
Impresa del tycoon, primo repubblicano a imporsi nel consenso popolare (51%) dal 2004. Conquistati sette duelli chiave su sette, soffiate alcune roccaforti ai dem. A cui ispanici e afroamericani hanno voltato le spalleNel gergo elettorale americano si chiama «comeback»: la riscossa del candidato che, caduto nella polvere, si rialza e, lottando contro tutto e tutti, alla fine ce la fa, arrivando alla tanto agognata vittoria. Ne sapevano qualcosa Richard Nixon nel 1968 e Ronald Reagan nel 1980. Una narrazione, quella del «comeback», tipicamente americana, che affonda le sue radici culturali nell’audacia dei pionieri e nell’epopea del cinema di John Ford. Ecco, è un «comeback» che ha qualcosa di politicamente miracoloso quello compiuto da Donald Trump, quando ha trionfato alle ultime elezioni presidenziali. Il tycoon si è aggiudicato la vittoria, conquistando almeno 292 grandi elettori: 22 in più, cioè, del numero necessario per arrivare alla Casa Bianca. Questo significa che il tycoon è già formalmente presidente in pectore. Dopo Grover Cleveland alla fine dell’Ottocento, nessun inquilino della Casa Bianca aveva mai prestato due mandati non consecutivi. A ieri sera, Trump aveva ufficialmente espugnato cinque dei sette Stati chiave: Georgia, North Carolina, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. Era inoltre a un passo dall’aggiudicarsi formalmente gli altri due, vale a dire: Arizona e Nevada. Il che vuol dire che, con ogni probabilità, il tycoon supererà complessivamente i 300 grandi elettori. Una riscossa in piena regola se pensiamo al fatto che, nel 2020, di questi sette Stati il magnate era riuscito a espugnare soltanto il North Carolina. Ma non è tutto. Con le elezioni di martedì, Trump è diventato anche il primo candidato repubblicano a vincere nel voto popolare dal 2004: il tycoon è infatti al 51% contro il 47,5% di Kamala Harris (disponendo di circa 5 milioni di voti in più rispetto alla rivale). Quattro anni fa, era invece Biden a essere al 51%, mentre Trump si era fermato al 47%. Tornando ancora più indietro, nel 2016, il tycoon era arrivato alla Casa Bianca, pur prendendo 2 punti in meno rispetto a Hillary Clinton. «Questo è stato, credo, il più grande movimento politico di tutti i tempi. Non c’è mai stato niente del genere in questo Paese, e forse anche oltre. E ora raggiungerà un nuovo livello di importanza perché aiuteremo il nostro Paese a guarire», ha dichiarato Trump nel discorso della vittoria, per poi aggiungere: «Aiuteremo il nostro Paese qui. Abbiamo un Paese che ha bisogno di aiuto, e ne ha un disperato bisogno. Sistemeremo i nostri confini. Sistemeremo tutto del nostro Paese». «Ogni singolo giorno, combatterò per voi. E, con ogni respiro del mio corpo, non mi fermerò finché non avremo l’America forte, sicura e prospera che i nostri figli meritano. Sarà davvero l’età dell’oro dell’America», ha proseguito. «Non abbiamo avuto guerre per quattro anni. Tranne una cosa: abbiamo sconfitto l’Isis. Hanno detto “inizierà una guerra”. Io non inizierò una guerra, le fermerò». Insomma, il presidente in pectore ha tenuto un discorso alto, volto a superare le profonde divisioni che caratterizzano ormai da anni il popolo americano. Tutto questo, mentre ha ricevuto ieri le congratulazioni per la vittoria da Jeff Bezos, fondatore di Amazon e proprietario di quel Washington Post a cui aveva impedito de facto di dare l’endorsement alla Harris. Ciononostante un columnist ha parlato sul quotidiano di «resistenza» contro il tycoon.Ma come ha fatto Trump a conseguire un successo simile? Innanzitutto ha sfruttato efficacemente le debolezze strutturali e gli errori della Harris. La vicepresidente si è ritrovata catapultata all’improvviso alla candidatura presidenziale senza investitura popolare: una circostanza che l’ha azzoppata fin dall’inizio. A peggiorare la situazione per lei ci si è messa anche l’impopolarità di Joe Biden che l’ha zavorrata. Venendo agli errori, la Harris ha scelto un vice politicamente impalpabile come Tim Walz e, per tutto il primo mese di campagna, si è sottratta alle interviste giornalistiche, insospettendo gli elettori indecisi e irritando quegli stessi media che inizialmente la guardavano con maggiore benevolenza rispetto a Trump. Ciò detto, il tycoon non si è limitato a sfruttare i punti deboli dell’avversaria. Ha avviato iniziative di campagna decentralizzate porta a porta, per aumentare la quota di voto postale repubblicano e mobilitare l’elettorato poco propenso a recarsi alle urne. È inoltre riuscito a rosicchiare alla Harris significativi margini di voto tradizionalmente dem. Il tycoon ha conquistato la maggioranza dei maschi ispanici col 54% contro il 44% della Harris: nel 2020 Biden prese il 59% contro il 36% di Trump. Martedì, il candidato repubblicano ha performato meglio anche rispetto all’elettorato afroamericano, passando dall’8% di quattro anni fa al 13% di oggi. Ma non è tutto. Trump ha superato la Harris di 13 punti nel voto dei colletti blu senza laurea: nel 2020, il suo vantaggio su Biden in questo elettorato era di appena il 2%. Anche nel gender gap, la Harris non ha fatto faville: ha superato, sì, Trump di 10 punti nel voto femminile, ma è rimasta sostanzialmente in linea con il risultato registrato da Biden nel 2020. Più in generale, dai primi dati elettorali sembra emergere che il tycoon sia riuscito a costruire un’ampia coalizione elettorale interclassista (comprendente cioè colletti blu, imprenditori, oltre a pezzi di Wall Street) e multirazziale. Si tratta di un potenziale superamento di quella identity politics su cui il Partito democratico ha costruito gran parte delle sue strategie politiche negli ultimi dieci anni: una identity politics che l’elettorato dem sta ormai sempre più rifiutando, sentendosi strumentalizzato e non ritenendosi più moralmente obbligato a votare per l’Asinello. È proprio qui che ha cercato di fare breccia Trump. E, lo abbiamo visto, ci è riuscito pienamente.
Diego Fusaro (Imagoeconomica)
Il filosofo Diego Fusaro: «Il cibo nutre la pancia ma anche la testa. È in atto una vera e propria guerra contro la nostra identità culinaria».
La filosofia si nutre di pasta e fagioli, meglio se con le cotiche. La filosofia apprezza molto l’ossobuco alla milanese con il ris giald, il riso allo zafferano giallo come l’oro. E i bucatini all’amatriciana? I saltinbocca alla romana? La finocchiona toscana? La filosofia è ghiotta di questa e di quelli. È ghiotta di ogni piatto che ha un passato, una tradizione, un’identità territoriale, una cultura. Lo spiega bene Diego Fusaro, filosofo, docente di storia della filosofia all’Istituto alti studi strategici e politici di Milano, autore del libro La dittatura del sapore: «La filosofia va a nozze con i piatti che si nutrono di cultura e ci aiutano a combattere il dilagante globalismo guidato dalle multinazionali che ci vorrebbero tutti omologati nei gusti, con le stesse abitudini alimentari, con uno stesso piatto unico. Sedersi a tavola in buona compagnia e mangiare i piatti tradizionali del proprio territorio è un atto filosofico, culturale. La filosofia è pensiero e i migliori pensieri nascono a tavola dove si difende ciò che siamo, la nostra identità dalla dittatura del sapore che dopo averci imposto il politicamente corretto vorrebbe imporci il gastronomicamente corretto: larve, insetti, grilli».
Leonardo
Il fondo è pronto a entrare nella divisione aerostrutture della società della difesa. Possibile accordo già dopo l’incontro di settimana prossima tra Meloni e Bin Salman.
La data da segnare con il circoletto rosso nell’agenda finanziaria è quella del 3 dicembre. Quando il presidente del consiglio, Giorgia Meloni, parteciperà al quarantaseiesimo vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), su espressa richiesta del re del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa. Una presenza assolutamente non scontata, perché nella Penisola araba sono solitamente parchi con gli inviti. Negli anni hanno fatto qualche eccezione per l’ex premier britannica Theresa May, l’ex presidente francese François Hollande e l’attuale leader cinese Xi Jinping e poco altro.
Emmanuel Macron (Ansa)
Bruxelles apre una procedura sull’Italia per le banche e tace sull’acciaio transalpino.
L’Europa continua a strizzare l’occhio alla Francia, o meglio, a chiuderlo. Questa volta si tratta della nazionalizzazione di ArcelorMittal France, la controllata transalpina del colosso dell’acciaio indiano. La Camera dei deputati francese ha votato la proposta del partito di estrema sinistra La France Insoumise guidato da Jean-Luc Mélenchon. Il provvedimento è stato approvato con il supporto degli altri partiti di sinistra, mentre Rassemblement National ha ritenuto di astenersi. Manca il voto in Senato dove l’approvazione si preannuncia più difficile, visto che destra e centro sono contrari alla nazionalizzazione e possono contare su un numero maggiore di senatori. All’Assemblée Nationale hanno votato a favore 127 deputati contro 41. Il governo è contrario alla proposta di legge, mentre il leader di La France Insoumise, Mélenchon, su X ha commentato: «Una pagina di storia all’Assemblea nazionale».
Maria Rita Parsi (Imagoeconomica)
La celebre psicologa e psicoterapeuta Maria Rita Parsi: «È mancata la gradualità nell’allontanamento, invece è necessaria Il loro stile di vita non era così contestabile da determinare quanto accaduto. E c’era tanto amore per i figli».
Maria Rita Parsi, celebre psicologa e psicoterapeuta, è stata tra le prime esperte a prendere la parola sulla vicenda della famiglia del bosco.






