Dal dramma propagandistico nazista del 1941, alla riflessione poetica di Paolo Sorrentino nel 2025: potremmo intitolare così quanto si sta vivendo al Festival del Cinema di Venezia, in corso, ove si propone, a distanza di più di ottant’anni, il delicatissimo tema - con risvolti morali, filosofici, sociali, religiosi - della morte legalmente provocata: eutanasia. In questi giorni, molti critici cinematografici presentano il nuovo film di Paolo Sorrentino, «La Grazia», come un’opera unica, capace di affrontare con coraggio e sensibilità un tema tanto complesso e delicato. In realtà, nel 1941, diretto da Wolfgang Liebeneiner, e prodotto con il forte sostegno del Ministero della Propaganda - con a capo Paul Joseph Goebbels, braccio destro di Adolf Hitler - uscì il film «Ich klage an», «Io accuso», che affrontò proprio il tema eutanasico ed innescò un fortissimo dibattito pubblico sulla «pietà». La trama si dipana attorno a Hanna Heyt, una pianista affetta da sclerosi multipla, e suo marito, Thomas Heyt, medico. La donna chiede al marito di porre fine alle sue sofferenze: un gesto che l’uomo compie somministrandole un farmaco letale. All’apertura del processo, con toni drammatici, il medico viene accusato di omicidio. Il cuore del film è la sua arringa finale, che diventa un inno alla «pietà» come giustificazione dell’eutanasia. Al termine della proiezione, il pubblico veniva invitato ad esprimere un giudizio: un vero e proprio «sondaggio», ante litteram. La netta maggioranza si espresse a favore del medico, opponendosi fermamente alla sua condanna. Il film, venne premiato alla Biennale di Venezia e divenne non solo un successo artistico, ma anche (e soprattutto) un potente strumento di manipolazione dell’opinione pubblica, aprendo la strada alla legittimazione del programma eutanasico nazista, tragicamente passato alla storia come «Aktion T4». Dietro la patina melodrammatica e giudiziaria - strumento vincente per catturare il consenso popolare - si celava un preciso intento ideologico: sdoganare il naturale stigma sociale contro la morte provocata, a vantaggio di una condotta omicida intrisa di mal intesa «pietà». Non è un caso che il «burattinaio» di tutto, fosse Joseph Goebbels, ministro sia della cultura che della propaganda nazista, che sfruttò - con drammatica scaltrezza - quanto era accaduto due anni prima. In Sassonia, nel 1939, nasceva Gerhard Kretschmar, neonato cieco e gravemente malformato. I genitori chiesero che venisse soppresso, invocando la pietà. La richiesta coinvolse l’intera popolazione tedesca, tanto da giungere fino all’attenzione di Adolf Hitler, che autorizzò il suo medico personale, Karl Brandt, a supervisionare l’atto di soppressione del bimbo con un’iniezione letale. Questo evento, noto come «il caso del bambino K», è storicamente considerato l’antesignano del programma Aktion T4. Ottant’anni dopo, l’ottimo regista Paolo Sorrentino, porta a Venezia il film «La Grazia». Il film racconta il dilemma di un presidente della Repubblica (Tony Servillo) chiamato a decidere su una legge a favore dell’eutanasia, con la concessione di due atti di grazia. Sorrentino sceglie la via della poesia, da una parte, e del dubbio, dall’altra. Scene ironiche si intrecciano con momenti surreali, simbolismi visivi, riflessioni profonde sulla responsabilità politica ed etica della decisione. Al di là della critica artistica e dell’esito del Festival, alla luce del dibattito in corso nella nostra nazione sul tema del suicidio assistito - no, sì, Parlamento, Consulta, «male minore», ecc… - è opportuna una riflessione, partendo dai fatti: due film, due epoche certamente molto diverse, ma la stessa drammatica tentazione, quella di legittimare la «morte pietosa», spianando la strada al consenso sociale. 1941 «Ich Klage An», film elegante, ricco di pathos, ottimamente confezionato, premiato dalla giuria. 2025, «La Grazia», film raffinato, con toni spirituali, accattivante, che suscita il dubbio, ma alla fine decide a favore della «normalizzazione» del fatto eutanasico. Non si può non scorgere, sul piano culturale e sociale, una continuità evidente, senza fare processi alle intenzioni (o meglio: alle intenzioni di Sorrentino, non certo di Goebbels!): dietro la retorica della pietà, si nasconde il rischio (la volontà?) di aprire la porta alla eliminazione della vita fragile e alla cultura dello scarto, quella delle «vite indegne di essere vissute». Il cinema, potente strumento che attraverso l’emozione è in grado di plasmare le coscienze, diventa così un forte mezzo di persuasione, neppure tanto occulta. E quando la persuasione tocca il tema del «senso della vita», il dramma anti-umano è dietro l’angolo. Occorre prendere posizione: non dalla parte della retorica della pietà, ma dalla parte degli ultimi, dei più fragili, di coloro che rischiano di essere considerati un «peso» sociale insopportabile. Il compito della cultura, e quindi di ogni espressione artistica, compreso il cinema, non può essere quello di legittimare la morte provocata, ma ricordarci che il vero parametro di misura di una società civile è la «cura», quella che sappiamo avere e dare ai più deboli.
Chi si firma è perduto. L’ultima figuraccia è di Carlo Verdone: ha sottoscritto l’appello pro Palestina in occasione della Mostra del cinema di Venezia e poi si è ufficialmente pentito. «Mi hanno messo in mezzo», ha dichiarato ieri al Corriere della Sera. Ha giurato che quando Silvia Scola, la figlia di Ettore Scola, gli ha chiesto di aderire, nel documento non c’era la parte che ha suscitato scandalo, quella che riguardava il boicottaggio degli attori Gerald Butler e Gal Gadot. Altrimenti non avrebbe accettato. «Non sono d’accordo con l’escludere gli artisti», ha detto con la coda fra le gambe. Ma dopo aver letto l’intervista, a metà fra l’umiliante e l’imbarazzante, resta un dubbio: davvero Verdone si è fatto raggirare come un allocco? Oppure ha firmato senza capire quel che firmava? In entrambi i casi, l’attore non ne esce bene: voleva fare l’intellettuale e invece finisce per fare la macchietta, come uno dei personaggi dei suoi film. Avete presente Leo di Un sacco bello quando ruotava gli occhi verso l’alto e diceva: «In che senso?». Ecco: uguale.
Già: in che senso? Qualche tempo fa il filosofo Stefano Bonaga, con un po’ di sincera autocritica, ha lanciato un appello per «raccogliere quelli che non capiscono più una minchia del presente». Non so se Verdone abbia sottoscritto anche quello, ma forse sarebbe il caso. Nel frattempo, sulla scia di Bonaga, vorrei proporre un altro appello per raccogliere le firme di tutti coloro che non capiscono che cosa stanno firmando. Secondo me avrebbe un enorme successo. Ormai infatti mettere il proprio nome sotto il titolo di una buona causa è diventata una moda dilagante: non c’è giorno che non si è interpellati. Vuoi salvare il pianeta? Tutelare le balene? Proteggere l’Amazzonia? Sfamare l’Africa? Portare pace a Gaza? Aderisci e ti metti il cuore in pace, anche se non sai bene quel che davvero stai sostenendo. Cerchi di far bella figura a costo zero. Dici di voler fermare la guerra. Ma intanto ti basta firmarla.
Però ecco: attenti a quel che firmate. Lo scrittore Vassili Vassilikos, grande nemico del regime dei colonnelli in Grecia, ha raccontato che un giorno del 1967, in pieno golpe militare, lesse un accorato appello su Le Monde in cui 70 intellettuali chiedevano la sua liberazione. E lui ne fu felice, se non che egli era venuto a conoscenza dell’appello per la sua liberazione mentre era completamente libero. Non lo lesse infatti in una cella di Atene, ma in un comodo bar di Roma, davanti al Colosseo. Fece notare ai firmatari l’equivoco, e loro gli risposero che avevano lasciato la delega in bianco per un appello di protesta (uno, quale che fosse) a Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir, e ai due parve bello impegnarsi per la liberazione di un intellettuale nemico dei colonnelli. Peccato che egli fosse già libero: ma perché rovinare una bella storia con la verità? Gli altri 68 firmatari aderirono senza se e senza ma, sottoscrivendo ciecamente la sciocchezza.
Non lo dico per consolare Verdone perché mal comune non è mai mezzo gaudio, ma quanti conoscono davvero ciò che firmano? Ormai quella degli appelli è una macchina impazzita. Non si riesce più a stargli dietro. Su Change.org si trova di tutto: dalla petizione per individuare i responsabili della cattura dei cani Bull e Poldo alla petizione per salvare l’hotel Paradiso a Sella di Borgo Valsugana, dalla petizione per l’abolizione dello «zoccolo« di Druento alla petizione per dare il nome di Tina Anselmi all’ospedale di Padova. Tutte iniziative nobilissime sia chiaro: 328 sul tema salute, 141 su quello animali, 211 sul benessere dei bambini, milioni di firme che piovono ovunque. E alla fine, al netto degli interessi politici e anche economici, che si nascondono dietro queste piattaforme, la domanda è sempre la stessa: ma tutti questi che sottoscrivono petizioni, lo sanno quel che stanno facendo? O sono pure loro in piena sindrome Un sacco bello?
Sommessamente suggerirei di andare cauti. Anche perché, pure nei rari casi in cui si è consapevoli di quel che si firma, poi spesso ci si pente. Chiedete per esempio al ministro Carlo Nordio se non si è pentito di aver firmato nel 1994 un appello contro la separazione delle carriere in magistratura, proprio la misura che ora da ministro vuole introdurre. Lo scrittore Daniel Pennac dal canto suo lo ha ammesso: «Ho fatto un’idiozia a firmare l’appello per Cesare Battisti». Il terrorista, fuggito dalla Francia e arrestato poi in Bolivia, era stato definito da un gruppo di intellettuali, fra cui Pennac, Vauro e Saviano, «persona arguta e profonda». Ma non è nulla rispetto al documento sottoscritto nel 1971 dalla meglio intelligentia italiana, da Umberto Eco a Dacia Maraini, da Inge Feltrinelli a Eugenio Scalfari, contro il commissario Calabresi, ucciso poi da Lotta Continua. Di tutti costoro solo Paolo Mieli ha avuto il coraggio di chiedere scusa per quell’ignobile documento: «Mi vergogno. Non è una bella pagina della mia vita».
Non è dunque meglio evitare il firmappelli compulsivo? Che poi, almeno, una volta a sottoscrivere certi documenti ci si sentiva veri intellettuali. Adesso nemmeno quello. La scorsa primavera ottomila «artisti» (così recitavano i giornali) firmarono un documento per escludere Israele dalla Biennale di Venezia. «Niente padiglione del genocidio», intimavano severi. E uno subito diceva: ottomila artisti, ammazza, sono stati bravi a radunarne tanti, manco si sapeva ci fossero ottomila artisti in Italia. Poi, però, fra le firme saltarono fuori: Agata Castello, impiegata; Agnese Verza, studentessa; Alessandro Beretta, ingegnere informatico; Alessandro Barbieri, progettista di fulmini… Tutte ottime persone, e forse davvero si può essere artisti progettando fulmini, ma resta l’impressione che, alla fine, anche in questa occasione più che la mostra Biennale interessasse la mostra di sé stessi. Per questo mi sento in dovere di rilanciare un appello per non fare più appelli. Ma sì proprio così: faccio un appello per dire «basta appelli». Chi vuole lo sottoscriva. Io no. Non ho mai sottoscritto un appello in vita mia.
- Il bando contro Gal Gadot, israeliana, e Gerard Butler, filo Idf, è figlio del facile conformismo, tanto quanto i veti ai «putiniani».
- Il regista di «Queer» Luca Guadagnino legato al direttore Barbera attraverso una stretta rete di rapporti.
Lo speciale contiene due articoli.
Alla ricerca della visibilità, del consenso, dell’applauso facile. Il collettivo attori e registi militanti è in servizio permanente effettivo, da un appello all’altro. E pazienza se spesso e volentieri la mira è sbagliata. Dopo l’intemerata di Elio Germano sui finanziamenti ministeriali rivelatosi un boomerang per il salotto buono del cinema, alla vigilia della 82ª Mostra internazionale d’arte cinematografica che si apre stasera con la proiezione di La grazia di Paolo Sorrentino, tiene banco la richiesta di revocare l’invito a Gal Gadot e Gerard Butler, un’attrice e un attore colpevoli di essere filo israeliani e di sostenere l’azione di Netanyahu. Venice4Palestine (V4P), la sigla nella quale si sono aggregati artisti e associazioni, ne ha fatto esplicita richiesta in un appello e in una successiva lettera aperta indirizzati ai vertici della Biennale di Venezia.
La politica viene prima dell’arte. Gaza viene prima di La grazia. Curioso che siano attori e registi a promuovere il ribaltamento delle priorità. Il direttore della Mostra Alberto Barbera ha espresso la sua contrarietà a ogni forma di censura: «Non è certamente vietando a degli artisti di partecipare a un evento che si risolvono i conflitti. Non ci sarà nessun ritiro di invito». Altrettanto chiara la replica del presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco: «Io non chiudo, io apro. Anche in tempo di guerra intellettuali e artisti devono incontrarsi e discutere».
A conferma che il battage allestito da V4P è propaganda, c’è il fatto che, prima che la lettera giungesse a destinazione, i due attori avevano rinunciato ad accompagnare alla Mostra In the hand of Dante, il film sulla Divina commedia diretto da Julian Schnabel, il visionario regista newyorchese di famiglia ebrea che il 3 settembre riceverà in Sala grande il premio Cartier Glory to the filmaker 2025. Girato in Italia, il film vanta un cast che, oltre ai due attori scomunicati, annovera tra gli altri Al Pacino, Martin Scorsese, John Malkovich e i nostri Sabrina Impacciatore e Claudio Santamaria. Loro potranno sfilare, Gal Gadot e Gerard Butler no. Ex miss Israele ed ex Wonder woman, Gadot è colpevole di aver prestato servizio militare obbligatorio nel Paese dove vive dal 2005, divenendo istruttrice di combattimento e poi di aver posato per un servizio fotografico dell’esercito intitolato «le soldatesse più sexy del mondo». Non importa che abbia un nonno sopravvissuto ad Auschwitz e che nei giorni scorsi si sia unita alle famiglie degli ostaggi nelle mani di Hamas per chiederne il rilascio al fine di accelerare i negoziati. Scozzese di 55 anni, cresciuto in una famiglia cattolica e protagonista di film d’azione, Butler ha promosso con Arnold Schwarzenegger, Robert De Niro e Larry King raccolte fondi in favore dell’esercito israeliano che sta occupando la Striscia di Gaza. Chissà come sarebbe andata se De Niro avesse voluto sfilare al Lido. I democratici firmatari dell’appello, paradossalmente sostenuto anche dalla rete di Artisti #NoBavaglio, vogliono sbarrare il Lido a Gadot e Butler. Certo, non è esattamente come recita un sarcastico post su X: «Nessun boicottaggio ProPal degli attori italiani potrà mai battere quello del pubblico verso i loro film». Ma la ricerca di consenso e di plauso dai media rimuove tante contradizioni e forse ambisce a quella visibilità che non sempre la loro arte garantisce.
Lunedì sul Foglio, Pupi Avati ha ricostruito da par suo la rinascita dell’Anac (Associazione nazionale autori cinematografici) illudendoci, come recitava il titolo, che «alla fine poté più il cinema della politica». Purtroppo, l’attivismo di Venice4Palestine ha smentito rapidamente l’illusione. I firmatari dell’appello - tra i quali Kean Loach, Marco Bellocchio, Matteo Garrone, Mario Martone, Gabriele Muccino, Valeria Golino, Jasmine Trinca, Laura Morante, Alba e Alice Rohrwacher, Beppe e Toni Servillo, Serena Dandini, Fiorella Mannoia e Roger Waters (fino a 1.500 adesioni) -hanno chiesto alla Biennale «di esporsi con azioni e posizioni chiare e che si impegni a interrompere le partnership con qualunque organizzazione che sostiene il governo israeliano, direttamente o indirettamente». Già in luglio, in vista di possibili contestazioni, alla presentazione del programma era stata sottolineata la significativa partecipazione al concorso di The voice of Hind Rajab della regista Kaouther Ben Hania, film sulla bambina che, intrappolata in un’auto in mezzo ai parenti uccisi durante l’invasione dell’esercito israeliano di Gaza del gennaio 2024, chiede aiuto, invano, ai soccorritori. Ora V4P vuole che una sua delegazione sfili sul tappeto rosso con la bandiera palestinese e annuncia una manifestazione al Lido per sabato.
«La Biennale di Venezia e la Mostra del cinema sono sempre stati nella loro storia luoghi di confronto aperti e sensibili a tutte le questioni più urgenti della società e del mondo», hanno replica dall’istituzione veneziana. Non basta. Attori e registi pretendono la condanna «del genocidio» e il ritiro degli inviti. Proprio come avvenuto qualche settimana fa a Valery Gergiev, il direttore d’orchestra in odore di putinismo, prima invitato per dirigere un concerto alla Reggia di Caserta e poi scaricato a furor di proteste dem. O come successo in questi giorni a Woody Allen, caduto sotto gli strali del governo ucraino per aver elogiato il cinema russo durante la Settimana internazionale del cinema di Mosca: «Credo fermamente che Putin abbia torto, ma l’arte va tenuta fuori», ha respinto le accuse il cineasta americano.
Quando si antepone l’ideologia all’arte o si confonde l’appartenenza a un popolo con l’adesione acritica al suo governo gli effetti possono essere nefasti. «Cosa c’entra Netanyahu col divieto di ospitare un artista israeliano? Allora non si dovrebbe invitare nessun iraniano per Khamenei, o nessun artista cinese per le tensioni tra Pechino e Taiwan», ha osservato Andrée Ruth Shammah, regista e direttrice del Teatro Franco Parenti di Milano, manifestando la sua amarezza per la presenza di tanti amici nelle file dei censori. Dal palco dei David di Donatello, prima di innescare la controproducente polemica sui finanziamenti al cinema Elio Germano disse che «un palestinese ha la stessa dignità di un israeliano». Oggi si deve dire che vale anche il contrario.
Ormai per Guadagnino la Mostra assomiglia a un affare di famiglia
Oggi parte la Mostra internazionale d’arte cinematografica che si svolgerà al Lido di Venezia fino al 6 settembre prossimo, sotto la direzione di Alberto Barbera. Barbera è al vertice della Mostra a fasi alterne, ma complessivamente da quasi trent’anni, con qualche intermezzo nei primi anni Duemila, quando venne sostituito e poi riconfermato stabilmente nel 2011: un tempo che nessun’altra istituzione culturale di pari livello in Italia, o all’estero, sembra aver eguagliato. In altre manifestazioni ruotano i direttori o si prevedono incarichi prefissati o ricambi generazionali: Venezia, invece, sembra vivere una sua dinamica residuale di potere consolidato. Al centro della questione, però, non vi è solo la longevità del mandato, ma anche i legami familiari-professionali, che intrecciano Barbera con uno dei registi più presenti e celebrati al Lido: Luca Guadagnino, regista acclamato e assiduo frequentatore del Festival. Nel 2024 era in concorso con Queer, quest’anno presenterà fuori concorso After the Hunt, il nuovo thriller a tema #MeToo con protagonista Julia Roberts. Grazie al successo di Queer, nel 2024 la sua Frenesy Film Company srl ha fatto il pieno di utili, derivanti dall’incasso dei diritti del film.
Altre due sono le figure chiave che legano Guadagnino a Barbera: Giulia Rosmarini, compagna dal 2015 e ora moglie di Barbera, e suo fratello Nicolò Rosmarini. Giulia Rosmarini è cofondatrice del brand di moda Tango Philosophy, per il quale nel 2020 ha coinvolto creativamente proprio Luca Guadagnino, affidandogli una campagna fotografica e video: una collaborazione prestigiosa che unisce professionalmente e direttamente la moglie del direttore al regista, da anni «abbonato» alla selezione ufficiale. Anche Nicolò Rosmarini è protagonista di questa rete: dal 2022 lavora nello Studio Luca Guadagnino come architetto e project manager. L’apice di questo intreccio avviene nel 2024, quando viene nominato co-direttore artistico - insieme a Guadagnino - dell’evento Homo Faber, promosso dalla Michelangelo Foundation e dalla Fondazione Cini a Venezia. Ne emerge una ragnatela di rapporti stretta e ben definita. Alberto Barbera, in qualità di direttore, ha un ruolo decisivo nelle selezioni della Mostra, dove i film di Luca Guadagnino compaiono con regolarità. Sua moglie, Giulia Rosmarini, collabora con il regista nell’ambito del proprio marchio di moda, mentre il fratello di lei, Nicolò Rosmarini, lavora nello studio Guadagnino ed è coinvolto in diversi progetti artistici da lui curati.
A complicare la questione è il contesto: quello della Mostra del Cinema dovrebbe garantire trasparenza e parità di condizioni. Invece, la presenza di legami professionali così stretti tra il direttore, la sua famiglia e un regista di punta configura un conflitto di interessi. Eppure, di questo palese conflitto nessuno ha mai parlato pubblicamente, non emergono critiche dirette o inchieste approfondite sull’apparente neutralità della Mostra. Insomma, sovviene alla memoria la frase di un celebre film -per rimanere attinenti all’ambito cinematografico - quella pronunciata dal professor Sassaroli (interpretato da Adolfo Celi), di fronte alla richiesta, da parte dell’architetto Melandri (Gastone Moschin), di avere la mano della propria moglie, nel capolavoro del cinema italiano Amici ,iei: «Vede architetto, è tutta una catena di affetti che né io, né lei possiamo spezzare». Mai parole furono più azzeccate.
È la suggestiva Casa-Museo Fortuny di Venezia, che quest’anno celebra i suoi 50 anni, a ospitare (sino al 10 ottobre 2025) la prima mostra italiana dell’artista spagnolo contemporaneo Alberto Rodríguez Serrano. Innovativo, senza perdere di vista la tradizione pittorica classica, Serrano espone a Venezia una selezione delle sue opere più significative, frutto di uno studio attento della luce e dei materiali.
E’ passato giusto mezzo secolo da quando Palazzo Pesaro Orfei, gioiello gotico incastonato nel sestriere di San Marco, da fabbrica e dimora dello spagnolo Mariano Fortuny y Madrazo e di sua moglie Henriette Nigrin ha aperto le porte al pubblico con il nome di Museo Fortuny. Un luogo davvero unico, direi magico, dove l’arte sposa l’architettura e il liberty si fonde con il sapore moresco di tappeti e arredi sontuosi. Visitandolo, impossibile non essere affascinati dai suoi ambienti ovattati e fuori dal tempo, da quello straordinario insieme di tessuti, rivestimenti, arazzi, tappeti, vetri, vasellame, maioliche, armi e armature, statue e mobili. Dal giardino d’inverno e dalla sala moda, dalla sala Wagner e dall’atelier, un piccolo ambiente angolare dalle pareti rosso pompeiano e tre finestre gotiche dove Mariano Fortuny ha raccolto una nutrita serie di suoi dipinti.
Esempio magistrale di «imprenditoria che sposa l’arte», il Fortuny racconta la storia di una coppia che ha saputo trasformare la creatività in impresa, facendo della loro casa un organismo vivo, un luogo di sperimentazione e di dialogo tra le arti. Artista e uomo d’affari, definito il «Leonardo Da Vinci del Novecento» , Mariano ha arricchito i suoi celebri e preziosi tessuti di motivi copti, persiani, turchi, cretesi e minoici, di merletti e ricami antichi, di barocco e rococò, di neoclassicismo e Art Decò. E con lo stesso gusto ha arredato il suo palazzo, la sua casa (anche se il termine risulta un po’ limitativo…) che era anche la sua fabbrica, in un meraviglioso e armonico intreccio di lavoro e passioni.
Oggi come allora, il Museo Fortuny ( che negli anni ’90 è diventato parte del circuito dei Musei Civici di Venezia) è un organismo vivo , aperto al nuovo e all’arte contemporanea, un dialogo interessante e continuo tra fabbrica e laboratorio, tra passato e presente. Ed è in quest’ottica che si colloca la prima mostra italiana dell’artista madrileno Alberto Rodríguez Serrano, le cui opere, frutto di uno studio attento dei materiali e della luce, creano un dialogo inedito con l’estetica di Mariano Fortuny .
La Mostra
In un percorso espositivo articolato in tre sezioni, la mostra (aperta sino al 5 ottobre 2025) presenta una selezione delle creazioni più significative degli ultimi anni e ruota attorno a tre temi particolarmente cari a Serrano: i tori, simbolo di forza («I tori - ha dichiarato l’artista - sono animali che hanno origine nella storia più profonda della terra spagnola, della mia terra»); i paesaggi, sia naturali sia legati direttamente a Venezia, di cui Serrano coglie tutto il fascino e il dinamico, complesso rapporto tra antico e moderno; l’aurum, dove l’immobilità dei soggetti si fonde con il bagliore di foglie d’oro, che regalano alle opere un’aura sublime, che le proietta in un mondo superiore, divino e onirico.
L’uso dei pigmenti luminescenti conferisce ai lavori di Serrano una profondità emotiva e una complessità materica che supera di gran lunga qualsiasi altra opera simile vista fino a oggi ed è proprio la padronanza e l’originalità con cui l’artista usa questa tecnica, divenuta il suo tratto stilistico distintivo, a fare di lui una delle figure più interessanti del panorama artistico contemporaneo. Valore aggiunto della mostra veneziana speciali performance dell’artista, momenti in cui raffinati gioco giochi di luci e ombre animano le tele, offrendo al pubblico un’esperienza sensoriale intensa e coinvolgente.
Ad accompagnare l’esposizione un catalogo che approfondisce la poetica e le tecniche artistiche di Serrano, fornendo ai visitatori un ulteriore strumento per comprendere e apprezzare le sue opere, la sua creatività e il suo percorso artistico.
Nella sontuosa cornice di Villa Pisani a Strà si celebra (sino al 2 novembre 2025) l’estro visionario di Roberto Capucci, lo stilista italiano famoso in tutto il mondo per le sue celebri creazioni «scultoree», equilibrio perfetto fra moda e architettura.
Romano, 95 anni il prossimo dicembre, Roberto Capucci è uno di quei Maestri della moda che tutti, ma proprio tutti, conoscono. I suoi abiti, iconici e senza tempo, fanno ormai parte dell’immaginario collettivo, oserei dire che sono patrimonio del’umanità, perché più che abiti sono opere d’arte, «sculture indossabili» con linee, volumi e strutture complesse, che sfidano la forza di gravità. Le creazioni di Capucci si chiamano Bougainville, Onda, Novegonne, Fuoco, sono strati sovrapposti di taffetà plissettati e sete pregiate dai colori cangianti: sono blu, turchesi, verdi, rossi, viola declinati in tutte le sfumature possibili, a volte abbinati in modo audace. Ma il risultato è sempre sorprendente.
Lo stile di Capucci è elegante e grandioso, maestoso come lo è Villa Pisani, la splendida dimora sulle rive del Brenta che sino al 2 novembre ospita La forza del colore, la mostra-gioiello (curata da Enrico Minio Capucci, Paolo Alvise Capucci e Francesco Trentini) ricca di venti abiti e di una raccolta di disegni, schizzi e fotografie, fra cui spicca un bellissimo ritratto di Roberto Capucci immortalato dall’obiettivo sapiente di Toni Thorimbert .
Cuore della mostra il grande Salone da Ballo, che sotto un «cielo »affrescato da Giambattista Tiepolo, ospita un sontuoso abito da nozze circondato da una corolla di altri quattro pezzi, il tutto ispirato alla delicata tavolozza di colori del grande pittore veneziano.Al piano terreno tre le sale espositive, che regalano al visitatore non una semplice visita, ma una vera e proprio esperienza sensoriale , un’immersione nella bellezza della moda e dell’arte, dove a dominare su tutto è il colore e la meraviglia delle forme e dei volumi: quelli degli abiti e quelli di Villa Pisani, dei suoi decori barocchi e dei suoi spazi immensi. In questo scenario, l’interazione tra capolavori sartoriali e spazi storici apre una riflessione sulla natura della bellezza e sulla sua evoluzione. L'arte di Capucci, che gioca con forme scultoree e geometrie audaci, si fa ponte tra passato e presente, dimostrando che la moda non è solo tendenza, ma una vera e propria forma di espressione artistica.
L’Apoteosi della famiglia Pisani: il più bell’ affresco di Giambattista Tiepolo
Massimo esponente della pittura settecentesca in Italia, porta la firma di Giambattista Tiepolo (Venezia, 1696 - Madrid, 1770) lo straordinario affresco che decora il soffitto del Salone da Ballo di Villa Pisani. Ultima opera del grande artista veneziano prima del suo definitivo trasferimento a Madrid, nella luminosa composizione allegorica - la più grande mai dipinta per una residenza privata - le figure, adagiate morbidamente su nuvole rosate, sembrano librarsi sullo sfondo di un infinito cielo sereno solcato da nuvole bianche, il vero protagonista dell’affresco. Una glorificazione della famiglia Pisani, fra le più influenti della storia della Serenissima, e un capolavoro salvo per miracolo, dal momento che ai primi dell'Ottocento stava per essere sacrificato al grandioso progetto di ammodernamento dell'edificio voluto dal vicerè d'Italia Eugenio di Beauharnais, proprietario del complesso tra il 1807 e il 1814.Ma per fortuna l'affresco è rimasto al proprio posto,quasi a ricordare al pubblico i fasti e le glorie di un'epoca lontana...





























