2025-01-02
Tutte le facce di bronzo del green
Partiti, parlamentari, editorialisti e sindacalisti che da anni ci spiegano l’irreversibilità e la bontà della «transizione ecologica» negli ultimi mesi, assaliti dalla realtà, hanno cominciato la loro conversione. Sempre ovviamente senza ammettere alcun errore.Chi fa retromarcia pensa che sia solo un problema di costi per l’industria o di concorrenza cinese. Sergio Marchionne fu profetico.Lo speciale contiene due articoli.«Un film annunciato», «un’ubriacatura tecnologica», «un’operazione negativa», «un errore madornale». A leggere i più recenti commenti sulle imposizioni green dell’Unione europea, quelle che stanno affossando il settore automotive, viene da pensare che, in fondo, ce la siamo cercata. Loro ci avevano avvisato, ma noi - testardi - non gli abbiamo dato retta. Il ricordo di essere stati martellati per mesi sull’inevitabilità della transizione, sulla assoluta necessità di fermare il cambiamento climatico dotandoci tutti di auto elettrica, deve senz’altro essere uno di quegli abbagli della memoria. Vittime dell’«ubriacatura tecnologica», non abbiamo prestato attenzione ai loro moniti e, oggi, ne paghiamo le conseguenze. Poi, però, rammenti che in rete nulla si cancella. Così, inizi a cercare che cosa dicevano gli stessi qualche tempo addietro, e scopri che forse non è il tuo cervello a proiettare miraggi sui fatti. Hanno davvero stravolto la narrazione con una disinvoltura a tratti invidiabile. Il primo dato da cui partire è quello politico: il 14 febbraio 2023, quindi meno di due anni fa, il Parlamento europeo ha approvato lo stop ai veicoli inquinanti (a benzina e diesel) di nuova immatricolazione a partire dal 2035. Il regolamento è passato con 340 voti favorevoli, 279 contrari e 21 astenuti: hanno votato contro Fdi, Lega e Forza Italia (si è diviso sul tema il Partito popolare europeo, guidato da Manfred Weber), a favore i socialisti (quindi il Pd), il M5s, i Verdi, le Sinistre e gran parte dei liberali di Renew (gruppo cui appartenevano, quando avevano ancora rappresentanti all’Europarlamento, Azione e Italia Viva). Ai tempi non si ricordano plateali opposizioni da parte delle cause automobilistiche, forse convinte, sull’onda del Pnrr (il pasto gratis che, poi, si è scoperto non essere tale), che la transizione sarebbe stata finanziata con una pioggia di miliardi pubblici. In tutta risposta, la Commissione Ue è riuscita a far approvare il nuovo Patto di stabilità (per non oltrepassare il limite del ridicolo, il finale «e crescita» lo omettono tutti), austero quasi tanto quanto il precedente. Destinato a essere sospeso, quando davvero si deciderà di puntare sulla crescita (o sulle armi), tanto quanto il precedente. Ma la politica, si sa, segue logiche non sempre intelligibili. Altra cosa sono gli intellettuali. Come per esempio Francesco Giavazzi, noto economista e padre dell’austerità espansiva. Chiamato come consigliere economico dal governo dei migliori, quello presieduto da Mario Draghi con Luigi Di Maio agli Esteri (quel Di Maio che nel 2017, di fronte alle perplessità sull’elettrico di Sergio Marchionne, si diceva sconfortato e affermava che fosse invece «il momento di spingere l’acceleratore e andare incontro al futuro»), l’editorialista del Corriere della Sera ci ha abituato alle sue giravolte: da fiero sostenitore dell’austerità e di Mario Monti, circa un mese fa è arrivato a graziarci con un editoriale dal titolo «Il debito pubblico a volte fa bene». Per quanto sorprendente, però, non si tratta dell’unico ravvedimento del professore bocconiano nell’ultimo periodo. In un’editoriale del 15 luglio 2023, scritto in vista delle future elezioni europee, ritroviamo un Giavazzi in versione climatologo decantare, riferendosi alle nuove regole europee sui motori endotermici, che «potrebbe essere utile, nel tentativo di mantenere o aumentare il consenso, ritardare di un anno processi che evolvono nell’arco di decenni». «Questa», continua, «è la strategia intrapresa da molti governi europei fra cui l’Italia. Ma bisogna avere il coraggio di spiegare agli elettori, e questi devono esigere che glielo si spieghi, che un anno di ritardo vuol dire ritrovarsi, l’anno successivo, con più CO2 accumulata nell’atmosfera e quindi con un problema che è diventato solo più difficile. Le imprese lo sanno bene. Quelle più accorte stanno anticipando, non allontanando, il processo di transizione». In pochi, probabilmente, ricordavano questo passaggio quando lo scorso 27 dicembre hanno letto un nuovo editoriale, sempre di Giavazzi, ma di tutt’altro avviso. «All’obiettivo Ue di azzerare entro tempi certi le emissioni di CO2, non si deve rinunciare», scrive l’economista, ancora saldo nella battaglia contro l’anidride carbonica. «Ma nel frattempo che automobile è meglio produrre? Un’auto a combustione interna moderna, che emette poche decine di grammi di CO2 per chilometro, oppure un’auto completamente elettrica che però usa una batteria la cui costruzione, a parità di prestazioni, emette dieci volte tanto CO2? Una scelta che spetta all’industria». Così scopriamo che, mentre l’Ue cala dall’alto tutta una serie di regole, escludendo per altro i biocarburanti ma pronta ad aprire agli e-fuel che piacciono tanto ai tedeschi, le decisioni spettano «all’industria».Qualcosa di simile è accaduto a Maurizio Molinari, ex direttore di Repubblica. Il giorno del giuramento del governo Draghi, questi usciva in edicola con un editoriale - dal titolo «Una ripresa verde, giusta, sostenibile» - in cui si domandava che direzione dovesse prendere l’esecutivo di unità nazionale per «mettere in sicurezza il Paese». «La risposta che ci arriva dall’Ocse - l’Organizzazione dei Paesi più industrializzati - e dall’Unione europea è univoca», scriveva: «serve una ripresa “verde” perché la sovrapposizione fra misure per la protezione del clima e per lo sviluppo economico genera da un lato forte solidarietà e dall’altro prosperità». «È una direzione di marcia che coincide con il piano “Next Generation Eu” dell’Unione europea - il Recovery Plan da 750 miliardi di euro varato nel maggio scorso -», continuava poco sotto, «perché si basa sull’European Green Deal che richiede ai 27 Stati membri di intraprendere azioni concrete in tutti i settori dell’economia». Tra cui figurano i «nuovi trasporti pubblici e privati eco-compatibili». Lo stesso Molinari, circa un mese fa, ai microfoni del fu Cusano News 7 ha invece dichiarato, commentando il bis di Ursula von der Leyen alla Commissione Ue, che ci aspetta «una revisione del pacchetto green e dell’agenda green che ha distinto il primo mandato». «La realtà vera», continuava, «è che obbligare le industrie europee, non solo quella delle automobili, a rispettare dei parametri molto stretti in maniera tale da favorire la competizione da parte dei cinesi è un’operazione due volte negativa, perché costringe e sacrifica le aziende europee e perché favorisce la competizione cinese». Dunque, Ursula «dovrà cambiare le norme che lei stessa ha fatto negli ultimi cinque anni», iniziando «dal settore delle automobili semplicemente perché è quello più esposto».A dicembre 2021 il Cite, Comitato interministeriale per la transizione ecologica sempre del governo dei migliori, composto dai ministri della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, e dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, rendono fieramente noto di aver stabilito, con anni di anticipo rispetto all’approvazione definitiva della norma europea, lo stop alla vendita di auto con motore a combustione interna entro il 2035. Il Cingolani del 2024, ad di Leonardo e non più ministro, pare molto più critico: «Si è cercato di inculcare nelle masse l’idea che c’è una soluzione che risolve tutto: la macchina elettrica risolve tutti i problemi, le rinnovabili risolvono tutti i problemi. Basta fare due conti per capire che non è vero. […] All’inizio c’è stata un’ubriacatura tecnologica, adesso Volkswagen manda via 30.000 persone: non erano quelli che dicevano che l’auto elettrica pulirà il mondo?». Parte di queste osservazioni, a onor del vero, l’ex ministro in qualche occasione le faceva anche allora, ma la sua azione politica andava in tutt’altra direzione. Il Sole 24 Ore lo scorso 21 dicembre descriveva il 2024 come un anno «drammatico» per il settore. «Del resto», si leggeva nell’articolo di Mario Cianflone, automotive chief editor del quotidiano di Confindustria, «è palese che l’auto elettrica non ha convinto (a parte Tesla) gli acquirenti, per una serie di motivi: alcuni seri, altri che rientrano nelle fake news. Sta di fatto che si vendono poco ed era un film annunciato». Che fosse un «film annunciato», però, non emergeva dalla sua prefazione ad Auto elettrica. L’Italia che non ha paura del 2035, libro scritto da Antonio Larizza e pubblicato dal Sole 24 Ore nell’aprile del 2023. «Da una trasformazione di tale entità nascono rischi ma anche grandi opportunità», concludeva in quell’occasione Cianflone. «Tra queste, l’occasione unica e probabilmente irripetibile di uscire dall’immobilismo e dalla decadenza dell’auto italiana che va avanti da almeno due decenni».Matteo Renzi, pioniere dell’auto elettrica dai tempi in cui era sindaco di Firenze, da lui definita «il futuro» nel 2019, mentre si trovava a Riad per la Formula E, qualche settimana fa su Linkedin ha affermato che «bisogna avere il coraggio di dire che il Green Deal voluto dall’Europa è stato per l’auto un errore madornale». «L’ubriacatura per l’elettrico ha prodotto e continua a produrre notevoli danni al sistema industriale del vecchio continente», continuava. La sua soluzione? Concentrare ulteriormente il settore con una mega fusione tra Stellantis e Renault. Nell’interesse dei cittadini, naturalmente. Anche Enrico Letta, intervistato dal Corriere, si è detto preoccupato per l’automotive. Le scadenze, però, secondo lui non vanno cambiate: occorre un piano di finanziamento europeo. Perfino i più duri e puri dell’auto elettrica, come il segretario generale della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, sono costretti a piccole variazioni nel loro modo di comunicare. In un’intervista al Corriere del giugno 2022, questi pareva addirittura più realista del re: «Sì e subito alla svolta elettrica», dichiarava, «non capisco perché tanti imprenditori della fornitura dicano di no. Lo stop ai motori nel 2035 andrebbe anticipato». In nome del pianeta, lo stesso diceva anche «sì alla cassa integrazione al posto del lavoro che oggi sappiamo che non durerà: la normativa Ue prevede sostegni per le aziende che dovranno convertirsi all’elettrico». Lo scorso dicembre, invece, i toni di Airaudo - sempre al Corriere - sono più prudenti: «se continueremo a concentrarci solo (il corsivo è aggiunto, ndr) sul motore termico faremo la fine di chi produceva televisioni con il tubo catodico». Vedremo, nei prossimi mesi, se e come cambierà ancora la linea.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/facce-di-bronzo-del-green-2670728614.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ma-non-hanno-capito-che-lauto-elettrica-danneggera-il-pianeta" data-post-id="2670728614" data-published-at="1735817577" data-use-pagination="False"> Ma non hanno capito che l’auto elettrica danneggerà il pianeta «I fatti hanno la testa dura» sosteneva Lenin che di rivoluzioni se ne intendeva. È da questi che bisogna partire prima di avventurarsi in ogni impresa. E chi oggi prova pateticamente a ingranare la marcia indietro su quanto sbagliata fosse l’imposizione dell’auto elettrica come nuovo standard della mobilità dal 2035, vero centro di gravità del Green New Deal, avrebbe fatto sicuramente meglio a guardare nello specchietto retrovisore prima di mettersi in viaggio. Come dicevamo noi negazionisti. Ai primi del XX secolo - lo documento nel mio libro Per non morire al verde - la percentuale di auto elettriche sul totale delle vetture circolanti negli Usa superava addirittura il 30% del totale, contro il 3% del 2022. Chissà com’è che questa mirabolante tecnologia del futuro, già conosciuta nel secolo scorso, si è darwinianamente estinta per riapparire solo oggi con un atto di imperio politico che ha pensato di mettere fuori legge e solo in Europa - con annessa la sinistrissima California - la produzione di auto diesel e benzina a partire dal 2035. «I limiti dell’elettrico non riguardano solo i costi, l’autonomia, i tempi di ricarica o la rete di rifornimento. C’è un elemento molto più importante che non viene quasi mai considerato prima di dare per scontato che i veicoli elettrici siano una risposta definitiva. Dobbiamo considerare il loro impatto ambientale durante tutto il ciclo di vita, specialmente per quanto riguarda la fonte da cui si ricava l’energia elettrica. Le emissioni di un’auto elettrica - quando l’energia è prodotta da combustibili fossili - nelle migliori delle ipotesi sono equivalenti a un’auto a benzina. Le auto elettriche possono sembrare una meraviglia tecnologica. Soprattutto per i livelli di emissione dei centri urbani. Ma si tratta di un’arma a doppio taglio. Forzare l’introduzione dell’elettrico su scala globale senza prima risolvere il problema di come produrre l’energia da fonti politiche rinnovabili, questa si presenta come una minaccia all’esistenza stessa del nostro pianeta». Sergio Marchionne aveva ben chiaro il problema. Il pianeta è messo in pericolo da chi vuole salvare il pianeta. L’auto elettrica è il totem del «gretinismo» ecologista. «Un’istanza politica identitaria», come sostiene da sempre il direttore di Quattroruote Gian Luca Pellegrini. Che di auto se ne intende, compreso l’elettrico che regolarmente guida. Tutto si basa sulla produzione delle batterie elettriche. Per produrne una servono 10-15 kg di litio; quasi 30 di cobalto; più di 40 i rame; quasi 60 di nichel e 90 di grafite. Cui si aggiungono oltre 225 kg di acciaio. Mezza tonnellata. Chilo più, chilo meno. Lo spiegava in una delle sue ultime apparizioni su Fox Tv, prima di essere licenziato, l’anchorman Tucker Carlson. Solo che per ottenere 1 kg di litio allo stato puro si stima si debbano scavare dalle tre alle cinque tonnellate di roccia. Mediamente 50-60 tonnellate di roccia da movimentare solo per il litio. Per non parlare degli altri minerali. Un po’ come bruciare una foresta per cuocere la bistecca. Ecco perché Marchionne sosteneva che l’auto elettrica, proprio lei sì, era una minaccia all’esistenza del pianeta. Almeno per come lo conosciamo oggi. Perché sia chiaro, il mondo finirà ma non certo per le scorregge delle vacche. E chi estrae tutta questa roba? «Più del 60% della fornitura mondiale di cobalto proviene dal Congo, e il 30% delle estrazioni vengono effettuate da minatori che lavorano in condizioni disumane, bambini inclusi [...]. Nel solo 2020 [...] 99.000 tonnellate di cobalto. Circa 9.000 estratte a mano [...]. Uomini, donne e bambini che lavorano 12 ore al giorno sottoterra con salari da fame, senza ventilazione e respirando gas nocivi». Lo documentava il «correttissimo» Avvenire l’8 aprile 2021. L’elenco dei pentiti dell’elettrico inizia a farsi nutrito. L’effetto comico è quasi paragonabile a quello di Gianni Minà imitato da Fiorello. Dove nella stessa compagnia di giro venivano citati Anselmo Robbiati - detto spadino -, Fidel Castro, il tennista Vitas Gerulaitis e Adriano De Zan. Da Matteo Renzi (che in fatto di retromarce è un campione) al Ppe guidato dal tedesco Manfred Weber. Da Francesco Giavazzi a tutti i ceo delle case automobilistiche europee. Questi pensavano al tutto elettrico come il business del loro futuro. Un’occasione per il ricambio forzato dell’intero parco macchine unito a una pioggia (acida) di incentivi pubblici per il loro acquisto. Ma non avevano fatto i conti col consumatore. Che di acquistare un’auto elettrica non ne ha voglia. Costa un occhio della testa. Dopo tre anni, vale il 70% in meno visto il continuo progresso dovuto ad una tecnologia immatura nel suo stato embrionale, anzi primordiale. Ha un’autonomia di 350 km e per caricarsi ha bisogno di 45 minuti. Strano che non voglia acquistarla. E nel 2025, poiché non vendono un’auto elettrica ogni quattro a benzina o diesel, dovranno pagare multe capaci di farle fallire tempo zero. Un conto complessivo, chissà se esagerato ad arte, di 15 miliardi secondo Luca De Meo di Renault. Ci sarà la retromarcia. Proveranno a salvare le apparenze. Manterranno il feticcio del 2035 ma tireranno fuori dal cilindro il principio della neutralità tecnologica. Tu Leviatano imponi un obiettivo di decarbonizzazione. Ammesso e non concesso che abbia senso. Poi lascia che siano le imprese con l’innovazione e la concorrenza a proporre le soluzioni migliori in un tempo ragionevole. Non imporre te anche la soluzione. Il manuale di sopravvivenza si basa su un principio semplice. Opponiti a qualsiasi imposizione venga dall’alto. Siano esse i lockdown, i vaccini o le auto elettriche. La probabilità che tu abbia ragione è prossima al 100%. O forse di più.