Quella sensazione di armonia, di ordine, che ti attraversa quando tutto torna, quando i puntini si uniscono e il quadro si completa. È il genere di effetto che fa visitare il sito Web della fondazione Gimbe, la realtà guidata dal gastroenterologo Nino Cartabellotta che tanti preziosi consigli ha dispensato durante la pandemia e tanti, ancora oggi, continua generosamente a profondere, e scoprire che cotanto ente di ricerca si avvale di un «consigliere scientifico» di primissimo ordine: Martina Benedetti.
Sì, proprio l’infermiera influencer che ha vinto la propria guerra con l’anonimato in tempo di Covid, grazie al celebre autoscatto di fine turno in cui esibiva i segni della mascherina sul volto. Da lì, battezzata infermiera «simbolo della lotta alla pandemia», come l’ha definita La Stampa nell’ultima intervista rilasciata nei giorni scorsi. Quella in cui si vanta di aver cercato di «salvare la vita ai no vax», o almeno così scrive il titolista, come se ci fosse particolare merito nel gesto e non fosse, per quanto intrinsecamente nobile, solo il suo lavoro. Dalla fotografia virale ne ha fatta di strada, l’infermiera: oggi oltre ai corridoi di ospedale frequenta anche palchi politici, conferenze e studi televisivi, dove combatte la sua battaglia contro la disinformazione, condensata in Salvarsi da bufale e fake news, il suo libro (che fantasia!) pubblicato da Nutrimenti.
L’influencer è frustrata perché, secondo lei, nulla abbiamo imparato da quella stagione orribile. «Siamo in un periodo di grande instabilità ed è facile fare leva sulle paure delle persone. Basti guardare agli Stati Uniti, con il segretario alla Salute, Robert Kennedy Jr., che anziché fare campagna per far la prevenzione al morbillo si batte contro il vaccino», lamenta sul foglio torinese. Ma infatti: non affidiamoci a Jay Bhattacharya, luminare di Stanford nominato da Kennedy direttore dei National institutes of health; né a Martin Kulldorff, ex professore di Harvard, o a Sunetra Gupta, titolare della cattedra di epidemiologia dell’Università di Oxford; né tanto meno a John Ioannidis, epidemiologo con h-index di 201, secondo Scopus. No, ascoltiamo Nino Cartabellotta e la sua fondazione Gimbe, che si avvale di esperti come Martina Benedetti. L’infermiera influencer che fa opera di divulgazione per combattere le fake news. Ossia sbugiarda quello che sostengono alcuni tra i più grandi esperti mondiali in materia.
Ma la giovane in Gimbe si unisce a una squadra davvero di alto profilo. Del comitato scientifico, diretto dallo stesso gastroenterologo, ben sei non sono medici e uno è un dentista. Dei laureati in medicina, nessuno vanta h-index significativi: fattore poco rilevante finché si tratta di valutare un medico dal punto di vista operativo ma che, per una fondazione orientata alla ricerca, qualcosina vorrà pur dire (quantomeno nel fatato mondo delle competenze e de LaScienza, tutto attaccato). Se li sommi tutti, non si avvicinano nemmeno alla metà dell’h-index di Ionnadis: eppure, questi si sono permessi di mettere in dubbio la credibilità di simili scienziati.
Questi erano quelli che ci toccava ascoltare quotidianamente in pandemia mentre sproloquiavano su tutto. Questi sono quelli che, ancora oggi, stanno in piedi anche grazie ai (nostri) soldi che ricevono in virtù dei «servizi» (così li ha chiamati Cartabellotta) venduti alle Regioni. Quanti ne daranno invece all’infermeria influencer, «collaboratrice scientifica», per le sue preziose consulenze? In attesa di una risposta, la ricordiamo con un post su Facebook del 6 gennaio 2022, quando piangeva per il basso importo della multa di 100 euro comminata ai no vax con più di 50 anni: «Il prezzo della nostra salute», commentava indignata: «Delle nostre vite. Dei sacrifici che facciamo da due anni, soprattutto noi operatori sanitari». E alla fine concludeva: «Mi auguro che i danni alla nostra serenità psicofisica perduta, un giorno, tornino indietro 100 volte tanto. Karma». Già, sta benissimo col motivetto di Cartabellotta di poche settimane prima: «Per il cugino che non ha fatto il vaccino, solo un tramezzino nello stanzino». Ma quanto è bella LaScienza!
Eppure, non si può dire che tanta indignazione non abbia fruttato: follower (sul profilo Instagram c’è addirittura un post contro i «negazionisti della crema solare», non è uno scherzo), collaborazioni con testate giornalistiche, un libro pubblicato, inviti in televisione e su palchi politici, e perfino l’ingresso nella prestigiosa fondazione Gimbe. Forse tra poco non avrà nemmeno più bisogno di solcare i corridoi dei nosocomi ed essere costretta a curare perfino i brutti no vax. E ritroverà, così, la «serenità psicofisica perduta».
La fortuna di Giorgia Meloni sono i suoi detrattori, dall’opposizione a Macron. Ogni volta che la dipingono come isolata o irrilevante, il presidente del Consiglio si dimostra ancora più centrale sulla scena internazionale. E se è vero, come alcuni sostengono, che la vera arte politica è la politica estera, l’attuale inquilino di Palazzo Chigi sta dimostrando un’abilità che i suoi avversari di certo non si aspettavano. L’ultimo successo diplomatico è avvenuto ieri, dopo la messa di insediamento di papa Leone XIV, con l’organizzazione di un trilaterale a cui hanno partecipato il vicepresidente Usa, JD Vance, e la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. In una giornata solenne, ma anche segnata da grandi movimenti diplomatici.
Volodymyr Zelensky, che ha assistito alla cerimonia con sua moglie Olena, è stato ricevuto dal nuovo pontefice e, nel pomeriggio, anche da Vance. L’incontro tra i due, il primo da quando nello Studio ovale, lo scorso 28 febbraio, si sono scaldati gli animi, è avvenuto all’insegna della cordialità: al suo arrivo in piazza, Zelensky ha teso la mano al vice Trump, il quale si è alzato sorridendo e ha ricambiato. Il presidente ucraino ha ringraziato Leone XIV su X per aver invocato «una pace giusta e per l’attenzione rivolta» a Kiev, poi ha incontrato privatamente il Santo Padre. Finita l’udienza, ha lasciato il Vaticano in direzione Villa Taverna, residenza dell’ambasciatore Usa a Roma, per il faccia a faccia con Vance (presenti anche il segretario di Stato, Marco Rubio, e il capo dell’ufficio della presidenza ucraina, Andriy Yermak). Un «buon» incontro, secondo Zelensky, che ha ringraziato Washington per il sostegno. Le parti, scrive l’ucraino, hanno discusso dei negoziati di Istanbul e «della necessità di sanzioni contro la Russia» per indurla ad accettare il cessate il fuoco.
Da Roma, il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha annunciato che, insieme con i leader di Gran Bretagna, Francia e Polonia, intende parlare con Trump prima della sua telefonata con Vladimir Putin prevista per oggi e, su questo, si sarebbe accordato con Rubio. La Città eterna ha ospitato anche un bilaterale tra il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e l’omologo ucraino, Andrii Sybiha, mentre subito dopo la messa le agenzie riportano di un incontro Meloni-Zelensky.
«C’è un legame indissolubile tra l’Italia e il Vicario di Cristo», ha twittato Meloni. «Il popolo italiano guarderà a lui e alla Chiesa come guide e punti di riferimento, in questo complesso tornante della storia». Von der Leyen, invece, ha sottolineato il «profondo messaggio di pace» del Santo Padre. A rappresentare Mosca, invece, c’è stato solo l’ambasciatore russo presso la Santa Sede, perché l’aereo con a bordo la delegazione guidata dal ministro della Cultura, Olga Liubimova, sarebbe stato costretto a rientrare per la mancata autorizzazione al sorvolo di uno dei Paesi. Putin, invece, ha chiesto a Washington reciprocità nel rispetto che la Russia riconosce agli interessi nazionali Usa, tornando anche a chiarire gli obiettivi dell’«operazione speciale»: l’eliminazione delle cause del conflitto, la creazione delle «condizioni per una pace duratura», le «garanzie di sicurezza per lo Stato russo» e «la protezione dei cittadini di lingua russa in Ucraina».
Il vero colpo di scena, tuttavia, è stato il trilaterale Meloni-Vance-Von der Leyen, un incontro che apre spiragli per una nuova stagione nei rapporti Usa-Ue, tema al centro del vertice insieme con «le questioni all’ordine del giorno dell’agenda internazionale», come ha comunicato una nota di Palazzo Chigi. All’apertura dei lavori, il premier ha ringraziato i due ospiti e sottolineato il suo ruolo di mediazione tra le istituzioni comunitarie, cui ha riconosciuto la competenza in materia di politica commerciale, e gli Stati Uniti, rimarcando l’importanza di rilanciare l’unità dell’Occidente. Vance, che forse oggi vedrà anche il Papa, ha replicato celebrando l’amicizia con Meloni («è una pontiera») ed evidenziando il suo ruolo di costruttore di ponti tra Europa e Stati Uniti, auspicando altresì «l’inizio di negoziati commerciali per vantaggi commerciali a lungo termine tra Usa e Ue». «Ci sono cose su cui non siamo d’accordo, come spesso accade fra amici, su temi come il commercio per esempio, ma ci sono anche molte cose su cui siamo d’accordo», ha aggiunto il vice di Trump. «Ciò che ci unisce», ha affermato Von der Leyen facendo un passo oltre le divisioni, «è che insieme vogliamo un buon accordo per entrambe le parti. Sui dazi sono fiduciosa, troveremo una soluzione». «Sappiamo quanto siete impegnati per la fine della guerra», ha poi detto a Vance, «e vi ringrazio per questo». Al termine, Giorgia Meloni ha parlato sui suoi canali di «un confronto costruttivo». «L’Italia», continua, «intende fare la sua parte per rilanciare il dialogo Ue-Stati Uniti: due realtà chiamate ad affrontare insieme le grandi sfide globali. Libertà, democrazia e centralità della persona sono i valori comuni su cui costruire un futuro più sicuro, prospero e stabile. Orgogliosa di questo passo in avanti per l’unità dell’Occidente».
«Se contraddici te stessa», diceva sabato Giuseppe Conte, «poi ti isolano e rimani lì, nello stesso luogo dove gli altri si riuniscono. Neanche ti chiamano, non contiamo nulla». Sulla stessa linea resta Matteo Renzi: «Con Meloni l’Italia è retrocessa in serie B. Sostituita dalla Polonia». Ieri, invece, dall’avvocato del baciamano ad Angela Merkel silenzio assoluto, così come dal capo di Iv. Nessun attacco a Meloni anche dal novello Napoleone, Emmanuel Macron, che nei giorni scorsi - autosconfessandosi - ha negato l’intenzione dei «volenterosi» di inviare truppe in Ucraina, ingaggiando uno scontro con il premier nel tentativo di tagliarla fuori. Al francese, come a tutti i suoi detrattori, la giornata di ieri deve aver fatto parecchio male.
Gli Stati Uniti vedono nella Cina l’unica vera minaccia e tutte le azioni dell’attuale amministrazione, dai negoziati sull’Ucraina alle trattative sui dazi, vanno lette all’interno di questa cornice. In un’intervista rilasciata a Fox Noticias, Donald Trump non ha escluso di chiedere ad alcuni Paesi - la conversazione verteva, in particolare, su quelli latinoamericani - di scegliere tra Pechino e Washington. La stessa notizia è stata data dal Wall Street Journal, secondo cui la Casa Bianca intende usare le trattative sui dazi come strumento di pressione per portare i propri partner commerciali a limitare i rapporti con il Dragone. Un’informazione da tenere presente anche nell’ottica dei colloqui di ieri tra Usa e Giappone, che il mese scorso ha firmato un accordo con Cina e Corea del Sud per rafforzare la cooperazione tra i tre Paesi.
«Il Giappone arriva oggi per negoziare sui dazi, il costo del supporto militare e “l’equità commerciale”», ha scritto Trump su Truth: «Parteciperò all’incontro, insieme ai Segretari del Tesoro (Scott Bessent, ndr) e del Commercio (Jamieson Greer, ndr). Speriamo si possa raggiungere un accordo che sia buono (ottimo!) per il Giappone e gli Usa!». Il presidente degli Stati Uniti, dunque, ha preso direttamente parte alla prima sessione di trattative dal «giorno della liberazione». A Washington è arrivato, ieri, il ministro giapponese per la Rivitalizzazione economica, Ryosei Akazawa. Prima ancora di iniziare, Trump aveva già incassato la sua prima vittoria: Honda, nota casa automobilistica giapponese, ha infatti annunciato la decisione di spostare la produzione della sua Civic ibrida negli Stati Uniti. Il settore dell’automotive rappresenta il 28,3% delle esportazioni nipponiche verso gli Usa.
Il Giappone, tradizionalmente un Paese esportatore, ha registrato negli ultimi anni un deficit nella bilancia commerciale dei beni, sebbene in miglioramento nel 2024. Questo deficit è attribuibile in buona parte alla forte dipendenza energetica, che comporta elevate importazioni di combustibili fossili. Tuttavia, il saldo delle partite correnti è sorprendentemente positivo e ha raggiunto i 193 miliardi di dollari nel 2024, grazie ai redditi primari provenienti dagli investimenti diretti esteri. Nel commercio dei beni con gli Stati Uniti, però, Tokyo conta un attivo di 68,5 miliardi di euro nel 2024, in calo del 4,3% rispetto al 2023, un dato che gli Usa chiedono di riequilibrare.
Nel frattempo, Trump ha avviato un’indagine per approfondire l’eventuale necessità di dazi sui minerali essenziali. L’azione è stata intrapresa in base alla «Sezione 232» del Trade Act del 1962, norma che consente di limitare le importazioni ritenute una minaccia per la sicurezza nazionale. «Gli Stati Uniti stanno incassando numeri record coi dazi», ha scritto il tycoon in un altro post, «con il costo di quasi tutti i prodotti in calo, inclusi benzina, generi alimentari e praticamente tutto il resto. Allo stesso modo, l’inflazione è in diminuzione. Promesse fatte, promesse mantenute!».
Di tutt’altro avviso il presidente della Fed, Jerome Powell, che ieri ha attaccato Trump: gli effetti economici dei dazi, ha dichiarato, «includono inflazione più alta e crescita più bassa». Nessuna azione, dunque, ma soltanto attesa di «maggiore chiarezza prima di prendere in considerazione qualunque aggiustamento», visto anche che «il livello dei dazi annunciati finora è più rilevante di quanto anticipato». Dopo le parole di Powell, Wall Street ha approfondito la discesa in una giornata già di per sé non brillante, segno che i mercati probabilmente speravano in un intervento sui tassi. Secondo il Wto, nel 2025 la guerra commerciale contrarrà il volume degli scambi internazionali da un minimo dello 0,2% fino a un massimo dell’1,5%. Fitch, invece, ha abbassato dello 0,4% le stime di crescita del Pil mondiale, portandolo sotto al 2%.
Il governatore della California, Gavin Newsom, intende invece avviare un’azione legale per fermare i dazi. L’esponente dem ha anche chiesto al resto del mondo di esentare il suo Stato dalle eventuali ritorsioni (e se lo può chiedere uno Stato degli Usa, non si capisce perché non dovrebbe farlo un membro dell’Ue).
Un giudice federale di Washington, inoltre, ha stabilito che esistono «fondati motivi» per ritenere l’amministrazione Trump colpevole di oltraggio alla Corte per aver violato un suo ordine che vietava l’espulsione di immigrati venezuelani verso El Salvador. Se non risponderanno alle sue domande entro il 23 aprile, ha affermato, deferirà la questione per una possibile azione penale. La Casa Bianca, in un post su X del direttore delle Comunicazioni, Steven Cheung (ripreso anche dalla portavoce ufficiale Karolone Leavitt), ha annunciato immediato ricorso: «Il presidente è impegnato al 100% a garantire che terroristi e clandestini criminali non rappresentino più una minaccia per gli americani».





