2025-12-17
Automotive, Salini: «Con il pacchetto Ue hanno prevalso buonsenso e neutralità tecnologica»
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(Totaleu)
Lo ha detto l’eurodeputato di Forza Italia a margine della sessione plenaria di Strasburgo.
Lo ha detto l’eurodeputato di Forza Italia a margine della sessione plenaria di Strasburgo.
Il 16 dicembre, salvo ripensamenti, la Commissione europea presenterà la revisione del regolamento in materia di emissioni delle autovetture, la famigerata norma che impone lo stop alle auto con motore a combustione interna dal 2035.
Secondo l’agenzia Bloomberg, conterrà un rinvio di cinque anni del divieto di immatricolazione di auto con motore a scoppio, spostandolo al 2040, ma solo per i veicoli ibridi plug-in e quelli con range extender (auto elettriche con motore a carburante che aiuta la batteria). Le emissioni di questi veicoli potranno essere compensate grazie all’utilizzo di biocarburanti avanzati e dei cosiddetti e-fuel, nonché all’utilizzo di acciaio green nella produzione di veicoli.
Inizialmente, la presentazione della strategia della Commissione avrebbe dovuto avvenire mercoledì, ma la lettera di Friedrich Merz del 28 novembre diretta a Ursula von der Leyen ha costretto a ritardare la comunicazione. In quel giorno Merz, appena ottenuto dal Bundestag il via libera alla costosa riforma delle pensioni, si era subito rivolto a Von der Leyen chiedendo modifiche pesanti alle regole sul bando delle auto Ice al 2035. Questa contemporaneità ha reso evidente che il via libera alla richiesta di rilassamento delle regole sulle auto arrivava dalla Spd come contropartita al sì della Cdu alla riforma delle pensioni, come spiegato sulla Verità del 2 dicembre.
Se il contenuto della revisione dovesse essere quello circolato ieri, vorrebbe dire che la posizione tedesca è stata interamente accolta. I punti di cui Bloomberg parla, infatti, sono quelli contenuti nella lettera di Merz.
Non è ancora chiaro quale sarà la quota di veicoli ibridi plug-in e ad autonomia estesa che potranno essere immatricolati dopo il 2035, né se la data del 2040 sarà mantenuta. Anche i dettagli tecnici chiave sugli e-fuel e sui biocarburanti avanzati non ci sono. Resta poi ancora da precisare (da anni) quale metodo sarà utilizzato per il Life cycle assessment (Lca), ovvero i criteri con cui si valutano le emissioni nell’intero ciclo di vita dei veicoli elettrici. Non si tratta di un banale dettaglio tecnico, ma dell’architrave delle nuove regole, da cui dipenderanno tecnologie e modelli in futuro. Un Lca avrebbe già dovuto essere definito entro il 31 dicembre di quest’anno dalla Commissione, ma ancora non si è visto nulla. Contabilizzare l’acciaio green nella produzione di veicoli significa dotarsi di un metodo Lca condiviso, così finalmente si saprà quanto emette davvero un veicolo elettrico (sempre se il Lca è fatto bene).
Qualche giorno fa, sei governi Ue, tra cui quello italiano, affiancato da Polonia, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria e Repubblica Ceca, in scia alla Germania, avevano chiesto alla Commissione di proporre un allentamento delle regole sulle auto, consentendo gli ibridi plug-in e le auto con autonomia estesa anche dopo il 2035. In una situazione in cui l’assalto al mercato europeo da parte dei marchi cinesi è appena iniziato, le case del Vecchio continente faticano a tenere il passo. L’incertezza normativa è però anche peggio di una regola fatta male. L’industria europea dell’auto si sta preparando a mantenere in produzione modelli con il motore a scoppio anche dopo il 2035, con la relativa componentistica, ma tutta la filiera, che coinvolge milioni di lavoratori in Europa e fuori, ha bisogno di certezze.
Intanto, l’applicazione al settore auto della norma «made in Europe», che dovrebbe servire a proteggere l’industria europea stabilendo quote minime di componenti fatti al 100% in Europa, è stata rinviata a fine gennaio. La regola, fortemente voluta dalla Francia ma che lascia la Germania fredda, si intreccia con la richiesta di dazi sulle merci cinesi fatta da Macron. Avanti (o indietro) in ordine sparso.
Trovato l’accordo tra Consiglio europeo e Parlamento per tagliare le unghie alle norme sulla cosiddetta sostenibilità aziendale, due direttive che impongono alle imprese pesanti obblighi di rendicontazione e costi connessi. In base alle modifiche, l’Ue restringerà la direttiva sulla due diligence in materia di sostenibilità (Csddd) alle aziende più grandi, quelle con più di 5.000 dipendenti e un fatturato annuo di almeno 1,5 miliardi di euro. L’accordo contiene, inoltre, il rinvio della scadenza per mettersi in regola a luglio 2029, mentre viene abolito l’obbligo di presentare «piani di transizione ai cambiamenti climatici».
Per quanto riguarda, invece, la direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale (Csrd), che impone alle aziende di comunicare il proprio impatto ambientale e sociale, l’accordo prevede si applichi solo alle aziende con più di 1.000 dipendenti e un fatturato netto annuo di 450 milioni di euro.
Con le modifiche decise due giorni fa, l’80% delle aziende che sarebbero state soggette alla norma saranno ora liberate dagli obblighi. Festeggia Ursula von der Leyen: «Accolgo con favore l’accordo politico sul pacchetto di semplificazione Omnibus I. Con un risparmio fino a 4,5 miliardi di euro ridurrà i costi amministrativi, taglierà la burocrazia e renderà più semplice il rispetto delle norme di sostenibilità», ha detto il presidente della Commissione.
In un comunicato stampa, la Commissione dice: «Le misure proposte per ridurre l’ambito di applicazione della Csrd genereranno notevoli risparmi sui costi per le aziende. Le modifiche alla Csddd eliminano inutili complessità e, in ultima analisi, riducono gli oneri di conformità, preservando al contempo gli obiettivi della direttiva».
Dunque, ricapitolando, la revisione libera dall’obbligo di conformità l’80% dei soggetti obbligati dalla vecchia norma, il che significa evidentemente che per l’80% dei casi quella norma era inutile, anzi dannosa, visto che comportava costi ingenti per il suo rispetto e nessuna utilità pratica. Se vi fosse stata una qualche utilità la norma sarebbe rimasta anche per questi, è chiaro.
Non solo. Von der Leyen si rallegra di avere fatto risparmiare 4,5 miliardi di euro, come se a scaricare quella montagna di costi sulle aziende fosse stato qualcun altro o il destino cinico e baro, e non la norma che lei stessa e la sua maggioranza hanno voluto. La Commissione si rallegra di aver semplificato cose che essa stessa ha complicato, di avere tolto burocrazia dopo averla messa.
In questa commedia si potrebbe sospettare una regia di Eugène Ionesco, se fosse ancora vivo. La verità è che già la scorsa primavera, Germania e Francia avevano chiesto l’abrogazione completa delle norme. Nelle dichiarazioni a seguito dell’accordo tra Consiglio Ue e Parlamento, con la benedizione della Commissione, non è da meno il sagace ministro danese dell’Industria, Morten Bodskov (la Danimarca ha la presidenza di turno del Consiglio Ue): «Non stiamo rimuovendo gli obiettivi green, stiamo rendendo più semplice raggiungerli. Pensavamo che legislazione verde più complessa avrebbe creato più posti di lavoro green, ma non è così: anzi, ha generato lavoro per la contabilità». C’è da chiedersi se da quelle parti siano davvero sorpresi dell’effetto negativo generato dall’imposizione di inutile burocrazia sulle aziende. Sul serio a Bruxelles qualcuno pensa che complicare la vita alle imprese generi posti di lavoro? Sono dichiarazioni ben più che preoccupanti.
Fine di un incubo per migliaia di aziende europee, dunque, ma i problemi restano, essendo la norma di difficile applicazione pratica anche per le multinazionali. Sulla revisione delle due direttive hanno giocato certamente un ruolo le pressioni degli Stati Uniti, dopo che Donald Trump a più riprese ha sottolineato come vi siano barriere non di prezzo all’ingresso nel mercato europeo che devono essere eliminate. Due di queste barriere sono proprio le direttive Csrd e Csddd, che restano in vigore per le grandi aziende. Non a caso, il portavoce dell’azienda americana del petrolio Exxon Mobil ha fatto notare che si tratta di norme extraterritoriali, definendole «inaccettabili», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder ha detto che le norme rendono difficile la fornitura all’Europa dell’energia di cui ha bisogno.
La sensazione è che si vada verso un regime di esenzioni ad hoc, si vedrà. Ma i lamenti arrivano anche dalla parte opposta. La finanza green brontola perché teme un aumento dei rischi, senza i piani climatici delle aziende, che però nessuno sinora ha mai visto. Misteri degli algoritmi Esg.
Ora le modifiche, che fanno parte del pacchetto Omnibus I presentato lo scorso febbraio dalla Commissione, dovranno essere approvate dal Consiglio Ue, dove votano i ministri e dove non dovrebbe incontrare ostacoli, e dal Parlamento europeo, dove invece è possibile qualche sorpresa nel voto. La posizione del Parlamento che ha portato all’accordo di martedì è frutto di una intesa tra i popolari del Ppe e la destra dei Patrioti e di Ecr. Il gruppo dei Patrioti esulta, sottolineando come l’accordo sia frutto di una nuova maggioranza di centrodestra che rende superata la maggioranza attuale tra Ppe, Renew e Socialisti.
Il risvolto politico della vicenda è che si è rotto definitivamente il «cordone sanitario» steso a Bruxelles attorno al gruppo che comprende il Rassemblement national francese di Marine Le Pen, il partito ungherese Fidesz e la Lega di Matteo Salvini.
Mentre si smantellano le scenografie della sudata e inconcludente Cop30 di Belém, dal polverone emerge l’ennesima trovata antiliberale. L’Iniziativa globale per l’integrità delle informazioni sui cambiamenti climatici (sic), nata qualche mese fa da una trovata dell’Unesco, del governo brasiliano e delle Nazioni Unite, ha lanciato il 12 novembre la Dichiarazione sull’integrità delle informazioni sui cambiamenti climatici, stabilendo «impegni internazionali condivisi per affrontare la disinformazione sul clima e promuovere informazioni accurate e basate su prove concrete sulle questioni climatiche». Sul sito dell’Unesco si legge che l’iniziativa nasce «per contribuire a indagare, denunciare e smantellare la disinformazione relativa ai cambiamenti climatici, nonché a diffondere i risultati della ricerca».
In pratica, alla Cop30 qualcuno ha pensato bene di tirare fuori dal cilindro una dichiarazione che impegna i firmatari a istituire l’ennesimo tribunale della verità, questa volta applicato alla narrazione dei cambiamenti climatici. I sottoscrittori dovranno «promuovere l’integrità delle informazioni relative ai cambiamenti climatici a livello internazionale, nazionale e locale» e «creare quadri giuridici che promuovano l’integrità delle informazioni sui cambiamenti climatici e rispettino, proteggano e promuovano i diritti umani, incluso il diritto alla libertà di espressione».
La Dichiarazione è stata finora sottoscritta da 20 Paesi: Austria, Belgio, Brasile, Canada, Cechia, Cile, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Islanda, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Slovenia, Spagna, Svezia e Uruguay. L’amministratore delegato della Cop30, Ana Toni, ha detto durante la conferenza che non c’è verità senza integrità delle informazioni: «Questa è la Cop della Verità. Pertanto, si tratta di un tema fondamentale che dobbiamo affrontare collettivamente per proteggere l’integrità delle informazioni». Verrebbe da dire: Quid est veritas?
Dunque, chi non si allinea al circuito dell’informazione telecomandata, chiunque presenti punti di vista differenti rispetto alla narrazione climatica tremendista che domina sui mezzi di informazione, viene tacciato di negazionismo (termine come sempre usato a sproposito) e di eresia.
Gli estensori del documento si dicono «preoccupati per il crescente impatto della disinformazione, della cattiva informazione, del negazionismo, degli attacchi deliberati ai giornalisti ambientalisti, ai difensori, agli scienziati, ai ricercatori e ad altre voci pubbliche». Ma chi decide cosa è cattiva informazione o disinformazione?
Il caso della Bbc, che non riguarda il clima ma l’informazione, è sotto gli occhi di tutti. La molto accreditata e storica British broadcasting corporation, che svolge servizio pubblico radiotelevisivo in Gran Bretagna, è stata pescata con le mani nella marmellata qualche settimana fa per aver manipolato un discorso di Donald Trump alterandone il significato. Il caso ha portato alle dimissioni di due top manager dell’azienda.
Dunque, le agenzie di informazione ufficiali non sono affatto immuni dalla diffusione delle false notizie, anzi tutt’altro. Sono spesso il maggiore veicolo di diffusione di realtà parallele e orientate.
Il mito del debunking ha già fatto il suo tempo ed è semmai il caso di lasciare spazio alla libera discussione scientifica, che è confronto e dimostrazione. La scienza si è sempre battuta, in quanto metodo, contro i dogmi. Quanto alla stampa e ai giornalisti, il loro compito dovrebbe semmai essere quello di scovare le contraddizioni e i buchi della narrazione dominante.
Naturalmente, in una simile iniziativa non poteva mancare l’usuale côté di Organizzazioni non governative. Sul sito Unesco leggiamo: «Attraverso bandi aperti, enti senza scopo di lucro riceveranno finanziamenti per condurre ricerche approfondite, comunicare e rendicontare in modo accurato sui cambiamenti climatici. Inoltre, gli enti formeranno una rete globale e interdisciplinare, per condividere i risultati e svelare i meccanismi in evoluzione della disinformazione sul clima, producendo raccomandazioni attuabili per politiche innovative in tutto il mondo». C’è sempre un finanziamento, da qualche parte.
Chi fa parte del Gruppo consultivo dell’iniziativa? Il solito manipolo di Ong: Climate action against disinformation, Conscious advertising network, International panel on the information environment, Forum on information and democracy e altre. Queste sono in realtà reti di una miriade di altre Ong, di cui è difficile ricostruire gli intrecci e i finanziamenti. Nulla di nuovo sotto il sole, insomma.
Una nota per concludere. La Francia ha tenuto subito a sottolineare il proprio apporto. In un comunicato dell’ambasciata francese in Italia di qualche giorno fa si legge: «Di fronte all’aumento della disinformazione sul clima, la Francia si impegna nella dichiarazione sull’integrità delle informazioni relative ai cambiamenti climatici». Nello stesso comunicato viene riportata la dichiarazione di Jean-Noël Barrot, ministro degli Affari europei e degli Affari esteri: «Fedele al suo impegno a favore della libertà di stampa e di uno spazio informativo integro, libero e regolamentato, il mio ministero ha contribuito alla formazione di oltre 2.000 giornalisti in tutto il mondo per contrastare meglio la manipolazione delle informazioni». Ecco, che un governo faccia formazione ai giornalisti su come distinguere il vero dal falso appare quanto meno bizzarro e rappresenta, come dire, un segno dei tempi.
Lo ha detto l'eurodeputato di Fratelli d'Italia Paolo Inselvini alla sessione plenaria di Strasburgo.

