2020-02-07
Tragedia sull’Alta velocità, due morti Il pm: «Uno scambio fuori posizione»
A Lodi, un Frecciarossa deraglia a 290 chilometri all'ora, restano uccisi i due operatori al lavoro nella motrice. Il procuratore apre all'ipotesi dell'errore umano: «In quel punto c'era stato un intervento di manutenzione». Decine di cancellazioni, deviazioni e ritardi di almeno un'ora hanno colpito il trasporto ferroviario. E anche per la giornata odierna è stata confermata la chiusura della tratta interessata dallo schianto. I lavoratori incrociano le braccia per due ore. Lo speciale contiene due articoli. «Poteva essere una carneficina», ha detto il prefetto di Lodi Marcello Cardona aggirandosi tra le lamiere del treno Frecciarossa 9595 partito alle 5.34 di ieri da Milano destinazione Salerno. All'altezza di Ospedaletto Lodigiano, la locomotrice è deragliata schizzando via dai binari come una saponetta bagnata schizza via dalle dita che cercano di trattenerla. Poteva essere una carneficina, ma è stata comunque una tragedia. Due morti e trentuno feriti, otto dei quali in codice giallo. Le vittime sono i due macchinisti, Giuseppe Cicciù (51 anni) e Mario Di Cuonzo (59). Figli del Sud entrambi. Il primo originario di Reggio Calabria, il secondo di Capua (Caserta). Sono il quarantacinquesimo e il quarataseiesimo caduto sul lavoro dall'inizio dell'anno. L'autorità giudiziaria è al lavoro per accertare la dinamica dell'incidente. Secondo una prima ricostruzione, la motrice del treno, che in quel momento viaggiava alla massima velocità consentita (circa 290 Km/h) sarebbe finita prima contro un carrello che si trovava su un binario parallelo, e poi contro una palazzina delle ferrovie, dove ha terminato la sua corsa. Il resto del convoglio - rimasto in asse - ha invece proseguito, rimanendo sui binari ancora per circa un chilometro, fino a quando la seconda carrozza si è ribaltata fermando il resto della coda. Che cosa non ha funzionato? Le ipotesi al momento sono varie ma un primo indizio potrebbe già essere stato individuato dagli inquirenti. L'attenzione investigativa è tutta concentrata su uno scambio montato male o difettoso oppure ancora riparato male. Il «punto zero», infatti, quello in cui si è verificato il problema di scorrimento, e che è stato trovato a 5-600 metri dal luogo del sinistro, si trova in corrispondenza di uno scambio. Tratto su cui per giunta, la scorsa notte, sarebbero stati effettuati lavori di una manutenzione, come riferito al procuratore di Lodi, Domenico Chiaro, da personale delle Ferrovie. «I lavori di manutenzione», ha detto il capo dell'ufficio giudiziario, «vengono fatti perché qualcosa si è rotto, se no non c'è motivo per essere lì alle 4 e mezza del mattino». Il pensiero è ancor più diretto quando Chiaro afferma che «se lo scambio fosse stato dritto per dritto», ha aggiunto. «il treno non sarebbe deragliato, non è difficile da capire. Non era nella posizione che doveva garantire la libera percorrenza del treno». A fare capolino anche l'ipotesi di un incidente provocato, immediatamente smentita dal procuratore. «Non è stato un atto volontario, l'ipotesi attentato è destituita di ogni fondamento». Anche se», ha aggiunto Chiaro, «stiamo verificando l'ipotesi dell'errore umano». In parallelo a quella giudiziaria, è stata aperta anche una indagine amministrativa. «Le società coinvolte hanno già avviato una commissione d'inchiesta e danno la massima disponibilità agli organi competenti per collaborare», ha specificato l'ad di Fs, Gianfranco Battisti. Alcuni dei 28 passeggeri hanno dovuto far ricorso in ospedale alle cure dello psicologo per lo choc provato durante il viaggio più angosciante della loro vita. «Ero nella carrozza con altre persone e a un certo punto abbiamo sentito un grosso rumore, il treno è deragliato e ci siamo trovati sottosopra», ha spiegato il ventottenne Alex Nuvoli. «Davanti a me viaggiava un ragazzo e a un certo punto, quando è successo tutto, mi ha detto: “Penso sia finita". Gli ho detto: “Forse hai ragione"; e ci siamo tenuti la mano, poi ci siamo guardati e ci siamo detti: «Siamo salvi». Abbiamo iniziato ad aiutarci, chi prendeva lo zaino, io con il computer facevo luce, poi abbiamo provato a rompere le porte e siamo riusciti a sfondare un finestrino prendendolo a calci e a sgattaiolare insieme». A bordo del vagone, dove si trovava con altri due passeggeri, Chiara ha ricordato invece: «Io stavo dormendo. C'è stato un botto poi il treno si è mosso molto e ci siamo fermati, poi diversi sballottamenti. Mi sono svegliata, sono cadute le valigie dalle cappelliere ma io sono rimasta aggrappata al mio posto con tutte le mie forze. Non abbiamo capito subito cosa stava succedendo, sembrava di stare sulle montagne russe, saranno stati 40 secondi ma sono sembrati 10 minuti». Chiara, che si occupa - coincidenze del destino - proprio di sicurezza sul luogo di lavoro, ha spiegato che «il terrore è arrivato dopo qualche ora, all'inizio era solo adrenalina». E ha ripercorso gli attimi in cui «il convoglio ha fatto un salto, poi la locomotiva si è staccata ed è andata dall'altra parte rispetto al senso di marcia». Testimonianze drammatiche anche da parte di Micaela, giovanissima (24 anni appena) addetta al bar del Frecciarossa deragliato. «Io e miei colleghi di lavoro ci trovavamo nella carrozza numero tre, quella dove si trova il bar. Abbiamo sentito un grosso botto, le luci che si spegnevano e il treno che ha cominciato a vibrare. Sono scoppiati tutti i finestrini. La mia collega è stata sbalzata all'interno del bagnetto di servizio». Quando tutti sono riusciti a uscire dal vagone, «è stato abbastanza traumatico, perché abbiamo subito pensato al nostro collega delle ristorazione, che si trova nella carrozza numero uno attaccata alla motrice sbalzata fuori dai binari. Abbiamo creduto al peggio. Lui lo abbiamo trovato. Chi si trovava alla guida invece non ce l'ha fatta». Nella carrozza numero uno, solitamente affollata, ci sono dieci posti per i viaggiatori executive. Ieri mattina, però, per strano che possa sembrare, nessuno aveva prenotato. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tragedia-sullalta-velocita-due-morti-il-pm-uno-scambio-fuori-posizione-2645055438.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="disagi-su-tutta-la-rete-e-oggi-c-e-lo-sciopero" data-post-id="2645055438" data-published-at="1763771324" data-use-pagination="False"> Disagi su tutta la rete. E oggi c'è lo sciopero
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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