2020-07-04
Tra due mesi ci ritroveremo un Paese a pezzi
Roberto Gualtieri, Giuseppe Conte e Nunzia Catalfo (Ansa)
Secondo il governo, basta proibire i licenziamenti, magari fino a dicembre, per evitare che siano bruciati migliaia di posti di lavoro. Ma per l'Istat il 12% delle imprese vuol ridurre il personale. Senza fidi e con il caos Cig, non possono aspettare i rinvii di Giuseppi.Come volevasi dimostrare. È di ieri l'articolo in cui spiegavamo come il divieto di licenziare, imposto dal governo per contenere gli effetti del coronavirus sull'economia, non sia una soluzione del problema in cui versano migliaia di attività imprenditoriali, ma solo una misura tampone, che può funzionare per un breve lasso di tempo. Se si vuole evitare che le aziende, una volta superato il blocco, lascino a casa centinaia di migliaia di dipendenti - era la tesi che sostenevamo - serve ben altro, cioè occorre che quelle imprese siano messe nelle condizioni di superare la crisi. Detto, fatto. Non ovviamente i provvedimenti a favore di industrie e negozi, di cui ancora non si vede l'ombra e neppure i soldi. Ciò che è in dirittura d'arrivo sono invece le lettere di licenziamento che dopo il 17 agosto potrebbero essere spedite. A dirlo non siamo noi e nemmeno il nuovo presidente di Confindustria, che a Palazzo Chigi considerano un uomo provvisto di un eccesso di pessimismo. No, a certificare il disastro prossimo venturo è l'Istat, che nel suo rapporto annuale rivela come il 12 per cento delle aziende si prepari a ridurre il personale. Ora noi non sappiamo se tra queste imprese ci sia chi voglia liberarsi di un dipendente o di 100, ma il fatto che una su otto intenda lasciare a casa un certo numero di persone, dà l'idea di ciò che potrebbe succedere a settembre. Già, perché stando alle voci circolate nell'area di governo e soprattutto in quella del sindacato, in particolare della Cgil, il divieto di licenziare sarà prolungato per altri mesi, quanto meno fino alla fine del periodo estivo. Però, prima o poi il blocco decadrà, un po' perché per farlo durare servono ammortizzatori sociali e questi costano miliardi, un po' perché non si può impedire a un'impresa di agire da qui all'eternità sui costi, in quanto equivarrebbe a condannarla al fallimento. Presto sarà necessario ripristinare le regole corrette del mercato del lavoro, anche per consentire un uso flessibile dei personale. Ma se nel frattempo non si farà nulla per consentire a un'azienda di riprendersi dalla batosta del coronavirus, sembra difficile sperare che quando avrà le mani libere non le userà per licenziare i dipendenti di cui non ha più bisogno o che, semplicemente, non può più permettersi di pagare, pena la bancarotta. Ci vuole molto a capirlo? Dal nostro punto di vista no, ma nonostante quello che abbiamo previsto sia facile da comprendere anche per una persona a digiuno di materie economiche, a Palazzo Chigi continuano a ripetere refrain tranquillizzanti tipo «nessuno sarà lasciato indietro».Il problema è che già una parte del Paese è rimasta indietro e non per sua volontà. Ogni giorno riceviamo in redazione segnalazioni di imprenditori che non riescono a ottenere i finanziamenti promessi, così come lettere disperate di lavoratori che, in cassa integrazione da mesi, non hanno ancora visto un euro. A differenza di quanto pensa il presidente del Consiglio, che si appella al buon cuore delle banche, la responsabilità non è da addossare per intero agli istituti di credito, ma al governo, che non ha esentato chi sta allo sportello da una serie di norme burocratiche per l'autorizzazione dei fidi. A parole, la liquidità avrebbe dovuto essere immediata, ma nei fatti i rimpalli sono all'ordine del giorno, con il risultato di ritardi incredibili. Né è colpa delle aziende, come invece sembra credere il presidente dell'Inps Pasquale Tridico (che ha accusato gli imprenditori di pigrizia), se l'assegno dell'ente non arriva a chi è stato messo in cassa integrazione. Anche in questo caso le responsabilità sono proprio di chi cerca di scaricarle su altri. Insomma, mentre la situazione è quella descritta dall'Istat e da noi abbondantemente anticipata, chi sta nelle stanze che contano, invece di decidere rimanda. Il premier, prima dice che si deve agire in fretta, poi se la prende comoda, rinviando tutto a settembre manco fossero gli esami di riparazione. Ma da riparare fra due mesi ci sarà ben poco, semmai bisognerà rottamare.