2024-12-14
«Mia figlia operata troppo in fretta: per fare le transizioni la sanità vola»
Un padre racconta il cammino della ragazza: «Dalla diagnosi di possibile disforia di genere alla mastectomia sono passati pochi mesi. Vorrei che le famiglie avessero più strumenti, l’approccio “affermativo” fa danni».Paolo è il padre di Giulia, ma Paolo e Giulia non esistono: sono nomi a tutela della privacy di un signore che vive in un comune del Trentino e di sua figlia, che da circa tre anni ha intrapreso un percorso di transizione di genere. Paolo ha accettato di raccontare alla Verità il suo cammino a fianco di Giulia.Quando sua figlia ha iniziato a parlarvi di identità di genere?«Mia figlia è sempre stata una ragazza normale nel senso più piano del termine: sia come caratteristiche, sia come comportamenti e orientamenti. Il fatto più traumatico a nostra conoscenza è stato senza dubbio la separazione tra me e sua madre, avvenuta quando era adolescente. Ancora in minore età ha iniziato poi una relazione con un ragazzo, che ha portato anche a una convivenza, e che si è conclusa nel giugno 2022 a seguito della sua decisione di intraprendere la transizione».È stata una relazione problematica?«Dal nostro punto di vista, sì: Giulia ha iniziato a manifestare disturbi alimentari che l’hanno portata a divenire obesa e a forme depressive, tanto che ha deciso - maggiorenne e single - di rivolgersi a una specialista, una psicologa. Dopo la visita ha riferito a sua madre l’intenzione di cambiare sesso».A lei non ha parlato?«Non di questo: mia figlia lavora con me, ma le è sempre risultato più facile affrontare questi temi con la madre. Essendo rimasti in rapporti civili con la mia ex moglie dopo la separazione, ho saputo da lei di questa cosa, di cui non avevamo mai avuto avvisaglie, neppure nel periodo della pubertà».Siamo quindi nell’estate del 2022. «Sì. A luglio la psicologa del servizio sanitario nazionale che la visita le fa una diagnosi di attacchi d’ansia e depressione. Ma di fronte all’auto-diagnosi di disforia di genere di mia figlia, la invita contestualmente a rivolgersi ad altri esperti».Quindi la psicologa ha in qualche modo avallato una intuizione autonoma di Giulia?«Sì, dicendole anche di non ritenere di essere in grado di aiutarla».Conoscevate la seconda psicologa da cui si è recata vostra figlia? «No. Giulia ha consultato un’associazione Lgbtq+ di Trento, legata all’Arcigay. So solo, come ho imparato nei mesi seguenti avvicinandomi a questa realtà, che questa esperta ha aderito al cosiddetto approccio affermativo».Qui occorre un breve inciso. L’approccio affermativo ai disturbi legati all’identità di genere non è banale da definire. Esso tende a indicare come necessarie tutte le azioni che superino gli stigmi sociali contro queste condizioni, liberandole dalla sfera delle patologie, permettendo così alla persona di raggiungere la propria situazione di stabilità. I suoi critici lo considerano una delle applicazioni più evidenti della cultura woke: esso parte da un diniego dell’identità sessuale come dato di natura e nei fatti, essendo l’approccio più in voga anche nei protocolli sanitari e nel racconto mediatico, porta in modo spesso quasi inevitabile a un percorso che culmina, dopo gli opportuni trattamenti, a interventi chirurgici di transizione. La storia di Giulia è un esempio di ciò che questo percorso implica nella vita di una famiglia.Che tipo di aiuto ha ottenuto Giulia da questa seconda esperta?«Una conferma della diagnosi di disforia e l’accompagnamento per proseguire il cammino prima con una visita psichiatrica».Sempre nel Servizio sanitario nazionale?«Sì. Dopo una sola visita lo psichiatra le ha rilasciato un certificato di presumibile disforia di genere».Siamo quindi ancora nel corso del 2022?«Esatto. A dicembre con questo certificato Giulia viene visitata da un endocrinologo del Ssn, che prescrive gli esami necessari per l’utilizzo del testosterone. A gennaio 2023 questi esami vengono superati, e a febbraio inizia la somministrazione degli ormoni».In che modo avviene?«Un gel, spalmato sulle gambe».Di tutto ciò lei ha saputo quindi dalla mamma di Giulia?«Sì. Poi un giorno siamo riusciti ad affrontare l’argomento a tu per tu, dopo che aveva iniziato questo trattamento. Nel frattempo mi ero documentato, perché sapevo il cammino che stava facendo. Non è stata una discussione semplice».Può spiegare perché?«Giulia aveva firmato un consenso informato, che purtroppo a mio avviso porta soggetti fragili a una scarsissima consapevolezza di ciò che avviene al corpo di una ragazza. I tentativi di riflettere assieme sulle conseguenze di passaggi come il cambio di sesso, gli ormoni, gli interventi chirurgici, hanno sbattuto contro una forte aggressività: “Tu sei il mio datore di lavoro”, mi diceva, “non puoi parlarmi così: io chiamo il mio avvocato e ti denuncio”. Parole che non credevo potessero uscire dalla sua bocca. Non sapevo neppure avesse un legale, ma l’approccio affermativo detta linee precise sui rapporti con la famiglia: chi ostacola il cammino della transizione va trattato come nemico».Giulia l’ha poi denunciata?«No, deve aver desistito. Però anche l’argomento dei possibili effetti collaterali degli ormoni l’ha trovata impermeabile: “Anche tu prendi medicine, no? Avranno effetti collaterali”, mi ha detto. Tutto le pareva irrilevante rispetto alla convinzione che, diventando uomo, sarebbe stata felice. Ho provato a dirle che lei non poteva “diventare uomo”», ma lei diceva: “Come no? Certo che sì”».Quindi ha proseguito il trattamento.«Per legge, prima di chiedere il cambio di sesso sui documenti occorrono almeno sette mesi di somministrazione di ormoni: sempre con la massima celerità, a ottobre 2023 Giulia ottiene dal tribunale una sentenza favorevole al cambio delle generalità sui documenti e l’ok all’intervento chirurgico». Quale?«Prima, a fine 2023, una riduzione dei capezzoli; poi, ad aprile di quest’anno, una mastectomia bilaterale. Ora è in malattia per la sistemazione delle cicatrici della mastectomia. Tutto è avvenuto all’interno del percorso previsto a carico del Ssn, il che per me una cosa davvero impressionante. Ogni giorno leggiamo di sanità in difficoltà, di risorse scarse, di liste d’attesa infinite: con Giulia ho visto l’esatto contrario, quasi una corsia preferenziale per arrivare di corsa a ciò che ha fatto tramite medici e ospedali pubblici».Sua figlia ha in programma altri interventi?«Ha parlato dell’ablazione dell’utero, non vuole ricostruire un pene perché sa che non avrebbe alcuno scopo diciamo funzionale. Le ho detto che ciò implicherebbe la fine della possibilità di avere figli, se un domani cambiasse idea. Mi ha risposto che si può sempre adottare».Perché ha scelto di raccontare la sua storia?«Perché a mia figlia, che è maggiorenne e fa le sue scelte, è stato proposto un cammino a fronte di un disagio. Dopo gli ormoni, gli interventi e la sofferenza, Giulia ha gli stessi problemi psicologici per cui si è fatta visitare. È una ragazza chiusa in sé, con pochissime amicizie, che non sta bene. Vorrei che più persone possibile sapessero cosa succede veramente, e potessero gestire queste situazioni con più consapevolezza e strumenti».In particolare, cosa ha notato come maggiormente difficoltoso?«Il punto di partenza, per me falso: la minaccia del suicidio, subito evocata da chi ha visitato mia figlia, e la transizione come via obbligata per evitarlo. Chiunque si sentirebbe con le spalle al muro. In più, l’estrema superficialità delle direttive sanitarie e dei protocolli affermativi, presentati poco scientificamente come l’unica strada possibile. Tutto deriva per me da una fortissima ideologizzazione, che dà per scontata l’esclusione della famiglia dal percorso di cura e di accompagnamento. Giulia ha problemi psicologici che, così, non sono mai stati affrontati, per quel che vedo».È una questione che ha condiviso con altre famiglie? «Sì, purtroppo e per fortuna: purtroppo perché siamo in tanti, per fortuna perché non siamo soli. Ho partecipato alla rete creata da “GenerAzioneD”, un’associazione nata dall’incontro di genitori che condividevano l’esperienza di avere ragazzi o ragazze che da un giorno all’altro si sono identificati come transgender, con lo scopo di aiutare le famiglie. C’è un problema evidentissimo con i ragazzi maggiorenni: noi genitori siamo senza strumenti, in più siamo ignoranti, spesso lo sono anche i medici di base che mandano i giovani nei centri specializzati che hanno questa connotazione. Cinicamente, l’unico strumento è economico: se un ragazzo non ha indipendenza da questo punto di vista, è possibile seguirlo con un minimo di attenzione, altrimenti non lo recuperi più. Nell’approccio degli “affermativi” i genitori che non assecondano sono nemici da combattere o allontanare».Cosa si augura per Giulia? «Quello che credo si auguri ogni padre: che mia figlia sia felice. Se operarsi fosse la strada, andrebbe anche bene. Purtroppo non è così. Mi auguro di vederla consapevole di ciò che ha fatto. E spero che, per quanto il suo percorso non sia del tutto reversibile, possa tornare indietro e avere la sua vita».
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