2025-05-01
Treu, Fornero, Renzi. Gli impieghi sono più poveri e precari grazie alla sinistra
Il governo Prodi introdusse la flessibilità nel 1997. Poi Draghi, lodato dal Pd, ne chiese altre dosi. Salvo ammettere l’errore.Solo un lavoratore che abbia passato l’ultimo quarto secolo su Marte potrebbe bersi quello che scrive Maurizio Landini a nome del comitato per i referendum sul lavoro. «Potremo porre un freno ai licenziamenti illegittimi, accrescere le tutele per i lavoratori delle piccole imprese, ridurre la precarietà, garantire più sicurezza sul lavoro», si leggeva nell’appello pubblicato dal segretario della Cgil sui maggiori quotidiani. Dal 1997, quando i cattolici Romano Prodi e Tiziano Treu tennero a battesimo i nuovi modelli di flessibilità contrattuale, la lunga marcia della precarizzazione del lavoro non si è mai fermata, andando a impattare non solo sugli stipendi, ma anche sulla capacità di sostenere un mutuo per la casa, di mettere su famiglia, di fare dei figli. Una dozzina di diversi contratti flessibili che rapidamente diventa una selva oscura nella quale si aggirano i ragazzi in cerca di lavoro, prima di prendere la strada dell’estero. Un balletto di vent’anni sulla licenziabilità nelle aziende medie e grandi. L’indebolimento progressivo dei contratti collettivi di lavoro, anche sulla spinta del «modello» Marchionne, appoggiato con leggerezza dal centrosinistra per regolare i conti a sinistra con la Fiom-Cgil. I sindacati che si convertono a giganteschi Caf, mentre agenzie e imprenditori legati alla politica si buttano sul nuovo business dei corsi di formazione. Eppure, tra coloro che oggi marceranno «per il lavoro» nelle grandi città italiane, chiedendo il salario minimo, l’abolizione di quel che resta del Jobs Act di Matteo Renzi e l’aumento dei salari, ci saranno anche i delusi della «flessibilità» come indice di maturo riformismo alla Tony Blair de’ noantri. Nel 1994 l’Ocse inventò l’indice Lpl (Legislazione a protezione dei lavoratori): tanto più è alto e tanto più sono elevati rigidità del mercato e disoccupazione. In sostanza, è un indice di rigidità, che ha affascinato economisti e giuristi della sinistra riformista, anche se nessuno è mai riuscito a provare che tagliando l’Lpl diminuisca l’occupazione. Nel 1994 questo indice era sopra il 3,5, e nel 2006 era sceso all’1,5, come osservò il sociologo Luciano Gallino su Micromega (14 aprile 2014). Che cosa era successo in quei 12 anni? Erano entrate in azione le riforme delle leggi Treu (1997) e Maroni-Sacconi (2003). I precari sono rapidamente diventati quattro milioni, mentre oggi sono 2,8 milioni. Poi è arrivata la riforma di Elsa Fornero (2012), con la precarietà in uscita sulle pensioni, e le grandi aziende (a cominciare dall’ex Fiat e dalla Telecom) si sono ristrutturate a spese dello Stato e dell’Inps, sfornando migliaia di nuovi «collaboratori» e pensionati che magari fanno lo stesso lavoro di prima. Così che le porte d’ingresso per i giovani sono sempre più strette. Nel 2014, quando arriva il Jobs Act di Renzi e del suo ministro Giuliano Poletti (ex capo delle coop rosse), la sinistra avrebbe tutti gli strumenti per capire che quella «flessibilità» cara alla Cisl nasce già vecchia. Ma Renzi è abilissimo ad appoggiarsi a un altro personaggio di carisma come Sergio Marchionne, che con un semplice referendum aziendale in Fca aveva spaccato il sindacato e aveva rifilato una bella mazzata ai contratti nazionali. Il manager italo-canadese era stato così abile che nell’agosto 2011 il governo di Silvio Berlusconi aveva inserito nella manovra finanziaria l’articolo 8, con cui si consentiva al contratto aziendale di derogare a quello nazionale a qualsiasi riguardo, per specifiche esigenze produttive. Già, la famosa estate 2011 in cui si misero le basi per la caduta del Cavaliere e l’arrivo di Mario Monti in conto Troika. Nella lettera che Jean Claude Trichet e Mario Draghi spediscono al governo italiano a nome della Bce e della Banca d’Italia, al punto 5 si sottolineava «l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione».Poi però, specie ai migliori, capita di cambiare idea. E così ecco che cosa è andato a raccontare lo stesso Draghi al Parlamento Ue lo scorso 18 marzo: «La politica di austerità perseguita dall’Unione europea negli ultimi anni non era la strada giusta. Questa, insieme ad una contrazione dei salari, che sono stati usati dai vari Stati membri come strumento di competitività in Ue, hanno portato il Vecchio continente ad avere un eccessivo surplus commerciale verso l’estero e più nel dettaglio verso gli Usa». A parte che quindi non ci sarebbe molto da stupirsi che poi Trump abbia messo i dazi, resta il tema della competitività. Per la sinistra, e per molti cattolici, è un tabù perché per poter competere si deve innanzitutto avere una burocrazia efficiente e non invasiva, un carico fiscale equo e un costo dell’energia non così abnorme. Ma poi ci sono anche gli investimenti in ricerca e sviluppo, oltre alla capacità di farsi largo su un dato mercato. Insomma, un quarto di secolo di «riforme» del lavoro, tagli di personale e delocalizzazioni varie non sembrano aver aumentato la competitività. Ma dall’altra parte, a maggio del 2025 ci si ritrova con un Landini che promette di «ridurre la precarietà».
Eugenia Roccella (Getty Images)
Carlotta Vagnoli (Getty Images)