2019-07-20
«Tolto ai genitori senza un perché. Il mio inferno di stupri e violenze»
Parla Sergio Devecchi, l'autore di Infanzia rubata: «Mi portarono via a mia madre solamente perché era povera. Fino all'età di 17 anni ho vissuto in una struttura svizzera tra sfruttamento, privazioni e abusi sessuali».Aveva solo dieci giorni quando fu portato in istituto, dove rimase rinchiuso per 17 anni. Come Sergio Devecchi, nato a Lugano 72 anni fa, migliaia di bambini in Svizzera vennero strappati alle famiglie povere solo perché figli illegittimi. «Almeno 150.000 sparirono da casa nel secolo scorso, molti senza lasciare traccia. Internati in strutture religiose o dati in adozione forzata. Lo Stato lasciava fare, con la complicità della Chiesa, in nome di una generica “tutela della morale"», racconta l'autore di Infanzia rubata. La mia vita di bambino sottratto alla famiglia (Casagrande), sconvolgente libro da poco tradotto in italiano. Devecchi aveva la sola «colpa» di essere figlio di una ragazza madre, che secondo le autorità elvetiche non l'avrebbe saputo allevare bene. Bambino rifiutato dalla società, cresciuto tra durissime punizioni, abusi sessuali e nella solitudine più devastante, con enorme fatica riuscì a riscattarsi, a studiare, diventando pedagogista e direttore di un istituto di rieducazione per minori a Zurigo. Trasformò la sofferenza personale in aiuto a ragazzi con problemi, sempre custodendo gelosamente il segreto del suo passato. Solo prima di andare in pensione decise di denunciare il trattamento disumano che la ricca Svizzera aveva riservato a lui e a tanti altri coetanei di umili condizioni sociali. L'effetto del libro è stato una bomba sui Cantoni.Perché un silenzio lungo quarant'anni?«Ho vissuto nella profonda vergogna di essere un figlio illegittimo. Hanno fatto di tutto per farmi credere che era una cosa sporca e che per questo ero finito in istituto. Pensai che era arrivato il momento di parlare dopo aver visto i video di una mostra itinerante dal titolo “Bambini in appalto". Testimonianze delle vittime di misure coercitive che anch'io avevo subìto».Che ricordi ha dei suoi primi anni di vita?«Ben pochi. Tutti cominciano dall'istituto protestante di Pura, nel Canton Ticino, dove fui portato appena nato. Si chiamava “Dio aiuta". Era il 1947, mia mamma Edvige Devecchi - ho preso il suo cognome- aveva 19 anni, lavorava come cameriera a Lugano. Viveva con la madre vedova e altri tre fratelli. Pensarono che non poteva mantenermi, la nostra famiglia era povera. Mi vennero a prendere, forse con la complicità del parroco. Quando rividi mia madre avevo già tre anni, raccontò che tornando a casa aveva scoperto la culla vuota e nessuno le aveva detto dove fossi finito».Venne a trovarla?«Sì, appena seppe che ero al Dio ti aiuta. Non capivo chi fosse, il direttore e la direttrice dell'istituto si facevano chiamare papà e mamma, li credevo i miei genitori. Quella donna che era venuta a vedermi era un'estranea. In 17 anni di internamento mi fece visita in tutto quattro volte».Infanzia e adolescenza lontano dalla famiglia.«Anni di infelicità. Ci facevano lavorare nei campi e nelle stalle da mattina a sera, al minimo sbaglio saltavi la cena ed era dura, avevamo fame e già si mangiava pochissimo. Se nella camerata parlavamo prima di addormentarci, finivamo a camminare fuori sulla neve. Lavoro, preghiere, grande severità, castighi. Non sapevo che cosa fosse una carezza, una parola gentile. Ma la cosa più insopportabile era non capire perché mi avessero messo in istituto. Nessuno parlava, era un tabù. Un silenzio che aumentava i miei sensi di colpa».Dovette subire abusi sessuali?«Avevo solo 8 anni, per mesi approfittò di me il figlio del direttore. Non ne parlai con nessuno, provavo vergogna ed ero certo che non mi avrebbero creduto. Da ragazzo fui molestato dagli educatori. Provai a denunciarli, mi presi uno schiaffo dal responsabile della struttura religiosa».Dopo undici anni l'istituto chiuse e la mandarono al centro educativo Von Mentlen di Bellinzona, poi a Pollegio e infine a Zizers, nei Grigioni.«Mi tolsero i vestiti perché mi passasse la voglia di scappare. Ci avevo provato, volevo raggiungere mia mamma perché avevo saputo che si era sposata, nel frattempo erano venute al mondo tre figlie e suo marito mi voleva con sé. Ero felice. Appena arrivato mi dissero che si era suicidato il giorno prima. Così anche le mie sorelle finirono in istituto. Non provai più a scappare, non avrei saputo dove andare».Lei quando uscì?«A 17 anni, perché il Canton Ticino aveva smesso di pagare per il mio internamento. Mi ritrovai in mezzo alla strada senza un soldo. Allo Stato non interessavo. Tornai a Lugano, dove iniziai un tirocinio come impiegato in un ufficio sindacale. Prendevo 80 franchi al mese, non avevo soldi per mangiare ed ero magrissimo. Ebbi la fortuna di incontrare un assistente sociale che era una brava persona, mi fece ottenere una borsa di studio e andai a Basilea dove ottenni la laurea in pedagogia sociale». Il lavoro a Zurigo, una moglie e due figli. Finalmente una vita normale.«Fu un bellissimo periodo, avevo una famiglia mia, lavoravo come educatore in un centro minorile. Diventai direttore di un istituto di rieducazione, non solo avevo modo di seguire ragazzi dai 14 ai 22 anni che studiavano o imparavano un mestiere, ma aiutavo quelli che erano stati dati in adozione forzata a cercare i loro veri genitori. Perché ritrovassero le radici. Non posso sapere dove vado se non conosco le mie radici».Ha scoperto le sue?«Non ho cercato di sapere chi fosse mio padre, mi è mancato il coraggio. Mia madre non l'ha mai voluto dire: nemmeno adesso che ha 93 anni. Ha solo detto che è morto poco tempo fa. Ho avuto paura di scoprire chi fosse per non ricevere l'ennesimo rifiuto. Sono vissuto sentendomi rifiutato».Che cosa ha provato leggendo la mostruosa storia dei falsi abusi strumentalizzati a Bibbiano?«Mi ha sconvolto vedere che in un'Italia così civile accadono cose tanto scandalose. Le ferite mentali che i piccoli hanno subìto guariranno lentamente, le cicatrici resteranno per sempre. Non solo, questi bambini sono stati derubati della loro fiducia di base, importantissima. Faranno molta fatica a fidarsi degli altri e a investire nella relazione con il prossimo».
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