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2025-11-06
Sul carro italiano di Zohran non c’è più posto
Elly Schlein (Ansa)
Qualche esempio: «Ha vinto», scrive sui social il coleader di Avs, Nicola Fratoianni, «perché ha proposto l’università e i trasporti gratuiti, prezzi degli affitti bloccati e l’aumento delle tasse per i miliardari. Ha proposto di mettere davanti gli interessi e i diritti della maggioranza delle persone. È il nostro programma. E la vittoria di Zohran», aggiunge, «significa che si può fare, negli Usa come in Italia». Lo chiama «Zohran», Fratoianni e meno male che non gli manda i saluti, perché «salutame a Zohran» non suona benissimo.
Non può mancare il commento entusiastico di Elly Schlein: «Splendida vittoria di Zohran Mamdani a New York! La sinistra», argomenta la Schlein, «torna a vincere con parole e programmi chiari su stipendi dignitosi, sanità davvero universale, sul diritto alla casa, sui trasporti e i nidi gratis per chi non ce la fa. La politica della speranza vince sulla politica della paura che individua solo nemici e capri espiatori». Sembra un’autocritica: la sinistra italiana, infatti, parla di tutto tranne che dei problemi reali degli italiani, che infatti non la votano, ma non è il caso di sottilizzare. Va subito al sodo, auspicando una bella patrimoniale, il capogruppo del M5s Stefano Patuanelli: «Mamdani», dice a Rainews24, «ha una giusta idea della società e di cosa serve a New York, e anche qui serve tornare ad una politica fiscale davvero progressiva. Una patrimoniale? Dipende da come la si declina», risponde Patuanelli, «va rivista la forbice, serve redistribuire la ricchezza perché c’è un grande tema di povertà». Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale dell’Anpi, la tocca piano: «Il Golem di quella specie di tecnofascismo iperliberista e con tratti criminali rappresentato da Trump si può vincere. Data la crisi», monita Pagliarulo, «è proprio il momento di rilanciare il welfare, cioè l’esatto contrario di ciò che facendo l’attuale dirigenza dell’Unione europea e il nostro governo, che intendono invece spostare gigantesche risorse dalla spesa sociale alla spesa militare». Suscita una certa ilarità il commento su Facebook del deputato Pd Marco Furfaro, per il quale Mamdani «non ha semplicemente vinto: ha stravinto. E lo ha fatto come si dovrebbe sempre fare: mettendo le orecchie a terra, tra la gente. Ascoltando, camminando, rispondendo ai problemi veri, non alle chiacchiere dei talk show o alle lezioni di chi da trent’anni perde le elezioni e continua a spiegarti come si vince». Detto (anzi scritto) da un esponente politico come Furfaro che sta continuamente nei talk show non è male. Sempre dal Pd arriva la capogruppo alla Camera Chiara Braga: «Occuparsi delle persone, vedere le difficoltà, dare voce e risposte ai diritti. Non c’è niente di più progressista di tenere insieme speranze e ricette concrete», scrive la Braga su X, elencando con apprezzabile sincerità tutto quello che non fa il Pd in Italia. In sostanza: la sinistra italiana, a partire dal Pd, si aggrappa a Mamdani, il quale però nel discorso che ha seguito la sua vittoria, non le manda a dire alla leadership del Partito democratico americano, parlando di «una visione coraggiosa di ciò che realizzeremo, piuttosto che una lista di scuse per ciò che siamo troppo timidi per tentare. Troppi lavoratori non riescono a riconoscersi nel nostro partito», ha aggiunto il neo sindaco di New York, «e troppi tra noi si sono rivolti a destra per capire perché sono stati lasciati indietro». E qui il buon Mamdani sembra veramente rivolgersi alla sinistra italiana. In ogni caso, la sbornia di dichiarazioni entusiastiche di ieri era per certi versi prevedibile: le opposizioni italiane sono sempre meno solide in termini di consenso qui da noi, e quindi pur di avere qualcosa da festeggiare attraversano l’oceano e si appropriano di un esponente politico che è riuscito a vincere le elezioni proprio mettendo da parte i famosi «riformisti» dem. «I lavoratori di tutto il Paese», ha detto Bernie Sanders, icona della sinistra radicale Usa, «percepiscono correttamente che i democratici, pur essendo stati risoluti sui diritti civili e sull’ambiente, hanno voltato le spalle alla classe operaia». Ecco: se Mamdani sarà troppo impegnato, a federare il centrosinistra italiano potrebbero chiamare il caro vecchio Bernie.
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Nicola Fratoianni lo chiama per nome, Elly Schlein vi vede una «speranza», Stefano Patuanelli rilancia la patrimoniale.Brutte notizie per Gaetano Manfredi, Silvia Salis, Ernesto Maria Ruffini e tutti gli altri aspiranti (o presunti tali) federatori del centrosinistra: il campo largo italiano ha trovato il suo nuovo leader. Si chiama Zohran Mamdani, ha 34 anni, è il nuovo sindaco di New York, che del resto si trova sullo stesso parallelo di Napoli. La sua vittoria ha mandato in solluchero i leader (o sedicenti tali) della sinistra italiana, che vedono nel successo di Mamdani, non si riesce bene a capire per quale motivo, «una scintilla di speranza» (Alessandro Alfieri, senatore Pd). Ora, possiamo capire che l’odio (si può dire odio?) della sinistra italiana per Donald Trump giustifichi il piacere di vedere sconfitto il tycoon, ma a leggere le dichiarazioni di ieri sembra che il giovane neo sindaco di New York le elezioni le abbia vinte in Italia. Qualche esempio: «Ha vinto», scrive sui social il coleader di Avs, Nicola Fratoianni, «perché ha proposto l’università e i trasporti gratuiti, prezzi degli affitti bloccati e l’aumento delle tasse per i miliardari. Ha proposto di mettere davanti gli interessi e i diritti della maggioranza delle persone. È il nostro programma. E la vittoria di Zohran», aggiunge, «significa che si può fare, negli Usa come in Italia». Lo chiama «Zohran», Fratoianni e meno male che non gli manda i saluti, perché «salutame a Zohran» non suona benissimo. Non può mancare il commento entusiastico di Elly Schlein: «Splendida vittoria di Zohran Mamdani a New York! La sinistra», argomenta la Schlein, «torna a vincere con parole e programmi chiari su stipendi dignitosi, sanità davvero universale, sul diritto alla casa, sui trasporti e i nidi gratis per chi non ce la fa. La politica della speranza vince sulla politica della paura che individua solo nemici e capri espiatori». Sembra un’autocritica: la sinistra italiana, infatti, parla di tutto tranne che dei problemi reali degli italiani, che infatti non la votano, ma non è il caso di sottilizzare. Va subito al sodo, auspicando una bella patrimoniale, il capogruppo del M5s Stefano Patuanelli: «Mamdani», dice a Rainews24, «ha una giusta idea della società e di cosa serve a New York, e anche qui serve tornare ad una politica fiscale davvero progressiva. Una patrimoniale? Dipende da come la si declina», risponde Patuanelli, «va rivista la forbice, serve redistribuire la ricchezza perché c’è un grande tema di povertà». Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale dell’Anpi, la tocca piano: «Il Golem di quella specie di tecnofascismo iperliberista e con tratti criminali rappresentato da Trump si può vincere. Data la crisi», monita Pagliarulo, «è proprio il momento di rilanciare il welfare, cioè l’esatto contrario di ciò che facendo l’attuale dirigenza dell’Unione europea e il nostro governo, che intendono invece spostare gigantesche risorse dalla spesa sociale alla spesa militare». Suscita una certa ilarità il commento su Facebook del deputato Pd Marco Furfaro, per il quale Mamdani «non ha semplicemente vinto: ha stravinto. E lo ha fatto come si dovrebbe sempre fare: mettendo le orecchie a terra, tra la gente. Ascoltando, camminando, rispondendo ai problemi veri, non alle chiacchiere dei talk show o alle lezioni di chi da trent’anni perde le elezioni e continua a spiegarti come si vince». Detto (anzi scritto) da un esponente politico come Furfaro che sta continuamente nei talk show non è male. Sempre dal Pd arriva la capogruppo alla Camera Chiara Braga: «Occuparsi delle persone, vedere le difficoltà, dare voce e risposte ai diritti. Non c’è niente di più progressista di tenere insieme speranze e ricette concrete», scrive la Braga su X, elencando con apprezzabile sincerità tutto quello che non fa il Pd in Italia. In sostanza: la sinistra italiana, a partire dal Pd, si aggrappa a Mamdani, il quale però nel discorso che ha seguito la sua vittoria, non le manda a dire alla leadership del Partito democratico americano, parlando di «una visione coraggiosa di ciò che realizzeremo, piuttosto che una lista di scuse per ciò che siamo troppo timidi per tentare. Troppi lavoratori non riescono a riconoscersi nel nostro partito», ha aggiunto il neo sindaco di New York, «e troppi tra noi si sono rivolti a destra per capire perché sono stati lasciati indietro». E qui il buon Mamdani sembra veramente rivolgersi alla sinistra italiana. In ogni caso, la sbornia di dichiarazioni entusiastiche di ieri era per certi versi prevedibile: le opposizioni italiane sono sempre meno solide in termini di consenso qui da noi, e quindi pur di avere qualcosa da festeggiare attraversano l’oceano e si appropriano di un esponente politico che è riuscito a vincere le elezioni proprio mettendo da parte i famosi «riformisti» dem. «I lavoratori di tutto il Paese», ha detto Bernie Sanders, icona della sinistra radicale Usa, «percepiscono correttamente che i democratici, pur essendo stati risoluti sui diritti civili e sull’ambiente, hanno voltato le spalle alla classe operaia». Ecco: se Mamdani sarà troppo impegnato, a federare il centrosinistra italiano potrebbero chiamare il caro vecchio Bernie.
Trump blocca il petrolio del Venezuela. Domanda elettrica, una questione di sicurezza nazionale. Le strategie della Cina per l’Artico. Auto 2035, l’Ue annacqua ma ormai il danno è fatto.
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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