segretaria del Pd ancora politicamente acerba, comunicativamente incapace e schiacciata dalle correnti del suo stesso partito. I sondaggi dicono che perfino molti elettori del Pd lo preferirebbero come candidato premier e lui ci crede. Il campo largo per lui è una gabbia dalla quale uscire.
Anche se in maniera piuttosto discutibile, è comunque stato per due volte premier. E tanto gli basta per sentirsi ancora il leader. In politica estera parte molto avvantaggiato rispetto alla Schlein che non conosce nessuno. Ha già un rapporto privilegiato con l’amministrazione Trump e con le cancellerie europee, che la Schlein isolazionista non sa neppure dove si trovino.
La realtà racconta di un centrodestra compatto e di una sinistra che si logora giorno dopo giorno in una guerra intestina per la leadership dell’opposizione. Una sinistra che si interroga su chi comandi, con «alleati» che si smentiscono continuamente. Nel centrodestra è tutto chiaro, da sempre: se si vince, il leader del partito che prende più voti fa il premier. Nel centrosinistra, invece, è un caos, come al solito.
Tutti balleranno da soli, come stanno già facendo, un valzer che ricorda l’ultimo ballo sul Titanic.
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Con Elena Tessari, grande "donna del vino", raccontiamo una storia di eccellenza italiana. Con qualche consiglio per il Natale che arriva.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 18 dicembre con Flaminia Camilletti
Giorgia Meloni (Ansa)
Ne è scaturita una dichiarazione finale dei leader europei che riprende tutte le priorità che l’Italia ha sostenuto in questi mesi difficili, e che ho ribadito anche martedì scorso accogliendo a Roma il presidente Zelensky. Il cammino verso la pace, dal nostro punto di vista», aggiunge la Meloni, «non può prescindere da quattro fattori fondamentali: lo stretto legame tra Europa e Stati Uniti, che non sono competitor in questa vicenda, atteso che condividono lo stesso obiettivo, ma hanno sicuramente angoli di visuale non sovrapponibili, dati soprattutto dalla loro differente posizione geografica. Il rafforzamento della posizione negoziale ucraina, che si ottiene soprattutto mantenendo chiaro che non intendiamo abbandonare l’Ucraina al suo destino nella fase più delicata degli ultimi anni». Quanto agli altri due fattori, la Meloni non si esime dall’avvertire dei rischi che correrebbe l’Europa se Vladimir Putin fosse lasciato libero di ottenere tutto quello che vuole: «La tutela degli interessi dell’Europa», incalza la Meloni, «che per il sostegno garantito dall’inizio del conflitto, e per i rischi che correrebbe se la Russia ne uscisse rafforzata, non possono essere ignorati e il mantenimento della pressione sulla Russia, ovvero la nostra capacità di costruire deterrenza, di rendere cioè la guerra non vantaggiosa per Mosca. Come sta, nei fatti, accadendo. Oltre la cortina fumogena della propaganda russa», argomenta il premier, «la realtà sul campo è che Mosca si è impantanata in una durissima guerra di posizione, tanto che, dalla fine del 2022 ad oggi, è riuscita a conquistare appena l’1,45% del territorio ucraino, peraltro a costo di enormi sacrifici in termini di uomini e mezzi. È questa difficoltà l’unica cosa che può costringere Mosca a un accordo, ed è una difficoltà che, lo voglio ricordare, è stata garantita dal coraggio degli ucraini e dal sostegno occidentale alla nazione aggredita». La Meloni entra nel merito di quanto sta accadendo in queste ore: «Il processo negoziale», spiega ancora, «è in una fase in cui si sta consolidando un pacchetto che si sviluppa su tre binari paralleli: un piano di pace, un impegno internazionale per garantire all’Ucraina solide e credibili garanzie di sicurezza, e intese sulla futura ricostruzione della nazione aggredita. È chiaramente una trattativa estremamente complessa, che per arrivare a compimento non può, però, prescindere dalla volontà della Russia di contribuire al percorso negoziale in maniera equa, credibile e costruttiva. Purtroppo, ad oggi, tutto sembra raccontare che questa volontà non sia ancora maturata. Lo dimostrano i continui bombardamenti su città e infrastrutture ucraini, nonché sulla popolazione inerme, e lo confermano le pretese irragionevoli che Mosca sta veicolando ai suoi interlocutori. La principale delle quali riguarda la porzione di Donbass non conquistata dai russi. A differenza di quanto narrato dalla propaganda», insiste ancora la Meloni, «il principale ostacolo a un accordo di pace è l’incapacità della Russia di conquistare le quattro regioni ucraine che ha unilateralmente dichiarato come annesse già alla fine del 2022, addirittura inserendole nella costituzione russa come parte integrante del proprio territorio. Da qui la richiesta russa che l’Ucraina si ritiri quantomeno dall’intero Donbass. È chiaramente questo, oggi, lo scoglio più difficile da superare nella trattativa, e penso che tutti dovremmo riconoscere la buona fede del presidente ucraino, che è arrivato a proporre un referendum per dirimere questa controversia, proposta, però, respinta dalla Russia. In ogni caso, sul tema dei territori, ogni decisione dovrà essere presa tra le parti e nessuno può imporre da fuori la sua volontà». Si arriva agli asset russi: «L’Italia», sottolinea la Meloni con estrema chiarezza, «ha deciso venerdì scorso di non far mancare il proprio appoggio al regolamento che ha fissato l’immobilizzazione dei beni russi senza, tuttavia ancora avallare, ancora, alcuna decisione sul loro utilizzo. Nell’approvare il regolamento», precisa, «abbiamo voluto ribadire un principio che consideriamo fondamentale: decisioni di tale portata giuridica, finanziaria e istituzionale, come anche quella dell’eventuale utilizzo degli asset congelati, non possono che essere prese al livello dei leader. Intendiamo chiedere chiarezza rispetto ai possibili rischi connessi alla proposta di utilizzo della liquidità generata dall’immobilizzazione degli asset, particolarmente quelli reputazionali, di ritorsione o legati a nuovi, pesanti, fardelli per i bilanci nazionali». L’ipotesi di una forza multinazionale resta in discussione «con partecipazione volontaria di ciascun Paese», sostiene ancora la Meloni, ma «l’Italia non intende inviare soldati in Ucraina». Nelle repliche la Meloni ha gioco facile a rispondere alle critiche delle opposizioni, divise ancora una volta. A chi le chiede di scegliere tra Europa e Stati Uniti, la Meloni risponde di «stare con l’Italia» e rivolgendosi al Pd ricorda che se l’Europa rischia l’irrilevanza è per le politiche portate avanti negli ultimi anni dalla sinistra.
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