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2024-09-02
Casa, figli e basta col femminismo. Torna l’orgoglio di essere moglie
iStock
Tremate, tremate: le casalinghe sono tornate. A dispetto degli sforzi mediatici per elevare Elodie ad intellettuale, Taylor Swift a divinità e Kamala Harris ad incredibile novità politica - e pazienza se è al governo dell’America da quattro anni -, la vera sorpresa femminile di questi tempi è un’altra: il ritorno sulla scena delle donne liete di dedicarsi a casa e famiglia. Si tratta insomma di vere e proprie «mogli tradizionali», che spopolano con tanto di hashtag identificativo - #tradwives -, espressione di un movimento nato negli Stati Uniti e composto da ragazze giovani, spesso molto belle, che sui social mostrano come la loro vita non sia imperniata sulla carriera, come il mondo vorrebbe, bensì sulla famiglia. Come se non bastasse, queste «mogli tradizionali» sono sovente pure religiose: protestanti, mormone o cattoliche tradizionaliste.
In Internet hanno fatto la loro comparsa circa una decina di anni fa, ma secondo Google Trends la loro popolarità ha iniziato a crescere in modo significativo a metà del 2018 per diventare elevata dal 2020, quando l’emittente Bbc ha dato spazio ad Alena Kate Pettitt, che sostiene di volersi «sottomettere al marito, di volerlo viziare come se fosse il 1959», appoggiando un ritorno «alle tradizionali buone maniere, allo stile di vita e ai valori inglesi». Da allora ad oggi le «mogli tradizionali» non hanno più conosciuto battute d’arresto, anzi. Il risultato è che oggi una rappresentante di questo movimento, la trentaquattrenne Hannah Neeleman – che ha otto figli e lavora con il marito in una fattoria nello Utah –, può vantare su Instagram qualcosa come 10 milioni di follower: quasi tre volte, per rendere l’idea, quelli della già citata e venerata Elodie. Niente male, si converrà, per una mamma che da un lato vince i concorsi di bellezza, è vero, ma dall’altro non ha paura di dire che cucina, pulisce casa, munge le vacche; per il suo successo sui social (è popolarissima anche su TikTok) è stata ribattezza una nuova Kardashian.
Altre «mogli tradizionali» di successo, per così dire, sono Gwen Swinarton, Abby Roth, Estee Williams, Ekaterina Andersen e Nara Smith. Tendenzialmente, queste donne esibiscono un look vintage, con una preferenza per gli anni Cinquanta e Sessanta, e non temono di rivendicare apertamente un atteggiamento di totale collaborazione, financo di subordinazione, con il loro marito. Senza dimenticare, poi, una fede vissuta in modo aperto, sia esteriormente (in chiesa indossano il velo) sia nelle dichiarazioni; per capirci, quando in una intervista le è stato chiesto se non si sentisse oppressa per il suo stile di vita, Hannah Neeleman ha risposto che sentiva di fare «ciò che Dio vuole». Parole così dirette e schiette che, oggi, non si ascoltano quasi più neppure in ambito ecclesiale.
Un’altra caratteristica di queste donne è il loro rifiuto più o meno esplicito del femminismo. Ora, la particolarità del fenomeno e la sua dimensione, non più di nicchia, ha attirato l’attenzione di molti osservatori. Che, manco a dirlo, disprezzano o addirittura guardano con preoccupazione quello che Cécile Simmons, ricercatrice presso l’Institute for Strategic Dialogue, definisce «un movimento internazionale di donne che promuovono un ritorno alle tradizionali norme di genere sottomettendosi ai loro mariti e promuovendo la vita domestica». In un articolo uscito ad inizio anno sulla Stampa le «mogli tradizionali» sono state bollate come le «influencer dell’estrema destra americana» impegnate a raccontare «la maternità cool che piace a Fratelli d’Italia».
Devin Proctor, docente all’Elon University specializzato in antropologia digitale, ha effettuato una ricerca intitolata «The #tradwife persona and the rise of radicalized domesticity» in cui sostiene che queste donne siano pericolose, perché le loro attività sui social «sono spesso accompagnate da contenuti palesemente suprematisti bianchi». In effetti è vero: spesso le «mogli tradizionali» sono bianche; ma lo sono storicamente state, salvo rare eccezioni, pure le femministe - che tuttavia nessuno ha mai osato bollare come «suprematiste», benché alcune di esse razziste lo fossero sul serio. Basti prendere Margaret Sanger, la leggendaria pioniera della contraccezione e dei cosiddetti diritti riproduttivi, la quale nel suo The Pivot of Civilization (1920) avvertiva del pericolo che «gli abitanti dei quartieri poveri, che si moltiplicano come conigli, debordino dai confini dei loro quartieri o dei loro Paesi e trasmettano ai migliori elementi della società le loro malattie e i loro geni di qualità inferiore».
Ma torniamo alle trad wifes, che allarmano la cultura dominante non solo perché sono una voce diversa, ma perché sono abili comunicatrici. In uno studio pubblicato su Media and Communication, Megan L. Zahay, dell’Università del Wisconsin-Madison ha registrano non senza una nota di preoccupazione come le «mogli tradizionali» siano da tenere d’occhio, perché sono in grado di «diffondere il sentimento antifemminista in un modo pericolosamente digeribile ed esteticamente gradevole, dentro e fuori delle comunità online». Edith Jennifer Hill della Flinders University ha tentato un approccio più morbido rilevando, in un articolo su Theconversation.com, che «anche se non c’è niente di male nel guardare e apprezzare» sui social delle trad wifes, i loro video «non dovrebbero essere considerati qualcosa a cui aspirare. È importante che tutti noi guardiamo con occhio critico a tali contenuti». Ha rincarato la dose lo psicologo Mark Travers, che, a proposito del fenomeno, su Forbes ha sottolineato che «come studiosi e individui, dobbiamo rimanere vigili sulle piattaforme dei social media e sul loro potenziale di diffondere messaggi estremisti. Il movimento delle trad wife ci sfida a riflettere sulla fragilità del progresso sociale e sull’importanza di promuovere attivamente valori che abbraccino diversità, uguaglianza e inclusione».
La giornalista Anna Helen Petersen, per conto di Elle, l’anno scorso ha provato a vivere una settimana da trad wife, descrivendo l’esperienza come un trauma: «Cercare di adottare questa mentalità non solo irrita. Mi fa venire l’orticaria». Eppure le «mogli tradizionali» hanno le idee chiare, al punto da non saperle solo postare sui social, ma anche illustrare in testi brillanti e di successo. Non stiamo cioè parlando solo di signore in grembiule che condividono sorridenti le foto delle loro torte, ma anche di autrici che non temono di contrattaccare apertamente il vento culturale dominante. E di questo abbiamo ormai diversi esempi anche in Italia, dal bestseller Sposati e sii sottomessa di Costanza Miriano al più recente Presidenta anche no! di Raffaella Frullone. Tutto ciò, c’è da immaginare, non piacerà affatto ai doganieri del pensiero unico, secondo cui o la donna abbraccia devotamente l’ideologia femminista oppure è una pericolosa retrograda; il che a ben vedere rispecchia un’idea della storia piuttosto ingenua: quella secondo cui non si possa più tornare indietro, con la strada del cosiddetto progresso spianata e da ritenersi irrevocabile.
La realtà è però più complessa di come la immaginano, chiuse nei loro bei circoli, le studiose dei temi di genere o le influencer à la page; e può capitare - e difatti sta capitando -, che nel 2024 esistano ancora mogli e mamme che, pur non avendo formidabili carriere lavorative alle spalle, o addirittura non avendone nessuna, sfidino il proibito sostenendo la cosa in assoluto più sconvolgente: che sono felici.
Gli studi: la maternità rende felici
Impossibile che oggi una donna possa essere madre e contenta. Questo pensano i paladini del pensiero dominante, che sono saltati sulla sedia quando, qualche mese fa, la senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni ha osato augurarsi, ospite in un dibattito tv, che «la maternità torni a essere cool». «L’ambizione delle donne sia essere Rita Levi Montalcini, non madri», le aveva così prontamente ribattuto la segretaria del Pd, Elly Schlein, accolta da un’ovazione che, come succede spesso, ha finito per lasciare sullo sfondo il nodo di tutta la faccenda: opinioni personali a parte, essere madri rende più o meno felici? Penalizza le donne o le gratifica? Esiste qualche evidenza sociologica al riguardo?
Una prima risposta arriva da un dataset assai rilevante e rappresentativo: quello statunitense per il 2021 della General Social Survey (Gss), cui fanno spesso riferimento testate come il New York Times, il Wall Street Journal e la stessa Associated Press. Ebbene, tali dati evidenziano come tra le donne sposate, a parte quelle sotto i 35 anni (per motivi forse legati alle difficoltà economiche delle giovani coppie), quelle con figli siano «molto più felici» delle altre. Il dato è significativo, anche perché non isolato.
Già nel 2013, infatti, una ricerca uscita sulla rivista Psychological Science - e, oltretutto, realizzata da una donna, Katherine Nelson-Coffey dell’Arizona State University - aveva rilevato come non solo i genitori si sentano meglio rispetto a quanti non lo sono, ma traggono proprio dalla loro condizione e dal loro compito più piacere che da tutto quanto il resto. Nel 2019, presentando una indagine dell’Università Bocconi, era poi stato l’insospettabile Economist - smentendo molta letteratura precedente - a pubblicare un articolo eloquente fin dal titolo: «Dopotutto, i bambini rendono i genitori felici». Non è finita. Tra gli studiosi c’è chi ha iniziato a notare come quelle più afflitte da disagi mentali siano le donne di fede politica progressista.
Il primo ad accorgersene, lavorando su dati statunitensi, è stato Zach Goldberg. A partire da circa 12.000 interviste realizzate nel marzo 2020 dal Pew Research Center, rinomato un centro studi statunitense con sede a Washington, Goldberg ha esaminato le risposte a questa domanda: «Un medico o un altro operatore sanitario ti ha mai detto che hai un problema di salute mentale?». Ebbene, esaminando le risposte al quesito è emerso come i liberal bianchi avessero molte più probabilità - rispetto ai moderati e ai conservatori bianchi - di rispondervi in modo affermativo, e come tale tendenza risultasse ancor più accentuata tra le giovani. Un dato senza dubbio scomodo, ma suffragato anche da uno studio di Catherine Gimbrone, Lisa M. Bates, Seth J. Prins e Katherine M. Keyes intitolato «The politics of depression: Diverging trends in internalizing symptoms among US adolescents by political beliefs», con cui si è trovato come fino al 2012 le differenze di disagi mentali tra liberal e conservatori fossero lievi, per poi farsi nette.
Gimbrone e colleghi hanno provato a motivare tale differenziazione tirando in ballo il brutto clima creato nel Paese. Peccato che proprio nel 2012 Obama fosse stato rieletto con l’apertura, nel 2013, della Corte Suprema alle nozze gay: altro che clima oscurantista. Convince ben di più, pertanto, l’interpretazione dello psicologo Jonathan Haidt, secondo cui il dilagare progressista (ma non solo, ovviamente) di problemi mentali sia dovuto all’incontro tra i social e lo smartphone e la mentalità emotiva e vittimista propalata nei campus universitari.
«Laureata in chimica, ora faccio la mamma. Ma c’è chi mi insulta»
Monica Gibertoni in Negrini, 34 anni residente in provincia di Bologna, è senza dubbio un esempio di moglie tradizionale: laureata in chimica, dopo esser stata scaricata dall’azienda dove lavorava dopo la nascita del primo figlio – ora ne ha quattro, l’ultimo è nato nei giorni scorsi – ha deciso di dedicarsi alla creazione di articoli religiosi artigianali, avviando un’attività consultabile sul suo sito (www.monnicraft.com); si definisce «moglie, madre, artigiana e cattolica». La Verità l’ha avvicinata per sapere più di lei e del mondo delle tradwifes.
Gibertoni, in che consiste la sua attività di artigiana e quando ha iniziato?
«Ho iniziato a realizzare oggetti dopo la nascita del mio primo figlio, quando l’azienda per cui lavoravo decise di lasciarmi a casa. All’inizio erano oggetti per mamme e bambini, ma ben presto, in concomitanza con la mia conversione verso la Tradizione cattolica, mi sono resa conto di quanta necessità ci fosse di articoli religiosi, in particolare veli muliebri - sì, quelli che portavano le nostre nonne. Nel tempo ho aggiunto altri articoli, sempre religiosi, principalmente per donne e bambini... ma anche qualcosa per gli uomini! Direi che quindi la clientela è varia, ma unita da una fede cattolica genuina e integrale, alla ricerca del depositum fidei, un po’ nascosto e impolverato, ma sempre più richiesto e necessario in questa crisi della Chiesa».
Quali sono i suoi prodotti più venduti?
«I prodotti più venduti sono senz’altro i veli muliebri, che realizzo in tante fantasie, colori, modelli diversi, ma che donano una dignità e un fascino quasi sacro alla donna che decide di utilizzarli quando si reca in Chiesa. Ho spedito veli quasi in tutto il mondo, proprio a dimostrazione della cattolicità - universalità - della tradizione cattolica: alla faccia di chi accusa il latino di essere divisivo! Poi, negli ultimi anni, un articolo sempre più richiesto è l’agenda trad: un’agenda annuale nata per essere un aiuto concreto nella crescita spirituale. Contiene novene, approfondimenti, pratiche devote, ricette legate al culto dei santi e tanto altro. È l’unica agenda cattolica in italiano con calendario tradizionale! E da un paio d’anni abbiamo creato anche la versione a diario scolastico A scuola con i santi».
Come coniuga il suo lavoro, immagino essenzialmente domestico, con l’educazione dei figli?
«Sì, è un lavoro prettamente domestico, e ci tengo che rimanga così. Pratico l’homeschooling, educo perciò i miei figli a casa, di conseguenza il tempo per le altre attività è limitato. Ma cerco di organizzare le mie ore incastrando un po’ tutto, come ogni mamma cerca di fare. Devo dire che la Provvidenza aiuta sempre a trovare tempo e risorse per tutto, e sono felice di portare avanti questo piccolo lavoro artigianale che è anche una forma di apostolato».
Ho letto che confeziona anche capi ispirati alla «moda modesta». Che significa?
«Sì, in alcuni momenti dell’anno cerco di organizzare prenotazioni di capi modesti, come gonne, tabarri, grembiuli. Uno dei miei “pallini” nell’apostolato riguarda infatti la modestia cattolica. Che non significa certo “vestirsi di sacco”, risultando sciatta, ma rispettare il proprio corpo, ridonandogli la dignità che merita ed evitando spiacevoli situazioni di scandalo altrui. La moda modesta è elegante, femminile, senza tempo, e mette in risalto ogni fisicità, evitando la sessualizzazione offensiva e degradante a cui siamo ahimè troppo avvezzi».
Come si spiega il fenomeno delle «tradwifes»?
«Sicuramente un trend diverso dal solito, in cui la donna si mostra felice di ricoprire il ruolo tradizionale di moglie e madre, accontentandosi di una vita semplice e magari anche contadina, non può che suscitare sgomento nella società di oggi. Ma come, qualcuno vuole tornare indietro anziché avanti, verso il progresso e la libertà a qualsiasi costo? Beh, sì, e non hanno tutti i torti. Occhio, penso ci siano alcuni paletti da mettere».
Cioè?
«Molti di questi profili social a volte inseguono solo l’estetica “cottage core” perché bucolica, e a volte per cercare visualizzazioni dato il tema controverso, mostrando solo i lati instagrammabili di una vita del genere. Altre donne invece propongono questa scelta di vita in modo molto liberale, come fosse una carriera come un’altra - mentre, nell’ottica cattolica, il ruolo di guardiana del focolare sarebbe l’occupazione più utile alla famiglia, sebbene non sempre praticabile. Molte di queste “tradwives” americane, poi, appartengono a sette protestanti o mormoni, che quindi spesso convogliano insegnamenti discostanti dalla fede cattolica. Certo però che preferisco contenuti del genere alle influencer da Onlyfans, e forse in fondo, se hanno così successo, non è solo una preferenza mia».
Perché i mass media promuovono gli ideali femministi e guardano con scetticismo alle mogli tradizionali?
«Il femminismo è ciò di più lontano dalla donna che si possa avere. Il movimento femminista vuole non l'uguaglianza della donna, ma la sua superiorità rispetto all'uomo. Vuole quindi che la donna ricopra ruoli tradizionalmente maschili, ma aggiungendovi le inevitabili mansioni femminili, cercando di convincerci che si possa avere sempre tutto, capre e cavoli. E l’esempio di donne soddisfatte e felici in ruoli tipicamente femminili li manda in crash. È questo che non riescono ad accettare. Io stessa, in un paio di reel in cui scherzosamente mi definivo "mamma trad" o raccontavo qualche spaccato di vita casalinga, sono stata investita da insulti, offese, commenti davvero aggressivi. Lì ho capito di aver toccato un tasto dolente della società moderna».
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Sui social sempre più donne (spesso dichiaratamente cristiane) rivendicano la loro vita non imperniata sulla carriera e dedicata alla famiglia. E la cultura progressista, spiazzata, le accusa di «suprematismo bianco».Tutte le ricerche (anche una della Bocconi) lo confermano: chi partorisce è molto più soddisfatta delle coetanee. Mentre la depressione è maggiormente diffusa tra i liberal.Monica Gibertoni in Negrini, 34 anni residente in provincia di Bologna, fu scaricata dalla sua azienda dopo il primogenito: «Ho cominciato a creare articoli religiosi per i miei bimbi, adesso li vendo».Lo speciale contiene tre articoli.Tremate, tremate: le casalinghe sono tornate. A dispetto degli sforzi mediatici per elevare Elodie ad intellettuale, Taylor Swift a divinità e Kamala Harris ad incredibile novità politica - e pazienza se è al governo dell’America da quattro anni -, la vera sorpresa femminile di questi tempi è un’altra: il ritorno sulla scena delle donne liete di dedicarsi a casa e famiglia. Si tratta insomma di vere e proprie «mogli tradizionali», che spopolano con tanto di hashtag identificativo - #tradwives -, espressione di un movimento nato negli Stati Uniti e composto da ragazze giovani, spesso molto belle, che sui social mostrano come la loro vita non sia imperniata sulla carriera, come il mondo vorrebbe, bensì sulla famiglia. Come se non bastasse, queste «mogli tradizionali» sono sovente pure religiose: protestanti, mormone o cattoliche tradizionaliste. In Internet hanno fatto la loro comparsa circa una decina di anni fa, ma secondo Google Trends la loro popolarità ha iniziato a crescere in modo significativo a metà del 2018 per diventare elevata dal 2020, quando l’emittente Bbc ha dato spazio ad Alena Kate Pettitt, che sostiene di volersi «sottomettere al marito, di volerlo viziare come se fosse il 1959», appoggiando un ritorno «alle tradizionali buone maniere, allo stile di vita e ai valori inglesi». Da allora ad oggi le «mogli tradizionali» non hanno più conosciuto battute d’arresto, anzi. Il risultato è che oggi una rappresentante di questo movimento, la trentaquattrenne Hannah Neeleman – che ha otto figli e lavora con il marito in una fattoria nello Utah –, può vantare su Instagram qualcosa come 10 milioni di follower: quasi tre volte, per rendere l’idea, quelli della già citata e venerata Elodie. Niente male, si converrà, per una mamma che da un lato vince i concorsi di bellezza, è vero, ma dall’altro non ha paura di dire che cucina, pulisce casa, munge le vacche; per il suo successo sui social (è popolarissima anche su TikTok) è stata ribattezza una nuova Kardashian.Altre «mogli tradizionali» di successo, per così dire, sono Gwen Swinarton, Abby Roth, Estee Williams, Ekaterina Andersen e Nara Smith. Tendenzialmente, queste donne esibiscono un look vintage, con una preferenza per gli anni Cinquanta e Sessanta, e non temono di rivendicare apertamente un atteggiamento di totale collaborazione, financo di subordinazione, con il loro marito. Senza dimenticare, poi, una fede vissuta in modo aperto, sia esteriormente (in chiesa indossano il velo) sia nelle dichiarazioni; per capirci, quando in una intervista le è stato chiesto se non si sentisse oppressa per il suo stile di vita, Hannah Neeleman ha risposto che sentiva di fare «ciò che Dio vuole». Parole così dirette e schiette che, oggi, non si ascoltano quasi più neppure in ambito ecclesiale. Un’altra caratteristica di queste donne è il loro rifiuto più o meno esplicito del femminismo. Ora, la particolarità del fenomeno e la sua dimensione, non più di nicchia, ha attirato l’attenzione di molti osservatori. Che, manco a dirlo, disprezzano o addirittura guardano con preoccupazione quello che Cécile Simmons, ricercatrice presso l’Institute for Strategic Dialogue, definisce «un movimento internazionale di donne che promuovono un ritorno alle tradizionali norme di genere sottomettendosi ai loro mariti e promuovendo la vita domestica». In un articolo uscito ad inizio anno sulla Stampa le «mogli tradizionali» sono state bollate come le «influencer dell’estrema destra americana» impegnate a raccontare «la maternità cool che piace a Fratelli d’Italia».Devin Proctor, docente all’Elon University specializzato in antropologia digitale, ha effettuato una ricerca intitolata «The #tradwife persona and the rise of radicalized domesticity» in cui sostiene che queste donne siano pericolose, perché le loro attività sui social «sono spesso accompagnate da contenuti palesemente suprematisti bianchi». In effetti è vero: spesso le «mogli tradizionali» sono bianche; ma lo sono storicamente state, salvo rare eccezioni, pure le femministe - che tuttavia nessuno ha mai osato bollare come «suprematiste», benché alcune di esse razziste lo fossero sul serio. Basti prendere Margaret Sanger, la leggendaria pioniera della contraccezione e dei cosiddetti diritti riproduttivi, la quale nel suo The Pivot of Civilization (1920) avvertiva del pericolo che «gli abitanti dei quartieri poveri, che si moltiplicano come conigli, debordino dai confini dei loro quartieri o dei loro Paesi e trasmettano ai migliori elementi della società le loro malattie e i loro geni di qualità inferiore». Ma torniamo alle trad wifes, che allarmano la cultura dominante non solo perché sono una voce diversa, ma perché sono abili comunicatrici. In uno studio pubblicato su Media and Communication, Megan L. Zahay, dell’Università del Wisconsin-Madison ha registrano non senza una nota di preoccupazione come le «mogli tradizionali» siano da tenere d’occhio, perché sono in grado di «diffondere il sentimento antifemminista in un modo pericolosamente digeribile ed esteticamente gradevole, dentro e fuori delle comunità online». Edith Jennifer Hill della Flinders University ha tentato un approccio più morbido rilevando, in un articolo su Theconversation.com, che «anche se non c’è niente di male nel guardare e apprezzare» sui social delle trad wifes, i loro video «non dovrebbero essere considerati qualcosa a cui aspirare. È importante che tutti noi guardiamo con occhio critico a tali contenuti». Ha rincarato la dose lo psicologo Mark Travers, che, a proposito del fenomeno, su Forbes ha sottolineato che «come studiosi e individui, dobbiamo rimanere vigili sulle piattaforme dei social media e sul loro potenziale di diffondere messaggi estremisti. Il movimento delle trad wife ci sfida a riflettere sulla fragilità del progresso sociale e sull’importanza di promuovere attivamente valori che abbraccino diversità, uguaglianza e inclusione».La giornalista Anna Helen Petersen, per conto di Elle, l’anno scorso ha provato a vivere una settimana da trad wife, descrivendo l’esperienza come un trauma: «Cercare di adottare questa mentalità non solo irrita. Mi fa venire l’orticaria». Eppure le «mogli tradizionali» hanno le idee chiare, al punto da non saperle solo postare sui social, ma anche illustrare in testi brillanti e di successo. Non stiamo cioè parlando solo di signore in grembiule che condividono sorridenti le foto delle loro torte, ma anche di autrici che non temono di contrattaccare apertamente il vento culturale dominante. E di questo abbiamo ormai diversi esempi anche in Italia, dal bestseller Sposati e sii sottomessa di Costanza Miriano al più recente Presidenta anche no! di Raffaella Frullone. Tutto ciò, c’è da immaginare, non piacerà affatto ai doganieri del pensiero unico, secondo cui o la donna abbraccia devotamente l’ideologia femminista oppure è una pericolosa retrograda; il che a ben vedere rispecchia un’idea della storia piuttosto ingenua: quella secondo cui non si possa più tornare indietro, con la strada del cosiddetto progresso spianata e da ritenersi irrevocabile.La realtà è però più complessa di come la immaginano, chiuse nei loro bei circoli, le studiose dei temi di genere o le influencer à la page; e può capitare - e difatti sta capitando -, che nel 2024 esistano ancora mogli e mamme che, pur non avendo formidabili carriere lavorative alle spalle, o addirittura non avendone nessuna, sfidino il proibito sostenendo la cosa in assoluto più sconvolgente: che sono felici.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/torna-orgoglio-di-essere-moglie-2669115910.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="gli-studi-la-maternita-rende-felici" data-post-id="2669115910" data-published-at="1725300240" data-use-pagination="False"> Gli studi: la maternità rende felici Impossibile che oggi una donna possa essere madre e contenta. Questo pensano i paladini del pensiero dominante, che sono saltati sulla sedia quando, qualche mese fa, la senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni ha osato augurarsi, ospite in un dibattito tv, che «la maternità torni a essere cool». «L’ambizione delle donne sia essere Rita Levi Montalcini, non madri», le aveva così prontamente ribattuto la segretaria del Pd, Elly Schlein, accolta da un’ovazione che, come succede spesso, ha finito per lasciare sullo sfondo il nodo di tutta la faccenda: opinioni personali a parte, essere madri rende più o meno felici? Penalizza le donne o le gratifica? Esiste qualche evidenza sociologica al riguardo? Una prima risposta arriva da un dataset assai rilevante e rappresentativo: quello statunitense per il 2021 della General Social Survey (Gss), cui fanno spesso riferimento testate come il New York Times, il Wall Street Journal e la stessa Associated Press. Ebbene, tali dati evidenziano come tra le donne sposate, a parte quelle sotto i 35 anni (per motivi forse legati alle difficoltà economiche delle giovani coppie), quelle con figli siano «molto più felici» delle altre. Il dato è significativo, anche perché non isolato. Già nel 2013, infatti, una ricerca uscita sulla rivista Psychological Science - e, oltretutto, realizzata da una donna, Katherine Nelson-Coffey dell’Arizona State University - aveva rilevato come non solo i genitori si sentano meglio rispetto a quanti non lo sono, ma traggono proprio dalla loro condizione e dal loro compito più piacere che da tutto quanto il resto. Nel 2019, presentando una indagine dell’Università Bocconi, era poi stato l’insospettabile Economist - smentendo molta letteratura precedente - a pubblicare un articolo eloquente fin dal titolo: «Dopotutto, i bambini rendono i genitori felici». Non è finita. Tra gli studiosi c’è chi ha iniziato a notare come quelle più afflitte da disagi mentali siano le donne di fede politica progressista. Il primo ad accorgersene, lavorando su dati statunitensi, è stato Zach Goldberg. A partire da circa 12.000 interviste realizzate nel marzo 2020 dal Pew Research Center, rinomato un centro studi statunitense con sede a Washington, Goldberg ha esaminato le risposte a questa domanda: «Un medico o un altro operatore sanitario ti ha mai detto che hai un problema di salute mentale?». Ebbene, esaminando le risposte al quesito è emerso come i liberal bianchi avessero molte più probabilità - rispetto ai moderati e ai conservatori bianchi - di rispondervi in modo affermativo, e come tale tendenza risultasse ancor più accentuata tra le giovani. Un dato senza dubbio scomodo, ma suffragato anche da uno studio di Catherine Gimbrone, Lisa M. Bates, Seth J. Prins e Katherine M. Keyes intitolato «The politics of depression: Diverging trends in internalizing symptoms among US adolescents by political beliefs», con cui si è trovato come fino al 2012 le differenze di disagi mentali tra liberal e conservatori fossero lievi, per poi farsi nette. Gimbrone e colleghi hanno provato a motivare tale differenziazione tirando in ballo il brutto clima creato nel Paese. Peccato che proprio nel 2012 Obama fosse stato rieletto con l’apertura, nel 2013, della Corte Suprema alle nozze gay: altro che clima oscurantista. Convince ben di più, pertanto, l’interpretazione dello psicologo Jonathan Haidt, secondo cui il dilagare progressista (ma non solo, ovviamente) di problemi mentali sia dovuto all’incontro tra i social e lo smartphone e la mentalità emotiva e vittimista propalata nei campus universitari. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/torna-orgoglio-di-essere-moglie-2669115910.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="laureata-in-chimica-ora-faccio-la-mamma-ma-ce-chi-mi-insulta" data-post-id="2669115910" data-published-at="1725300240" data-use-pagination="False"> «Laureata in chimica, ora faccio la mamma. Ma c’è chi mi insulta» Monica Gibertoni in Negrini, 34 anni residente in provincia di Bologna, è senza dubbio un esempio di moglie tradizionale: laureata in chimica, dopo esser stata scaricata dall’azienda dove lavorava dopo la nascita del primo figlio – ora ne ha quattro, l’ultimo è nato nei giorni scorsi – ha deciso di dedicarsi alla creazione di articoli religiosi artigianali, avviando un’attività consultabile sul suo sito (www.monnicraft.com); si definisce «moglie, madre, artigiana e cattolica». La Verità l’ha avvicinata per sapere più di lei e del mondo delle tradwifes. Gibertoni, in che consiste la sua attività di artigiana e quando ha iniziato? «Ho iniziato a realizzare oggetti dopo la nascita del mio primo figlio, quando l’azienda per cui lavoravo decise di lasciarmi a casa. All’inizio erano oggetti per mamme e bambini, ma ben presto, in concomitanza con la mia conversione verso la Tradizione cattolica, mi sono resa conto di quanta necessità ci fosse di articoli religiosi, in particolare veli muliebri - sì, quelli che portavano le nostre nonne. Nel tempo ho aggiunto altri articoli, sempre religiosi, principalmente per donne e bambini... ma anche qualcosa per gli uomini! Direi che quindi la clientela è varia, ma unita da una fede cattolica genuina e integrale, alla ricerca del depositum fidei, un po’ nascosto e impolverato, ma sempre più richiesto e necessario in questa crisi della Chiesa». Quali sono i suoi prodotti più venduti? «I prodotti più venduti sono senz’altro i veli muliebri, che realizzo in tante fantasie, colori, modelli diversi, ma che donano una dignità e un fascino quasi sacro alla donna che decide di utilizzarli quando si reca in Chiesa. Ho spedito veli quasi in tutto il mondo, proprio a dimostrazione della cattolicità - universalità - della tradizione cattolica: alla faccia di chi accusa il latino di essere divisivo! Poi, negli ultimi anni, un articolo sempre più richiesto è l’agenda trad: un’agenda annuale nata per essere un aiuto concreto nella crescita spirituale. Contiene novene, approfondimenti, pratiche devote, ricette legate al culto dei santi e tanto altro. È l’unica agenda cattolica in italiano con calendario tradizionale! E da un paio d’anni abbiamo creato anche la versione a diario scolastico A scuola con i santi». Come coniuga il suo lavoro, immagino essenzialmente domestico, con l’educazione dei figli? «Sì, è un lavoro prettamente domestico, e ci tengo che rimanga così. Pratico l’homeschooling, educo perciò i miei figli a casa, di conseguenza il tempo per le altre attività è limitato. Ma cerco di organizzare le mie ore incastrando un po’ tutto, come ogni mamma cerca di fare. Devo dire che la Provvidenza aiuta sempre a trovare tempo e risorse per tutto, e sono felice di portare avanti questo piccolo lavoro artigianale che è anche una forma di apostolato». Ho letto che confeziona anche capi ispirati alla «moda modesta». Che significa? «Sì, in alcuni momenti dell’anno cerco di organizzare prenotazioni di capi modesti, come gonne, tabarri, grembiuli. Uno dei miei “pallini” nell’apostolato riguarda infatti la modestia cattolica. Che non significa certo “vestirsi di sacco”, risultando sciatta, ma rispettare il proprio corpo, ridonandogli la dignità che merita ed evitando spiacevoli situazioni di scandalo altrui. La moda modesta è elegante, femminile, senza tempo, e mette in risalto ogni fisicità, evitando la sessualizzazione offensiva e degradante a cui siamo ahimè troppo avvezzi». Come si spiega il fenomeno delle «tradwifes»? «Sicuramente un trend diverso dal solito, in cui la donna si mostra felice di ricoprire il ruolo tradizionale di moglie e madre, accontentandosi di una vita semplice e magari anche contadina, non può che suscitare sgomento nella società di oggi. Ma come, qualcuno vuole tornare indietro anziché avanti, verso il progresso e la libertà a qualsiasi costo? Beh, sì, e non hanno tutti i torti. Occhio, penso ci siano alcuni paletti da mettere». Cioè? «Molti di questi profili social a volte inseguono solo l’estetica “cottage core” perché bucolica, e a volte per cercare visualizzazioni dato il tema controverso, mostrando solo i lati instagrammabili di una vita del genere. Altre donne invece propongono questa scelta di vita in modo molto liberale, come fosse una carriera come un’altra - mentre, nell’ottica cattolica, il ruolo di guardiana del focolare sarebbe l’occupazione più utile alla famiglia, sebbene non sempre praticabile. Molte di queste “tradwives” americane, poi, appartengono a sette protestanti o mormoni, che quindi spesso convogliano insegnamenti discostanti dalla fede cattolica. Certo però che preferisco contenuti del genere alle influencer da Onlyfans, e forse in fondo, se hanno così successo, non è solo una preferenza mia». Perché i mass media promuovono gli ideali femministi e guardano con scetticismo alle mogli tradizionali? «Il femminismo è ciò di più lontano dalla donna che si possa avere. Il movimento femminista vuole non l'uguaglianza della donna, ma la sua superiorità rispetto all'uomo. Vuole quindi che la donna ricopra ruoli tradizionalmente maschili, ma aggiungendovi le inevitabili mansioni femminili, cercando di convincerci che si possa avere sempre tutto, capre e cavoli. E l’esempio di donne soddisfatte e felici in ruoli tipicamente femminili li manda in crash. È questo che non riescono ad accettare. Io stessa, in un paio di reel in cui scherzosamente mi definivo "mamma trad" o raccontavo qualche spaccato di vita casalinga, sono stata investita da insulti, offese, commenti davvero aggressivi. Lì ho capito di aver toccato un tasto dolente della società moderna».
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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