2021-03-10
Origgi: «Telemedicina ormai necessaria. È un aiuto ai pazienti Covid a casa»
Gianni Origgi, (Getty images)
Il capo della struttura innovazione dell’ospedale Niguarda di Milano: «Più che i fondi, manca la volontà organizzativa. Le visite in video sono realtà, serve il salto per il monitoraggio dei malati dall’abitazione»L’attivazione degli strumenti di sanità digitale rappresenta «un’attività unica», secondo la Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e Regioni, che lo scorso 17 dicembre approvava un documento in cui si raccomanda la riorganizzazione sanitaria per continuare ad assistere il paziente in epoca Covid «con il minimo rischio di diffusione del virus a utenti, operatori e familiari». Secondo l’indicatore elaborato del centro studi Nebo per Il Sole 24 Ore, tra marzo e dicembre dello scorso anno ci sono stati 108.178 decessi in più rispetto alla media dello stesso periodo 2015-2019. Certo, non solo morti per coronavirus, molti non ce l’hanno fatta per patologie che non sono state curate. Ma allora la telemedicina sta funzionando sul territorio? L’abbiamo chiesto Gianni Origgi, consigliere dell’Aisdet, l’associazione italiana di sanità digitale e telemedicina. Laureato in ingegneria aerospaziale presso il Politecnico di Milano, specializzato in statistica sanitaria e soluzioni informatiche, dirige la struttura innovazione e progetti sociali dell’ospedale Niguarda.Quanto viene utilizzata la telemedicina negli ospedali italiani?«I livelli sono ancora davvero molto bassi, non vanno oltre il 3%».Qual è la difficoltà più grossa?«Creare una struttura che ascolti il paziente. È vero che per far funzionare il sistema bisogna anche offrire supporto informatico alla persona che ti chiede aiuto, per quello basta una minima formazione, ma ci sono molti medici che non se la sentono di interagire con uno strumento, mediatore di comunicazione. A livello emotivo non è facile parlare, farsi comprendere attraverso un supporto tecnologico».Al Niguarda è disponibile?«Abbiamo attivato dallo scorso settembre la televisita, che è il primo livello di telemedicina. Siamo uno dei pochi ospedali che hanno reso fruibile questo servizio, che tra l’altro richiede un basso livello tecnologico per funzionare. Viene impiegata per una decina di strutture, sulle 30 presenti al Niguarda».Le più richieste quali sono?«La diabetologia, la cardiologia con tutti gli ambulatori dedicati al malato oncologico, così pure l’unità spinale che si prende cura delle persone affette da lesione midollare, la medicina riabilitativa e neuroriabilitazione. Nel giro di un paio di mesi copriremo tutte le specialità».Come funziona?«Le regole nazionali suggeriscono di utilizzare la telemedicina a partire dalla seconda visita, perché sia garantito il primo rapporto diretto con un paziente che non si conosce. Nei cosiddetti follow up, i controlli successivi, al paziente viene chiesto se preferisce farli in presenza o rimanendo a casa. Sono già diverse migliaia quelli che ci hanno chiesto di essere seguiti a domicilio».Potenziare le visite a distanza ridurrebbe la mortalità di quanti non vengono seguiti nell’emergenza Covid?«È l’unica chiave di contatto con il paziente con diverse patologie croniche. Ci sono complicanze rapide delle malattie, per esempio oncologiche, che possono essere monitorate senza far perdere tempo prezioso in spostamenti, oggi tra l’altro non consentiti».Il ministero della Salute ritiene la telemedicina «uno dei servizi essenziali». Come mai non decolla?«Bisogna renderla un’alternativa possibile per tutti i pazienti e in tutte le strutture. Il governo l’ha messa nelle linee guida ma bisogna declinare le modalità mancanti. Guardiamo quello che succede per il telemonitoraggio».Di che cosa si tratta?«È il livello due della sanità digitale. Si pongono dei sensori nella casa, ad esempio del paziente diabetico, le informazioni arrivano ogni giorno al medico e, se i valori non vanno bene, il centro ne è al corrente e suggerisce terapie diverse. Lo stiamo applicando in maniera sperimentale: il problema principale è di ordine amministrativo perché non c’è un tariffario corrispondente nell’erogazione sanitaria. Mentre la televisita è assimilabile alla visita in presenza come costo, il rimborso del telemonitoraggio non è ancora stato calcolato».Siete fermi per una questione amministrativa?«È un ostacolo. Mentre potremmo già partire con alcune specialità».La legge di bilancio 2021 ha impegnato le Regioni a destinare alla telemedicina una quota pari allo 0,5% dello stanziamento complessivo.«Più che di fondi c’è di bisogno di volontà di erogarla veramente, non solo a livello mediatico. La televisita che si poteva fare dieci anni fa, è stata attuabile solo nel 2020. Al Niguarda è stata avviata quasi a costo zero, non c’era bisogno di investimenti, serve organizzazione. Dalle aziende sanitarie viene raccomandata, non è obbligatoria».La telemedicina non è preziosa anche per le cure domiciliari?«Certo, una rete in tal senso cambierebbe la vita dei cittadini. Purtroppo però manca tutta la presa in carico da parte del medico di base. Non c’è, è stata distrutta. Avviene solo quando una persona viene ricoverata in ospedale».Non c’è un modello territoriale che la supporti?«Ancora no. Quindi a parte l’impegno finanziario e organizzativo per garantire il contatto e la cura a distanza del paziente, che deve interfacciarsi con una certa tecnologia, rimane “l’inutilità” di un servizio che non semplifica perché non esiste una valutazione a distanza delle condizioni di salute della persona».Intanto a casa una persona rimane sola.«Basterebbe una telefonata. L’abbiamo visto anche durante la prima ondata del Covid. Se ci fosse stata una rete organizzativa che teneva traccia dei malati, che li contattava quotidianamente monitorando i parametri, la presa in carico oggi sarebbe una realtà. Il digitale non sostituisce il rapporto personale».
Luca Zaia intervistato ieri dal direttore della Verità e di Panorama Maurizio Belpietro (Cristian Castelnuovo)
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