Tim vuole chiedere l’aiuto pubblico per pagare meno interessi su 3 miliardi di debiti

La richiesta di Tim
Tim starebbe negoziando con un pool di banche una linea di credito del valore di circa 3 miliardi, coperta dalla garanzia pubblica emessa da Sace, la società di assicurazione e protezione degli investimenti controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti. La notizia rilanciata qualche ora fa da Bloomberg non è stata smentita dall’ex monopolista della telefonia che però non commenta.
Ci sono evidentemente colloqui in corso con Unicredit, Bnp Paribas, Credit Agricole e Santander. E il senso dell’operazione è abbastanza chiaro. Negli ultimi mesi le principali agenzie di rating hanno abbassato il loro giudizio su Tim aggravando quindi il costo dei mutui. Il problema è che le passate gestioni hanno lasciato sul groppone dell’ad Pietro Labriola circa 22 miliardi di debito netto che va rifinanziato senza superare l’attuale costo medio: siamo intorno al 3,7% con una scadenza di 6 anni. IL COVID-19Il debito in scadenza quest’anno è di 3,9 miliardi, di cui 3,1 miliardi di obbligazioni.
Ma ci sarebbe da far fronte anche a nuove passività per 3,7 miliardi legate a pagamenti straordinari. Come fare? L’idea è quella di accedere al regime di garanzia Italia, la linea di credito agevolata per sostenere le imprese italiane colpite dall'emergenza Covid-19. Il vantaggio? I tassi di interesse si abbassano perché interviene la garanzia dello Stato che ha un rating decisamente più alto e quindi più sicuro rispetto a quello di Tim. Ma anche un costo per l’Erario in termine di assicurazione sulla parte di debito che decide di supportare. Secondo gli ultimi dati elaborati il 9 febbraio dalla Task Force Liquidità, i volumi complessivi dei prestiti garantiti da Sace nell’ambito di Garanzia Italia hanno raggiunto quota 33,5 miliardi.
Ci sono tantissime piccole e medie imprese che hanno chiesto piccoli finanziamenti, ma anche gruppi di maggiore dimensione - dai Percassi per arrivare ad Azimut Benetti, alla Rinascente e a Maire Tecnimont - che hanno chiesto qualche centinaia di milioni. Per arrivare ai livelli del finanziamento sul quale sta ragionando Tim bisogna però tornare indietro fino all’origine del decreto Crescita che prevedeva appunto il “Garanzia Italia”. Parliamo del caso Fca che tanto “rumore” ha fatto nel 2020. Nel mese di giugno Fca annunciava la sottoscrizione di una linea di credito da 6,3 miliardi di euro, a tre anni, con Intesa Sanpaolo, destinata alle attività nazionali del gruppo. Il gruppo automobilistico informava il mercato di voler usare la linea di credito per «un ampio piano di investimenti per l'Italia, gran parte del quale già avviato». Nello stabilimento di Termoli (Campobasso) - si faceva filtrare - va sviluppato un nuovo motore ibrido per le Jeep Renegade e Compass e per la Fiat 500 X prodotte a Melfi.
La polemica era montata anche per via dello spostamento della sede legale di Fca nei Paesi Bassi che ha anche implicazioni per il sistema di corporate governance del gruppo. Fatto sta che a gennaio del 2022 Stellantis N.V. faceva sapere che la controllata Fca Italia era in grado rimborsare la linea di credito da 6,3 miliardi garantita dalla Sace. Un anno e mezzo prima della scadenza originaria. Possiamo sempre pensare - in attesa dei conti del primo trimestre che verranno resi noti il 4 maggio - che pure Tim farà lo stesso.
L’ex procuratore aggiunto di Pavia, Mario Venditti, è inciampato nei ricordi. Infatti, non corrisponde al vero quanto da lui affermato a proposito di quella che appare come un’inversione a «u» sulla posizione di Andrea Sempio, per cui aveva prima annunciato «misure coercitive» e, subito dopo, aveva chiesto l’archiviazione. Ieri, l’ex magistrato ha definito una prassi scrivere in un’istanza di ritardato deposito delle intercettazioni (in questo caso, quelle che riguardavano Andrea Sempio e famiglia) che la motivazione alla base della richiesta sia il fatto che «devono essere ancora completate le richieste di misura coercitiva». Ma non è così. Anche perché, nel caso di specie, ci troviamo di fronte a un annuncio al giudice per le indagini preliminari di arresti imminenti che non arriveranno mai.
L’ergastolo? È passato di moda. Anche se una madre lascia morire di stenti la sua bambina di un anno e mezzo per andare a divertirsi. Lo ha gridato alla lettura della sentenza d’appello Viviana Pifferi, la prima accusatrice della sorella, Alessia Pifferi, che ieri ha schivato il carcere a vita. Di certo l’afflizione più grave, e che non l’abbandonerà finché campa, per Alessia Pifferi è se si è resa conto di quello che ha fatto: ha abbandonato la figlia di 18 mesi - a vederla nelle foto pare una bambola e il pensiero di ciò che le ha fatto la madre diventa insostenibile - lasciandola morire di fame e di sete straziata dalle piaghe del pannolino. Nel corso dei due processi - in quello di primo grado che si è svolto un anno fa la donna era stata condannata al carcere a vita - si è appurato che la bambina ha cercato di mangiare il pannolino prima di spirare.
È un giudice, lo anticipiamo ai lettori, contrario alla riforma della giustizia approvata definitivamente dal Parlamento e voluta dal governo, ma lo è per motivi diametralmente opposti rispetto ai numerosi pm che in questo periodo stanno gridando al golpe. Roberto Crepaldi ritiene, infatti, che l’unico rischio della legge sia quello di dare troppo potere ai pubblici ministeri.
Magistrato dal 2014 (è nato nel 1985), è giudice per le indagini preliminari a Milano dal 2019. Professore a contratto all’Università degli studi di Milano e docente in numerosi master, è stato componente della Giunta di Milano dell’Associazione nazionale magistrati dal 2023 al 2025, dove è stato eletto come indipendente nella lista delle toghe progressiste di Area.














