2021-07-20
Taranto, acciaio verde troppo caro
True
Ansa
Il piano dell'Ilva non regge. Ai problemi tecnici si aggiunge il nodo prezzi: produrre senza carbone ancora non conviene. Oggi la sentenza sul ricorso contro il Mite.
Il piano dell'Ilva non regge. Ai problemi tecnici si aggiunge il nodo prezzi: produrre senza carbone ancora non conviene. Oggi la sentenza sul ricorso contro il Mite.«Entro il mese presenteremo il piano. L'ambizione è di fare dell'acciaieria di Taranto un esempio per il modo». Le recenti dichiarazioni del ministro allo Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, dovrebbero in teoria essere accolte con entusiasmo da parte degli operatori siderurgici italiani. In realtà lo scetticismo è profondo. La lenta ma inesorabile debacle produttiva dell'ex impianto dell'Ilva, passata dalle oltre 10 milioni di tonnellate all'epoca dei Riva alle attuali 2,5 milioni, è un boccone difficile da digerire per il comparto metalmeccanico alle prese oggi con un boom dei consumi che non può essere interamente soddisfatto e che porterà quest'anno il deficit del mercato siderurgico europeo verso le 20 milioni di tonnellate. Alla stasi produttiva dell'Ilva, infatti, si sommano le casse integrazioni che stanno colpendo l'impianto di Magona a Piombino a causa delle quali i centri servizio del nord sono rimasti a secco di acciaio al punto che iniziano ad arrivare le prime riduzioni dei turni di lavoro. È certamente una situazione paradossale se si considera che oggi in Europa le acciaierie viaggiano a oltre il 95% della capacità produttiva. Insomma, per dirla in parole chiare, è a causa della gestione fallimentare dei dossier siderurgici italiani se oggi i produttori siderurgici stranieri detengono il pieno controllo del mercato italiano con un effetto decisamente positivo sui propri conti, come ha dimostrato l'ebitda da 3 miliardi di euro generata d ArcelorMittal nel primo trimestre. Qui non si tratta di adottare toni pauperistici: non è mistero che il comparto siderurgico europeo provenga da 8 anni di profitti in discesa e che rientri quindi nella ciclicità del mercato alternare fasi sfavorevoli a favorevoli. Questo le aziende utilizzatrici lo sanno bene: quello che ai loro occhi è inaccettabile è dover fare i conti con la carenza di materiale che è una caratteristica molto italiana e non europea. E' in quest'ottica che ancora brucia la decisione del governo italiano di votare a favore delle quote all'import che la Commissione UE ha proposto di estendere non solo per 1 ma per ben tre anni. Una decisione, questa, che non tiene conto del nuovo Zeitgeist post covid come ha ben dimostrato la Cina che, in risposta alle misure protezionistiche europee, ha adottato, per la prima volta nella storia, una politica autarchica, applicando dazi all'export di acciaio proprio per tutelare la propria filiera. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un differenziale tra prezzi degli acciai tra Cina ed Europa superiore di 500 euro la tonnellata. Certo, è probabile come dietro la decisione vi siano motivazioni che prescindano dal quadro 'micro' e che affondino le radici su fattori geostrategici, tenendo anche conto del nuovo (e benvenuto) corso filo-atlantista del governo Draghi. Così come è possibile che, votando a favore della misura, il governo abbia pensato di garantire al mondo della produzione siderurgica quella marginalità necessaria alla transizione ecologica che, senza sussidi, è impraticabile. Tutte motivazioni che hanno certamente un senso, ma che forse andavano spiegate in maniera più trasparente, anche per creare un sentimento di appartenenza comune. A sentirsi abbandonato è anche il settore della distribuzione che in Italia è caratterizzato da un grado di maggiore parcellizzazione a differenza del sistema tedesco molto più verticalizzato e che legge dietro l'estensione delle quote all'import europee anche il tentativo più o meno nascosto di Bruxelles di ristrutturare il comparto in favore ovviamente dei produttori siderurgici stranieri che da anni provano la 'take over', senza mai riuscirci. E invece si è scelto il silenzio con il risultato di avere oggi una filiera spaccata in due: da un lato quella produttiva, che si fa forte del sostegno dei policymakers, e dall'altra il mondo della trasformazione e della distribuzione che assisteranno nei prossimi mesi a una selezione naturale, che a sua volta lascerà per strada gli elementi più deboli e con essi i loro dipendenti. In questa situazione ad acuire il già alto grado di disillusione giunge il piano sul clima presentato la scorsa settimana dalla Commissione Ue che rischia non solo di distruggere intere parti della filiera industriale italiana, come ha giustamente evidenziato il ministro Roberto Cingolani lanciando l'allarme sulla Motor Valley, ma di provocare un generale aumento dei prezzi dei beni in grado di ridurre ulteriormente la già danneggiata potere di acquisto delle famiglie. Lo stesso ministro Giorgetti in un'intervista su Libero del 19 luglio è sembrato raccogliere le preoccupazioni del settore industriale circa gli effetti che il green deal della Ue rischia di sortire. Ma le imprese attendono ora i fatti. «Vedremo come il governo italiano voterà a Bruxelles – spiega un imprenditore siderurgico – alle belle parole devono seguire i fatti. Il rischio è alla fine succeda quello che è accaduto con le quote all'import». In una situazione di crescente caos qualche quella attuale dunque il governo si giocherà buona parte della credibilità sul dossier Ilva. Le premesse non sono delle migliori. Se infatti da un lato certamente incuriosisce il piano di utilizzare l'impianto di Taranto per la produzione di preridotto (applicazione meno inquinante dell'altoforno perché decarbonizza il minerale di ferro utilizzando il gas e non il carbone, con il risultato di emettere meno CO2), il mercato attende di capire quanti volumi verranno effettivamente immessi sul mercato. Molto più problematica è poi la sostituzione del gas con l'idrogeno per arrivare al tanto decantato "acciaio verde". Tralasciando il fatto che oggi la macchina dello stoccaggio e della distribuzione di idrogeno in Italia è pressoché inesistente, fare idrogeno verde vuol dire produrlo da fonti rinnovabili che oggi soddisfano appena il 40% dei consumi italiani. Non parliamo poi dei costi: secondo le stime di Bloomberg, l'idrogeno avrebbe bisogno di un prezzo delle CO2 a 125 dollari la tonnellata per essere competitivo nei confronti del gas o del carbone. Se pensiamo che già oggi con un prezzo della CO2 a 50 euro la tonnellata famiglie e imprese assisteranno a rincari della bolletta energica del 20%, figuriamoci l'impatto che avrebbe sui conti di famiglie e imprese l'implementazione dell'acciaio green.