2024-09-19
Quei sei gol in un mese valgono l’eternità
Totò Schillaci in maglia azzurra a Italia '90 (Getty)
L’eroe del Mondiale 1990 si è arreso alla recidiva di un tumore. Il suo sguardo spiritato in maglia azzurra trascinò tutta l’Italia nelle «notti magiche». Andò dalla periferia di Palermo fino alla Juve, con le gaffe e quel caratterino: «A Roberto Baggio ho dato un pugno».Lo piangono anche a Sliven, sull’altopiano bulgaro, dove un tifoso palermitano aveva aperto il «Bar Totò» con la tenda da sole rosanero. Nel settembre del 1990, subito dopo i mondiali italiani, lui si trovò davanti a quell’insegna e rimase di sasso; oltre la cortina di ferro (il Muro era stato abbattuto solo dieci mesi prima), in un mondo senza influencer e social, quello era un parametro clamoroso di affetto popolare. Era capitato lì con la Juventus più assurda del secolo breve, quella di Gigi Maifredi, per giocare i sedicesimi di Coppa Coppe: 0-2, primo gol suo e autografo sulla tenda. Allora per spiegare il delirio generale diceva: «Ci sono periodi nella vita di un calciatore nei quali ti riesce tutto. Basta che respiri e la metti dentro. Vuol dire che qualcuno, da lassù, ha deciso che Totò Schillaci dovesse diventare l’eroe di Italia 90».L’eroe di Italia 90 è andato a palleggiare in paradiso ieri, spegnendosi in una stanza dell’ospedale civico di Palermo mentre Barbara, la seconda moglie, gli teneva la mano. Lascia anche tre figli, Mattia, Nicole e Jessica. Totò non aveva ancora 60 anni, un’età da partita a calcetto il giovedì sera; ma il centravanti dall’accelerazione felina che fece impazzire il Paese nelle «notti magiche» non è riuscito a dribblare un tumore al colon che si è ripresentato per la terza volta. I medici dicono: si poteva salvare con la prevenzione, siamo arrivati tardi. Strano destino per lui, che arrivava sempre in anticipo sul primo palo, sul difensore, sull’uscita del portiere. Crudeltà e tenerezza nel destino di un uomo del Sud dal viso scavato e dal congiuntivo traballante, che dentro la valigia di cartone trovò il sole e una delle carriere da top player più corte e intense. Tre anni, massimo quattro, fu il tempo della sua parabola a cavallo di un pallone, sparato dalla bocca di un cannone come il Barone di Munchhausen. I numeri lo confermano: segnò 37 gol con 120 presenze in Serie A (molta Juventus e poca Inter), 39 con 105 presenze in Serie B, 56 nelle 78 partite dell’esilio dorato in Giappone. Ma le sei reti della vita le mise in fila in un mesetto, dal 9 giugno al 7 luglio 1990 con la maglia azzurra addosso mentre la colonna sonora di Edoardo Bennato e Gianna Nannini irrompeva in tutte le case. Era partito come riserva di Andrea Carnevale nell’Italia di Azeglio Vicini, entrò contro l’Austria sullo 0-0 a un quarto d’ora dalla fine, dopo quattro minuti fece esplodere l’Olimpico con una girata di testa e non uscì più. Capocannoniere, miglior giocatore del Mondiale, secondo nel Pallone d’Oro dietro Lothar Matthäus. L’ha detto lui: «In certi giorni basta che respiri e la metti dentro». In coppia con Roberto Baggio fece sognare l’Italia e relegò in panchina anche Gianluca Vialli che lo doppiava per classe pura. Mentre Schillaci sfondava la porta, negli spogliatoi andava in scena il film Azeglio e le storie tese. Sembrava che la Coppa del Mondo fosse a un passo ma c’era Diego Maradona in agguato e la Summer of Totò si fermò a Napoli in semifinale. Anche quella volta a lui bastò una frase per spiegare tutto: «Peccato che poi Dio si sia distratto durante la partita con l’Argentina. Una disdetta: abbiamo preso solo un gol in quell’edizione dei mondiali, e quel gol ci ha condannati».Salvatore Schillaci nasce a Palermo il primo dicembre 1964 nel quartiere Cep, edilizia popolare estrema, degrado e criminalità, dove non esiste l’ascensore sociale e quello meccanico è perennemente «fuori servizio». Papà Mimmo è muratore, mamma Giovanna casalinga, diventeranno famosi anche loro durante Italia 90 con i collegamenti Rai dal tinello per celebrare i gol del figlio. Sono i giorni nei quali lo striscione sul balcone «Totò facci sognare» si trasforma nel simbolo di una generazione (oggi gente di 50-60 anni) che imparò allora a guardare al futuro con dolce ottimismo. La favola del centravanti con le scarpe rotte è uguale a tante altre: campetti di polvere, partite infinite fino al tramonto, la tonnara dei campionati minori. Schillaci non ha la struttura di Gigi Riva (da tenero gaffeur un giorno disse «non ho il fisico da bronzo di Rialto»). Non ha neppure la classe di Zlatan Ibrahimovic o la genialità di Francesco Totti. Ma è un rabdomante, cerca il pallone in ogni mischia, lo trova in ogni angolo dell’area di rigore, e ci arriva prima degli avversari. Non c’è nulla di casuale nei suoi pochi movimenti: quando inquadra la porta è immarcabile. È l’erede di Paolo Rossi, più di un Pippo Inzaghi ante litteram. Ha anche la fortuna di imbattersi in due scienziati della pedata di passaggio in Sicilia: Franco Scoglio e Zdenek Zeman, che lo allenano e lo valorizzano. Totò porta il Messina dalla C2 alla B e nel 1989 s’imbarca per il continente sulle orme di tanti suoi compaesani emigranti. Stessa destinazione: Torino. Indirizzo diverso: la villa di Gianni Agnelli.L’Avvocato si innamora della sua storia di riscatto sociale e la completa, dal Cep alla Juventus, al prezzo di 6 miliardi di lire. Schillaci in bianconero vince la Coppa Uefa e la Coppa Italia e gioca con fenomeni come Baggio, con il quale ha un rapporto di amicizia e sudditanza psicologica. Un giorno fra loro finisce a pugni. «Dividevamo la stessa camera, lui parlava poco, io niente», rivelò Totò in un’intervista. «Eppure, nonostante questo, una volta facemmo a cazzotti: anzi, fui io a rifilargli un pugno. Eravamo nello spogliatoio, Roberto stava scherzando con me, ma si lasciò prendere la mano e lo scherzo divenne pesante. Io reagii in quel modo e me ne pentii subito». È curioso come uno dei calciatori più candidi di quegli anni sia passato alla storia per gesti violenti. Come quando, al termine di un Bologna-Juventus, si rivolge a Fabio Poli che gli avrebbe sputato e lo minaccia: «Ti faccio sparare». La frase rimbalza su tutti i Tg, gli costa un’inchiesta, una squalifica e prima di diventare iconica resta lì sospesa come un avvertimento mafioso. «Ho sbagliato, ma mi hanno massacrato come fossi stato un killer». Nell’Italia perbenista porta sulle spalle come una croce anche colpe non sue. In trasferta è accompagnato dal coro «Schillaci ruba le gomme» per una storia che riguarda il fratello. Una domenica gli ultrà della Fiorentina gli tirano un copertone in campo e lui sbotta: «Guadagno 500 milioni all’anno, non ho bisogno di rubare. Non pensavo di dover difendere anche la mia dignità». Il passaggio all’Inter nel 1992 avviene per l’arrivo a Torino di Vialli e per un motivo surreale: la real casa bianconera non vuole che Totò divorzi dalla prima moglie Rita, nonostante lei abbia una storia con un altro calciatore, Gianluigi Lentini. Bisogna ammettere che in quegli anni Totò era un benefattore anche dei rotocalchi di gossip. Il resto è un sequel smunto. A Milano non lascia rimpianti, in Giappone lo amano ricordandogli le notti magiche e lo fanno economicamente felice. Quando si ritira torna a occuparsi di calcio giovanile, apre un centro sportivo a Palermo, costruisce una squadra composta di soli migranti. Il mondo là fuori (quello che non ha mai saputo gestire) lo tira per la maglia come uno stopper: si candida con Forza Italia nella sua città, viene eletto con 2.000 preferenze ma dura due mesi. Poi naviga dentro la televisione secondo rotte scontate: Quelli che il calcio, l’Isola dei famosi, Back to School, fino a Pechino Express. È un Totò reduce, che porta solo il nome di quel marziano dagli occhi spiritati sceso da un’astronave con la maglia azzurra un giorno di giugno di 34 anni fa, senza avvertire. Per regalare meraviglia e adrenalina pura a un popolo tornato bambino «aspettando un gol».
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Dopo 18 mesi d’assedio, i paramilitari di Hemeti hanno conquistato al Fasher, ultima roccaforte governativa del Darfur. Migliaia i civili uccisi e stupri di massa. L’Onu parla della peggior catastrofe umanitaria del pianeta.
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