2023-06-17
Traballano le quote etniche negli atenei Usa
Il giudice Clarence Thomas (Ansa)
La Corte suprema Usa può affossare la prassi, difesa dai dem, di ritenere la razza requisito d’ammissione.È una decisione potenzialmente dirompente quella attesa nei prossimi giorni dalla Corte suprema americana (ieri, quando La Verità è andata in stampa, non era ancora stata pubblicata). I togati potrebbero infatti assestare un colpo fatale alla cosiddetta «affirmative action»: la pratica, cioè, di considerare l’etnia un fattore da tenere in esame nell’ammissione degli studenti all’università. Ma andiamo con ordine.Come riportato dall’autorevole sito Scotusblog.org, il gruppo Students for fair admissions ha intentato nel 2014 due ricorsi contro Harvard e l’Università del North Carolina. Secondo i ricorrenti, Harvard violerebbe il titolo VI del Civil rights act, che impedisce agli enti che ricevono fondi federali di effettuare discriminazioni in base all’etnia: nel dettaglio, il gruppo sostiene che, a parità di condizioni, gli asiatici americani hanno meno probabilità di essere ammessi rispetto a candidati di altre etnie. Dall’altra parte, Students for fair admissions ritiene che l’Università del North Carolina avrebbe violato la clausola di eguale protezione davanti alla legge, prevista dal Quattordicesimo emendamento, che vieta agli enti governativi la discriminazione in base all’etnia. Il duplice ricorso, intentato contro un ateneo privato e uno pubblico, mira principalmente a ottenere il ribaltamento di Grutter v. Bollinger: una sentenza della Corte suprema, emessa nel giugno del 2003, che consentì alla University of Michigan Law school di considerare l’etnia come un fattore da tenere presente nei processi d’ammissione, con l’obiettivo di garantire la «diversità» all’interno del corpo studentesco, tutelando le minoranze.In particolare, l’allora supremo giudice, Sandra Day O’Connor, sostenne che la Costituzione degli Stati Uniti «non proibisce l’uso mirato della razza da parte della scuola di legge nelle decisioni di ammissione per promuovere un interesse stringente nell’ottenere i benefici educativi che derivano da un corpo studentesco diversificato». «La Corte», proseguiva l’opinione di maggioranza redatta dalla O’Connor, «prevede che, tra 25 anni, l’uso di preferenze razziali non sarà più necessario per promuovere l’interesse approvato oggi». Insomma, il ricorso alla «affirmative action» veniva interpretato fondamentalmente come transitorio: un passaggio, quest’ultimo, rispetto a cui dissentirono i giudici di nomina clintoniana, Ruth Ginsburg e Stephen Breyer (che comunque si schierarono con la maggioranza sul resto). Dall’altra parte, una delle argomentazioni critiche, addotte dalla minoranza della Corte suprema, fu che la sentenza consentiva di fatto un sistema incostituzionale di quote. È quindi contro quel pronunciamento che si muovono i ricorsi di Students for fair admissions: ricorsi che finora sono stati respinti dai tribunali di grado inferiore.Nel corso dei dibattimenti svoltisi nei mesi scorsi davanti ai supremi togati, l’amministrazione Biden è scesa in campo, schierandosi a favore delle due università che sono oggetto del contenzioso. In particolare, il solicitor general degli Stati Uniti, Elizabeth Prelogar, ha difeso l’«affirmative action», sostenendo che tale pratica starebbe cambiando la società e che verrà un giorno in cui ci saranno corpi studenteschi «diversificati» senza far sì che l’etnia venga considerata un fattore di cui tener conto in sede di ammissione. Un’argomentazione che, durante il dibattimento, ha lasciato alcuni dei supremi togati piuttosto perplessi. Quelli di nomina repubblicana hanno sottolineato che la misura dovrebbe essere transitoria e, quindi, non mantenuta per un tempo indefinito. Inoltre, il giudice Clarence Thomas ha puntato direttamente il dito contro il concetto stesso di «diversità». Ben più favorevoli all’«affirmative action» si sono, invece, mostrati i togati di nomina dem. Più in generale, i sostenitori della «affirmative action» negano che questa pratica equivalga a istituire delle quote (che, ricordiamolo, per il sistema americano sono attualmente incostituzionali): la tesi è che l’etnia sarebbe solo uno dei fattori da considerare nell’ammissione e, per giunta, soltanto in casi specifici. Gli oppositori ribattono sostenendo che l’etnia non dovrebbe essere in nessun modo un elemento da tenere presente nella valutazione degli studenti, in quanto una simile pratica sarebbe foriera di una discriminazione al contrario.Secondo vari analisti, è probabile che la maggioranza della Corte suprema possa schierarsi alla fine con Students for fair admissions. Se ciò accadesse, le conseguenze politiche della faccenda sarebbero rilevanti. Si tratterebbe di uno schiaffo all’amministrazione Biden che, oltre ad essersi schierata contro i ricorrenti in questi due casi, ha sempre fatto della controversa «identity politics» un proprio cavallo di battaglia. È tra l’altro verosimile che, come avvenuto l’anno scorso dopo il ribaltamento di Roe v Wade, la Casa Bianca e svariati parlamentari del Partito democratico non si limitino a esprimere (legittimo) dissenso, ma vadano all’attacco della Corte suprema, delegittimandola.
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)