L’austerità è una zavorra da imporre solo agli altri. Come segnala la Bild, quotidiano tedesco, l’Unione europea ha applicato un aumento degli stipendi dei propri 67.400 funzionari. È l’ottavo ritocco al rialzo dall’inizio del 2022, con un incremento complessivo del 22,8%. «Quest’ultimo aumento è eccessivo e insensibile. Gli aumenti salariali automatici devono essere aboliti» ha dichiarato Michael Jäger, presidente della Federazione europea dei contribuenti.
Periodicamente, l’ufficio statistico europeo Eurostat effettua una serie di calcoli per adattare gli stipendi degli eurocrati a variabili legate all’inflazione, al potere d’acquisto, al costo della vita a Bruxelles e in Lussemburgo. È un automatismo che puntualmente ingrassa le tasche dei diretti interessati e che, di converso, scompare tra le colonne della grande stampa e i dibattiti televisivi.
Il penultimo aumento salariale, il settimo, risale solo alla fine del marzo scorso e figura come pagamento supplementare per il 2024. Stando agli automatismi, infatti, lo scorso anno, gli stipendi avrebbero dovuto aumentare dell’8,5%. All’epoca, però, perfino la Commissione europea lo ha ritenuto eccessivo, invocando immediatamente un’erogazione del 7,3% e il rimanente 1,2% nell’aprile di quest’anno.
L’aumento salariale degli ultimi giorni, l’ottavo, è applicato retroattivamente al 1° luglio, si aggiunge ai precedenti e graverà per 365 milioni di euro all’anno. Anche questa volta potranno beneficiarne tutti i livelli della baracca europea: i componenti della Commissione, il presidente Ursula von der Leyen, i funzionari di ogni specie e perfino gli oltre 30.000 eurocrati in pensione.
Per l’esattezza, Von der Leyen riceverà circa 1.000 euro in più ogni mese, toccando quota 35.800 euro mensili e oltre 400.000 all’anno. Scendendo nella gerarchia, un commissario percepirà 850 euro in più, arrivando a 29.250, mentre un quadro intermedio si vedrà erogare circa 760 euro in più, toccando i 25.986 euro. Infine, alla base della gerarchia, lo stipendio più basso vedrà 110 euro in più in busta paga, fino a raggiungere i 3.754 euro mensili. Questi numeri figurano in ribasso poiché non comprendono le indennità per stranieri, gli assegni per il nucleo familiare né le altre indennità esenti da imposte. Perfino i contributi per l’assicurazione sanitaria risultano molto bassi (circa il 2%).
Possono sorridere di fronte all’ottavo aumento salariale anche i 30.500 funzionari europei in pensione. Questi ultimi, secondo un documento interno della Commissione, aumenteranno a 42.500 entro il 2073 registrando un aumento dei costi dagli attuali 2,4 miliardi ai 3,231 miliardi nel 2045. Negli anni successivi, si stima una diminuzione dato che i funzionari più giovani accumuleranno meno diritti pensionistici per ogni anno di servizio. D’altra parte, rimarrà garantita la pensione massima al 70% dell’ultimo stipendio.
Nel frattempo, i Paesi membri dell’Unione lanciano l’allarme stilando un documento interno che afferma «una profonda preoccupazione per l’andamento della spesa pensionistica». Di qui la richiesta che la spesa sia «limitata e che venga trovato un equilibrio a lungo termine tra l’adeguatezza delle pensioni e la sostenibilità delle finanze pubbliche».
In tal senso, parte del dibattito pubblico tedesco è insorto. Alcuni hanno evidenziato come il compenso di 400.000 euro annuo di Ursula von der Leyen sia perfino superiore ai 360.000 euro percepiti dal cancelliere tedesco. Altri hanno rispolverato i costi dell’intero carrozzone europeo: oltre 12 miliardi all’anno a cui si aggiungono altre centinaia di milioni per gli edifici in affitto e i 2,5 miliardi di euro per sostenere il Parlamento europeo coi suoi 720 membri e i suoi oltre 5.000 dipendenti.
- Lukoil cede le attività all’estero. Nessuna ritorsione su Rosneft in Germania. Ursula von der Leyen insiste sugli asset ma parla di «prestito».
- Il ministro Guido Crosetto a Bruno Vespa: «Mezzo milione di morti ucraini. Non riprenderanno le terre perse».
Lo speciale contiene due articoli.
Dall’Europa tanto fumo e poco arrosto. La Commissione, in un report, si attribuisce il successo di aver inflitto a Mosca danni economici «concreti». La verità è che nemmeno il diciannovesimo pacchetto di sanzioni è riuscito a piegare, come profetizzò Enrico Letta addirittura nel 2022, l’economia nemica. È bastato invece che Donald Trump decidesse di alzare un po’ la pressione, perché gli effetti delle ritorsioni americane si facessero sentire. Gli embarghi sul greggio hanno subito costretto Lukoil, secondo produttore della Federazione, a mettere in vendita le sue attività all’estero. È la mossa più eclatante che compie un’azienda del Paese di Vladimir Putin da quando è cominciata l’invasione dell’Ucraina, a febbraio di tre anni fa.
Come sempre, bastone e carota finiscono per essere dosati. Il ministero dell’Economia tedesco ha confermato che le sanzioni di Washington non colpiranno le filiali in Germania di Rosneft, altro colosso dell’energia, anche se Berlino attende ulteriori chiarimenti. In questa storia, gli intrecci economici tra «buoni» e «cattivi» sono talmente antichi e difficili da sciogliere, che ogni Paese si ritrova più o meno vulnerabile in alcuni settori.
Come il Belgio, che si oppone alla confisca degli asset russi. Teme ritorsioni, visto che i miliardi della banca centrale dello zar sono custoditi in una società con sede a Bruxelles; per di più, già è sommerso dalle cause; e prospetta una drammatica perdita di attrattività del Vecchio continente per i capitali provenienti da Paesi non perfettamente allineati alle politiche della Commissione Ue. La quale, al contrario, persevera nel suo spirito masochistico.
Ieri, Ursula von der Leyen si è recata a Stoccolma per un vertice con i rappresentati dei Paesi nordici, dove ha corretto un po’ il tiro, in seguito al flop del negoziato all’ultimo Consiglio europeo. Se possibile, peggiorando il quadro. La «proposta giuridicamente valida» che la presidente dell’esecutivo difende è il «prestito di riparazione all’Ucraina», per il quale si attende la definizione di «possibili opzioni per le questioni tecniche». Viene spontaneo domandarsi cosa implichi il passaggio dalla logica della confisca a quella del prestito: significa che, un domani, l’Europa restituirà ai proprietari i circa 200 miliardi che adesso vorrebbe devolvere alla resistenza? L’osservazione del Cremlino, allora, sarebbe fattuale: «Gli europei dovranno essere preparati» a «sborsare sempre di più e per un periodo più lungo».
Non è un caso se, ieri, da oltrecortina, sono arrivati segnali distensivi nei confronti degli Stati Uniti ma non dell’Unione. I servizi d’intelligence estera hanno accusato Emmanuel Macron di voler spedire 2.000 legionari stranieri in Ucraina, travisati da istruttori. È sembrato più un modo di infierire su un politico decotto, che un’autentica scoperta degli 007. Dei rapporti con Trump, invece, ha discusso il capo della diplomazia russa, Sergej Lavrov. «Speriamo che mantenga un sincero impegno per la risoluzione della crisi», ha commentato, «e rimanga fedele ai principi sviluppati al vertice in Alaska», nonostante le indiscrezioni di stampa, le quali avevano invece descritto un battibecco con Putin, capace di irritare The Donald con una lunga digressione storica sulle ragioni per cui l’Ucraina dovrebbe appartenere alla Russia. «I leader della maggior parte dei Paesi europei», ha aggiunto il ministro degli Esteri, «stanno cercando con tutte le loro forze di persuadere l’amministrazione statunitense ad abbandonare l’idea di una soluzione in Ucraina, eliminando le cause profonde del conflitto al tavolo dei negoziati». Lavrov ha rinfacciato all’Alleanza atlantica di non aver mai interrotto la sua espansione verso Est, eppure si è detto disposto a offrire garanzie scritte, da firmare nel contesto di un accordo sulla fine della guerra, che Mosca non attaccherà un Paese della Nato.
Quella di ieri è stata anche la giornata di un rinnovato interesse per il ruolo cinese, dopo le rassicurazioni all’America, alla vigilia dell’intesa sui dazi, che Pechino avrebbe rispettato le sanzioni sul petrolio russo. Volodymyr Zelensky ha chiesto a Trump di premere su Xi Jinping - il tycoon lo incontrerà domani in Corea del Sud - affinché riduca il suo sostegno allo zar. Si è espresso, inoltre, il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin: «Credo che ci voglia un grande coinvolgimento di tutta la comunità internazionale e credo la Cina anche abbia una parola da dire». L’inquilino della Casa Bianca, ha confermato il porporato, si è recato in Asia «anche per toccare questo punto».
Il Papa è reduce dall’udienza con Viktor Orbán, un faccia a faccia che Parolin ha definito «bello». Il premier ungherese ha riferito di aver visto Leone XIV «profondamente preoccupato». Ieri, Robert Francis Prevost ha preso parte all’evento della Comunità di Sant’Egidio al Colosseo: un’adunata con esponenti di varie confessioni religiose, in nome della pace. «Mettere fine alla guerra», ha ammonito il Papa, «è dovere improrogabile di tutti i responsabili politici di fronte a Dio».
È loro dovere pure proteggere gli interessi nazionali: Orbán, contrario all’ultima mossa di Trump sull’export di greggio, che danneggerebbe la sicurezza energetica magiara, sta perciò lavorando a una sorta di asse anti Kiev in seno all’Ue, insieme alla Slovacchia e alla Repubblica Ceca, dove è tornato al governo il sovranista Andrej Babis. La vedono diversamente i finlandesi, per i quali la sconfitta della Russia è funzionale al contenimento del Dragone nell’Indo Pacifico. Almeno, sono sinceri: il mezzo milione di morti ucraini serve a combattere al posto nostro.
Crosetto: «Italiani insospettabili corrotti dal regime di Putin»
L’infiltrazione della Russia è onnipervasiva, i tentativi di destabilizzare l’Italia sono i più imponenti, le vittime ucraine hanno superato la quota del mezzo milione, riconquistare i territori occupati dalla Russia è impossibile. A lanciare questa serie di allarmi è il ministro della Difesa, Guido Crosetto, in Finimondo, il libro di Bruno Vespa in uscita domani. Per Angelo Bonelli, deputato Avs, però, il problema è che tutto ciò «andava comunicato nella sede istituzionale adeguata: il Parlamento». Più pragmaticamente, il governo collabora con la Germania per garantire al presidente ucraino Volodymyr Zelensky attrezzature per la produzione di energia elettrica. Le anticipazioni di Finimondo divulgate ieri non potevano passare inosservate. D’altronde, al centro del libro e dello scacchiere geopolitico c’è l’Italia. «Da noi può succedere di tutto», Crosetto non usa mezzi termini, «siamo il principale Paese europeo che i nostri nemici vogliono destabilizzare, terrorizzare, inquinare e rendere instabile». Il governo italiano è tra i più saldi in Occidente. Così, la Russia ha intrapreso una guerra ibrida e cognitiva. Come spiega Crosetto, «in qualità di normali cittadini non ce ne accorgiamo, ma la propaganda del Cremlino è entrata nel cervello e nella formazione culturale di tanta gente, con una infiltrazione scientifica e anche con l’infiltrazione classica della corruzione». Quest’ultima ha attecchito perfino tra «persone insospettabili».Il libro analizza la condizione politica generale: «Nessun Paese Ue ha deciso una chiusura all’esportazione di armi come l’Italia. Nessuna nazione ha aiutato la Palestina come la nostra. Eppure, in nessun Paese ci sono state le polemiche che abbiamo avuto da noi. Siamo stati il Paese con le reazioni, le manifestazioni e le aggressioni più forti. Questo, nessun Landini è capace di farlo da solo».Il futuro appare ancora più tetro: «La Russia non cederà mai i territori occupati e l’Ucraina non avrà la forza per riconquistarli da sola, anche con il nostro aiuto». Di fronte all’eventualità che il presidente degli Usa, Donald Trump, possa sottoscrivere la cessione di tutti i territori, il ministro sottolinea come spetti solo agli ucraini «decidere se il sacrificio più grande sia la cessione dei territori o la continuazione di una guerra sanguinosa che potrebbe peggiorare». Così snocciola i numeri: «i morti ucraini sono 520.000 mentre quelli russi più di un milione. La differenza è che gli ucraini conoscono le loro perdite, il popolo russo non ne ha idea». Angelo Bonelli polemizza: «Crosetto avrebbe dovuto riportare queste informazioni in Parlamento, non a Bruno Vespa che fa il suo lavoro di giornalista e cerca le notizie». Da qui l’attacco al governo Meloni per la sua «double-face»: «vicina a Orbán, contraria alle sanzioni a Israele ma favorevole a quelle contro la Russia, e sempre favorevole al riarmo». Proprio ieri, intanto, Zelensky ha dichiarato di star collaborando con Giorgia Meloni e il cancelliere tedesco Friedrich Merz per potenziare la generazione elettrica interna. Il governo italiano, in particolare, si è offerto di fornire attrezzature oppure di spedire del gas.
La maggioranza dei membri Uefa vorrebbe escludere Israele da tutte le competizioni calcistiche internazionali. L’indiscrezione è stata lanciata ieri, dal quotidiano britannico Times, secondo cui la decisione «è attesa la prossima settimana, con la maggioranza dei membri favorevole».
Certamente le pressioni circostanti sono molteplici. Tra i maggiori attori della scena internazionale figurano, da una parte, l’Onu e, forse, il Qatar che propendono per l’esclusione mentre, dall’altra, l’amministrazione Trump e il governo di Benyamin Netanyahu che spingono in direzione opposta.
La Uefa è la confederazione calcistica europea che gestisce direttamente le competizioni continentali e anche le qualificazioni delle nazionali europee al Mondiale. La prossima settimana i suoi membri si riuniranno in Consiglio esecutivo e vaglieranno la proposta di escludere Israele. Se davvero si formasse una maggioranza in tal senso, il Maccabi Tel Aviv non potrebbe partecipare all’Europa League mentre la nazionale verrebbe squalificata dalle qualificazioni attualmente in corso per il prossimo Mondiale.
In questa linea di eventualità, però, la palla passerebbe alla Fifa, la federazione calcistica internazionale che organizza il Mondiale, che avrebbe teoricamente i poteri per riammettere Israele alla competizione. Il suo presidente, Gianni Infantino, ha uno stretto rapporto col presidente statunitense Donald Trump. Negli scorsi giorni, ha parlato di come unire le persone «in un mondo diviso e aggressivo». Inoltre, con altrettanta vaghezza, a proposito della sfida di sanzionare i Paesi in guerra, ha osservato che oggi i conflitti interessano circa 80 nazioni nel mondo.
La prudenza di Infantino non è casuale. Da una parte, c’è l’asse tra Tel Aviv e Washington. «Lavoreremo senza sosta per fermare qualsiasi tentativo di escludere la nazionale di calcio israeliana dalla Coppa del Mondo» ha dichiarato un portavoce del Dipartimento di Stato americano. Dall’altra, c’è l’appello a Fifa e Uefa degli scorsi giorni di alcuni esperti indipendenti delle Nazioni Unite per sospendere la nazionale israeliana dagli eventi calcistici «come risposta necessaria per affrontare il genocidio in corso nei territori palestinesi occupati».
Più a fondo ci sono le pressioni della società civile e delle varie nazioni. Secondo indiscrezioni, il Qatar, la cui compagnia di bandiera è sponsor Uefa, e Nasser Al-Khelaifi, presidente del Paris Saint Germain, spingono per una decisione drastica contro Israele denunciando la sua campagna di disinformazione. Invece, sono più propensi a difendere politicamente Tel Aviv Germania e Ungheria, due Paesi che in sede Uefa potrebbero porre un veto su qualsiasi proposta di esclusione.
Sul piano strettamente calcistico, invece, l’eventuale esclusione di Israele può avvicinare la nazionale italiana alla seconda posizione del girone, cioè agli spareggi. Verrebbero cancellate tutte le gare passate e future di Israele, incluso l’incontro con gli Azzurri del prossimo 14 ottobre, evento carico di polemiche e pericoli per l’ordine pubblico. La classifica non cambierebbe: Norvegia e Italia occuperebbero ancora la prima e la seconda posizione. Cambierebbe solo il computo della differenza reti, con gli azzurri che guadagnerebbero un gol (da +5 a +4) mentre la Norvegia passerebbe da +21 a +19.





