«Un film annunciato», «un’ubriacatura tecnologica», «un’operazione negativa», «un errore madornale». A leggere i più recenti commenti sulle imposizioni green dell’Unione europea, quelle che stanno affossando il settore automotive, viene da pensare che, in fondo, ce la siamo cercata. Loro ci avevano avvisato, ma noi - testardi - non gli abbiamo dato retta. Il ricordo di essere stati martellati per mesi sull’inevitabilità della transizione, sulla assoluta necessità di fermare il cambiamento climatico dotandoci tutti di auto elettrica, deve senz’altro essere uno di quegli abbagli della memoria. Vittime dell’«ubriacatura tecnologica», non abbiamo prestato attenzione ai loro moniti e, oggi, ne paghiamo le conseguenze.
Poi, però, rammenti che in rete nulla si cancella. Così, inizi a cercare che cosa dicevano gli stessi qualche tempo addietro, e scopri che forse non è il tuo cervello a proiettare miraggi sui fatti. Hanno davvero stravolto la narrazione con una disinvoltura a tratti invidiabile.
Il primo dato da cui partire è quello politico: il 14 febbraio 2023, quindi meno di due anni fa, il Parlamento europeo ha approvato lo stop ai veicoli inquinanti (a benzina e diesel) di nuova immatricolazione a partire dal 2035. Il regolamento è passato con 340 voti favorevoli, 279 contrari e 21 astenuti: hanno votato contro Fdi, Lega e Forza Italia (si è diviso sul tema il Partito popolare europeo, guidato da Manfred Weber), a favore i socialisti (quindi il Pd), il M5s, i Verdi, le Sinistre e gran parte dei liberali di Renew (gruppo cui appartenevano, quando avevano ancora rappresentanti all’Europarlamento, Azione e Italia Viva). Ai tempi non si ricordano plateali opposizioni da parte delle cause automobilistiche, forse convinte, sull’onda del Pnrr (il pasto gratis che, poi, si è scoperto non essere tale), che la transizione sarebbe stata finanziata con una pioggia di miliardi pubblici. In tutta risposta, la Commissione Ue è riuscita a far approvare il nuovo Patto di stabilità (per non oltrepassare il limite del ridicolo, il finale «e crescita» lo omettono tutti), austero quasi tanto quanto il precedente. Destinato a essere sospeso, quando davvero si deciderà di puntare sulla crescita (o sulle armi), tanto quanto il precedente.
Ma la politica, si sa, segue logiche non sempre intelligibili. Altra cosa sono gli intellettuali. Come per esempio Francesco Giavazzi, noto economista e padre dell’austerità espansiva. Chiamato come consigliere economico dal governo dei migliori, quello presieduto da Mario Draghi con Luigi Di Maio agli Esteri (quel Di Maio che nel 2017, di fronte alle perplessità sull’elettrico di Sergio Marchionne, si diceva sconfortato e affermava che fosse invece «il momento di spingere l’acceleratore e andare incontro al futuro»), l’editorialista del Corriere della Sera ci ha abituato alle sue giravolte: da fiero sostenitore dell’austerità e di Mario Monti, circa un mese fa è arrivato a graziarci con un editoriale dal titolo «Il debito pubblico a volte fa bene». Per quanto sorprendente, però, non si tratta dell’unico ravvedimento del professore bocconiano nell’ultimo periodo. In un’editoriale del 15 luglio 2023, scritto in vista delle future elezioni europee, ritroviamo un Giavazzi in versione climatologo decantare, riferendosi alle nuove regole europee sui motori endotermici, che «potrebbe essere utile, nel tentativo di mantenere o aumentare il consenso, ritardare di un anno processi che evolvono nell’arco di decenni». «Questa», continua, «è la strategia intrapresa da molti governi europei fra cui l’Italia. Ma bisogna avere il coraggio di spiegare agli elettori, e questi devono esigere che glielo si spieghi, che un anno di ritardo vuol dire ritrovarsi, l’anno successivo, con più CO2 accumulata nell’atmosfera e quindi con un problema che è diventato solo più difficile. Le imprese lo sanno bene. Quelle più accorte stanno anticipando, non allontanando, il processo di transizione». In pochi, probabilmente, ricordavano questo passaggio quando lo scorso 27 dicembre hanno letto un nuovo editoriale, sempre di Giavazzi, ma di tutt’altro avviso. «All’obiettivo Ue di azzerare entro tempi certi le emissioni di CO2, non si deve rinunciare», scrive l’economista, ancora saldo nella battaglia contro l’anidride carbonica. «Ma nel frattempo che automobile è meglio produrre? Un’auto a combustione interna moderna, che emette poche decine di grammi di CO2 per chilometro, oppure un’auto completamente elettrica che però usa una batteria la cui costruzione, a parità di prestazioni, emette dieci volte tanto CO2? Una scelta che spetta all’industria». Così scopriamo che, mentre l’Ue cala dall’alto tutta una serie di regole, escludendo per altro i biocarburanti ma pronta ad aprire agli e-fuel che piacciono tanto ai tedeschi, le decisioni spettano «all’industria».
Qualcosa di simile è accaduto a Maurizio Molinari, ex direttore di Repubblica. Il giorno del giuramento del governo Draghi, questi usciva in edicola con un editoriale - dal titolo «Una ripresa verde, giusta, sostenibile» - in cui si domandava che direzione dovesse prendere l’esecutivo di unità nazionale per «mettere in sicurezza il Paese». «La risposta che ci arriva dall’Ocse - l’Organizzazione dei Paesi più industrializzati - e dall’Unione europea è univoca», scriveva: «serve una ripresa “verde” perché la sovrapposizione fra misure per la protezione del clima e per lo sviluppo economico genera da un lato forte solidarietà e dall’altro prosperità». «È una direzione di marcia che coincide con il piano “Next Generation Eu” dell’Unione europea - il Recovery Plan da 750 miliardi di euro varato nel maggio scorso -», continuava poco sotto, «perché si basa sull’European Green Deal che richiede ai 27 Stati membri di intraprendere azioni concrete in tutti i settori dell’economia». Tra cui figurano i «nuovi trasporti pubblici e privati eco-compatibili». Lo stesso Molinari, circa un mese fa, ai microfoni del fu Cusano News 7 ha invece dichiarato, commentando il bis di Ursula von der Leyen alla Commissione Ue, che ci aspetta «una revisione del pacchetto green e dell’agenda green che ha distinto il primo mandato». «La realtà vera», continuava, «è che obbligare le industrie europee, non solo quella delle automobili, a rispettare dei parametri molto stretti in maniera tale da favorire la competizione da parte dei cinesi è un’operazione due volte negativa, perché costringe e sacrifica le aziende europee e perché favorisce la competizione cinese». Dunque, Ursula «dovrà cambiare le norme che lei stessa ha fatto negli ultimi cinque anni», iniziando «dal settore delle automobili semplicemente perché è quello più esposto».
A dicembre 2021 il Cite, Comitato interministeriale per la transizione ecologica sempre del governo dei migliori, composto dai ministri della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, e dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, rendono fieramente noto di aver stabilito, con anni di anticipo rispetto all’approvazione definitiva della norma europea, lo stop alla vendita di auto con motore a combustione interna entro il 2035. Il Cingolani del 2024, ad di Leonardo e non più ministro, pare molto più critico: «Si è cercato di inculcare nelle masse l’idea che c’è una soluzione che risolve tutto: la macchina elettrica risolve tutti i problemi, le rinnovabili risolvono tutti i problemi. Basta fare due conti per capire che non è vero. […] All’inizio c’è stata un’ubriacatura tecnologica, adesso Volkswagen manda via 30.000 persone: non erano quelli che dicevano che l’auto elettrica pulirà il mondo?». Parte di queste osservazioni, a onor del vero, l’ex ministro in qualche occasione le faceva anche allora, ma la sua azione politica andava in tutt’altra direzione.
Il Sole 24 Ore lo scorso 21 dicembre descriveva il 2024 come un anno «drammatico» per il settore. «Del resto», si leggeva nell’articolo di Mario Cianflone, automotive chief editor del quotidiano di Confindustria, «è palese che l’auto elettrica non ha convinto (a parte Tesla) gli acquirenti, per una serie di motivi: alcuni seri, altri che rientrano nelle fake news. Sta di fatto che si vendono poco ed era un film annunciato». Che fosse un «film annunciato», però, non emergeva dalla sua prefazione ad Auto elettrica. L’Italia che non ha paura del 2035, libro scritto da Antonio Larizza e pubblicato dal Sole 24 Ore nell’aprile del 2023. «Da una trasformazione di tale entità nascono rischi ma anche grandi opportunità», concludeva in quell’occasione Cianflone. «Tra queste, l’occasione unica e probabilmente irripetibile di uscire dall’immobilismo e dalla decadenza dell’auto italiana che va avanti da almeno due decenni».
Matteo Renzi, pioniere dell’auto elettrica dai tempi in cui era sindaco di Firenze, da lui definita «il futuro» nel 2019, mentre si trovava a Riad per la Formula E, qualche settimana fa su Linkedin ha affermato che «bisogna avere il coraggio di dire che il Green Deal voluto dall’Europa è stato per l’auto un errore madornale». «L’ubriacatura per l’elettrico ha prodotto e continua a produrre notevoli danni al sistema industriale del vecchio continente», continuava. La sua soluzione? Concentrare ulteriormente il settore con una mega fusione tra Stellantis e Renault. Nell’interesse dei cittadini, naturalmente. Anche Enrico Letta, intervistato dal Corriere, si è detto preoccupato per l’automotive. Le scadenze, però, secondo lui non vanno cambiate: occorre un piano di finanziamento europeo.
Perfino i più duri e puri dell’auto elettrica, come il segretario generale della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, sono costretti a piccole variazioni nel loro modo di comunicare. In un’intervista al Corriere del giugno 2022, questi pareva addirittura più realista del re: «Sì e subito alla svolta elettrica», dichiarava, «non capisco perché tanti imprenditori della fornitura dicano di no. Lo stop ai motori nel 2035 andrebbe anticipato». In nome del pianeta, lo stesso diceva anche «sì alla cassa integrazione al posto del lavoro che oggi sappiamo che non durerà: la normativa Ue prevede sostegni per le aziende che dovranno convertirsi all’elettrico». Lo scorso dicembre, invece, i toni di Airaudo - sempre al Corriere - sono più prudenti: «se continueremo a concentrarci solo (il corsivo è aggiunto, ndr) sul motore termico faremo la fine di chi produceva televisioni con il tubo catodico». Vedremo, nei prossimi mesi, se e come cambierà ancora la linea.