È stata una fuga dall’Italia pianificata nei minimi particolari quella di Artem Uss, l’imprenditore russo di 41 anni fuggito dagli arresti domiciliari in attesa dell’iter di richiesta di estradizione verso gli Stati Uniti. Uss è accusato dal dipartimento di Giustizia americano, per i reati di associazione criminale per frode ai danni dello stato, violazione dell’International economic power act, frode bancaria e riciclaggio di denaro, puniti con pene fino a 30 anni di reclusione. Dietro la sua sparizione, assicurano gli inquirenti, non ci sarebbero i servizi segreti russi, bensì una banda di criminali slavi preparati, determinati e a sangue freddo, particolarmente tranquilli nel portare a segno l’incarico che era stato loro assegnato. Innanzitutto, non avevano mai avuto alcun contatto con Uss che quindi li ha conosciuti solo il giorno della fuga. Per di più si tratta criminali che non disdegnano la bella vita. I loro nomi sono stati trovati dagli inquirenti anche al Bulgari Hotel di Milano o all’Hotel Cala di Volpe in Sardegna. Su Instagram sfoggiano foto in spiaggia ma anche a San Siro a vedere il Milan. Sono persone capaci di acquistare un’auto in giornata, pagando una parte in contanti e il restante con bonifici dai conti esteri. A spiegare l’assoluta estraneità dell’Fsb (servizio federale per la sicurezza della federazione russa) è stato anche Marcello Viola, il capo della procura di Milano che ieri ha spiccato 6 misure cautelari per gli uomini di origine balcanica (uno di loro residente a Desenzano è già stato arrestato) che questa primavera hanno appunto esfiltrato Uss dall’appartamento di Cascina Vione, vicino a Basiglio. A dimostrazione della tranquillità dell’operazione è il pranzo alla trattoria Peppone che 5 degli uomini che erano entrati in azione, si concederanno prima di far fuggire un ricercato internazionale con tanto di braccialetto elettronico al polso. Il piano era stato ideato nei minimi particolari. La banda sapeva perfettamente come erano posizionate le telecamere di sorveglianza. Anche perché gli inquirenti hanno scoperto che il bosniaco Vladimir Jovancic, suo figlio Boris, lo sloveno Janezic Matej, l’albanese Ibo Emiranda e i due serbi Lolic Srdan e Ilic Nejosa, avevano già effettuato dei sopralluoghi nella zona. Almeno 5, tra febbraio e l’inizio di marzo, un mese prima quindi che la corte d’appello di Milano avesse dato il via libera all’estradizione di Uss negli Stati Uniti cioè il 21 marzo, il giorno prima della fuga. Grazie a un intenso lavoro degli inquirenti, che hanno incrociato telecamere e segnali dei cellulari si è così scoperto, che la banda era entrata in azione verso mezzogiorno del 22 marzo. A dimostrarlo sono le telecamere sulle strade che costeggiano Cascina Vione, dove Uss stava scontando gli arresti domiciliari. Alle 12 e 15 infatti si vedono 4 autovetture che formano una colonna in entrata nel comune di Basilio. Ci sono due Volvo, una Fiat Bravo e un Audi A8, le prime due con targa italiana mentre le altre con targa serba e slovena. Le immagini riportate nella misura cautelare sono chiarissime. I 5 entrano a Basilio, si fermano in una trattoria a mangiare, poi comprano qualcosa anche al supermercato. Quindi, verso le 13.30 si dividono. Uno di loro, Vladimir Jovancic, il vecchio della banda, si reca a piedi nell’abitazione di Uss e lo porta fuori di casa. Le immagini ritraggono una persona con i suoi stessi vestiti poi sulla Fiat Bravo. È su quella macchina Uss appena uscito di casa? Alle 14 scatta l’allarme del braccialetto elettronico. Non è la prima volta. Le forze dell’ordine intervengono in pochi minuti ma non trovano nessuno. La banda aveva studiato probabilmente anche i tempi di reazione. In ogni caso si pensa inizialmente che Uss sia sulla Fiat Bravo, ma in realtà non è vero. Perché negli stessi minuti in quella strada in cui transita la Fiat, ecco passare anche una delle 2 Audi. Ci sono dei punti morti, che le telecamere non riescono a riprendere. È con tutta probabilità in quel momento che Uss passa su un’altra autovettura. La banda sta cercando di confondere le acque a chi sta guardando. Non a caso, dopo che ripartono, la Fiat Bravo prosegue verso Lonate del Garda, mentre le altre 3 automobili arrivano a Gorizia e da lì, senza problemi, in Slovenia. Uss è a bordo delle auto che hanno varcato il confine prima delle 18: in meno di 6 ore ha lasciato l’Italia. Durante i 79 giorni di arresti domiciliari, l’allarme del bracciale era già scattato 124 volte, di questi una ventina sono ritenuti dagli inquirenti delle prove di fuga. I controlli dei militari erano stati almeno 280. Quel 22 marzo, però, qualcosa è andato storto.
L'ufficio giudiziario di Milano è ostaggio della guerra sulla presunta loggia. Quello di Roma rischia di restare senza capo. Tutto perché il presidente non ha avuto il coraggio di sciogliere e rifondare il Csm, minato dallo scandalo Palamara.
La giustizia è allo sbando. Non perché ogni tanto c'è qualche giudice che fa sentenze bizzarre come quella sul rapper e le bustine di droga. E nemmeno perché ci sono pm che prendono lucciole per lanterne, mettendo in galera fior di innocenti. Gli errori giudiziari – seppure in misura minore – non sono un'esclusiva italiana: anche altrove si sbattono le persone dietro le sbarre con eccessiva leggerezza. No, se nei tribunali si registra il caos, è per quello che è successo e sta succedendo in alcune delle più importanti procure del Paese. Del caso milanese abbiamo parlato nei giorni scorsi e dalle inchieste aperte a Brescia, Roma e Perugia si capisce che ne vedremo delle belle. In pratica, c'è un testimone che i magistrati del capoluogo lombardo hanno usato a piacimento, cioè facendolo apparire in un processo, quello contro i vertici dell'Eni, e sparire in un altro, quello che avrebbe potuto inaugurarsi a seguito di una fantomatica associazione segreta denominata Ungheria. L'operazione è deflagrata come una bomba atomica a seguito di una fuga di notizie, ma a favorire quella violazione del segreto istruttorio è stato proprio un pubblico ministero tra quelli che hanno ricevuto la confessione sulla loggia massonica il quale, in conflitto con i colleghi, ha consegnato i verbali a un esponente del Csm, ossia a Piercamillo Davigo, che si è premurato di parlarne a destra e a manca.
Tutto ciò ha fatto emergere un conflitto ai vertici della Procura milanese. Da una parte, il procuratore capo e alcuni fedelissimi. Dall'altra, il magistrato che ha passato i verbali, ma forse non solo. Una guerra che, come è facile capire, farà morti e feriti, forse con trasferimenti per incompatibilità ambientale, forse con provvedimenti disciplinari, ma che soprattutto segna la fine del famoso rito ambrosiano, di quella cioè che era considerata la punta di diamante della magistratura inquirente e ora si rivela invece il tramonto della magistratura indipendente. Tutto ciò alle soglie di un pensionamento, perché dopo l'uscita di scena di pm storici come Ilda Boccassini, Ferdinando Pomarici e Armando Spataro, si prepara all'addio anche Francesco Greco, che per raggiunti limiti di età lascerà la procura entro la fine dell'anno. E, purtroppo, il suo è un finale carriera segnato dai veleni. Sì, la Milano da bere delle toghe, con il suo mito di Mani pulite, non c'è più. Oggi i pm sono uno contro l'altro, una stagione di rancori che già si era intravista un po' di tempo fa, con lo scontro fra Edmondo Bruti Liberati (il capo) e Alfredo Robledo (il vice), finita con il trasferimento di quest'ultimo.
Ma se il capoluogo lombardo sta messo come vi abbiamo appena raccontato, con sei toghe in fuga verso la procura europea, quindi lontano dalla guerra scoppiata nei corridoi del Palazzo di Giustizia, nella Capitale non va meglio. È di ieri la notizia che il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso del procuratore capo e del Csm contro una sentenza del Tar che rimetteva in discussione i vertici del principale ufficio giudiziario del Paese. Come forse i lettori ricorderanno, tutto il grande scandalo Palamara, dal nome dell'ex capo dell'Anm, ha inizio con l'accordo per la nomina del successore di Giuseppe Pignatone, l'uomo che per anni ha retto la procura romana. All'hotel Champagne si ritrovarono alcuni consiglieri di maggioranza del Consiglio superiore della magistratura e Luca Lotti per decidere chi sarebbe stato il nuovo procuratore capo. Ma all'incontro serale, insieme ai presenti, c'era un intruso, ossia una microspia della procura di Perugia che registrò ogni sospiro. Finì che il candidato prescelto, quello con il maggior numero di voti, fu messo da parte e così pure gli altri che risultavano in corsa. La cena con i politici (oltre a Lotti era della partita anche Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa che attualmente siede in Parlamento con la casacca di Italia viva) infatti suscitò grande scandalo, perché ipocritamente si finse di non sapere che le toghe fanno comunella con gli onorevoli. Risultato, alcune delle toghe presenti all'incontro furono costrette a dimettersi e invece di sciogliere i Csm, di rifare le regole, di separare non le carriere dei giudici, ma quelle delle toghe dalla politica, Sergio Mattarella approvò una soluzione all'italiana, ossia le sole dimissioni dei membri togati riuniti all'hotel Champagne. L'operazione consentì alla corrente più a sinistra della magistratura di riconquistare la maggioranza e nominare il procuratore capo di Roma scartando i nomi che si erano fatti in precedenza. Ma a distanza di due anni, è arrivata prima una sentenza del Tar che ha rimesso tutto in gioco e ora quella definitiva del Consiglio di Stato. Insomma, bisogna rivotare per il vertice della procura. Dunque, abbiamo i principali uffici giudiziari del Paese nel caos. Tutto merito del metodo Mattarella, ovvero della mancata decisione da noi a lungo auspicata. Merito, in subordine, anche del suo vice David Ermini, che verrà ricordato per ciò che non ha saputo gestire. Nel frattempo, Marta Cartabia, aspirante al soglio quirinalizio, parla di riforma della Giustizia: cominci a riformare il Consiglio superiore della magistratura, cancellando le correnti, che ormai sono partiti, e togliendo la maggioranza del Csm alle toghe.
Dice il proverbio: cane non mangia cane. Per questo un magistrato non può nominare un altro magistrato, perché il conflitto d'interessi è palese.
La storia della fantomatica loggia Ungheria rischia di inghiottire la Procura di Milano, coinvolta in inchieste penali e disciplinari. Le dichiarazioni del faccendiere Piero Amara sullo scottante tema e il loro utilizzo stanno creando una reazione a catena. Nel 2020 il procuratore Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio portarono al procuratore di Brescia Francesco Prete (competente per i reati delle toghe milanesi) uno stralcio di poche righe sul giudice Marco Tremolada, che, secondo Amara, sarebbe stato «avvicinabile» dai legali dell'Eni, i cui vertici Tremolada stava giudicando. I pm Fabio de Pasquale e il collega Sergio Spadaro provarono anche a far deporre in aula Amara. Ma, prima che Prete archiviasse tutto senza alcuna iscrizione sul registro degli indagati, il pm Paolo Storari, nell'aprile del 2020, decise di portare quei verbali fuori dal suo ufficio, facendoli visionare all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Adesso su quella sporca guerra vogliono vederci tutti chiaro. Storari, come abbiamo già scritto sabato, è indagato per rivelazione di segreto d'ufficio dalla Procura di Roma, città dove si sarebbe consumato il reato, e presto dovrà essere convocato nella Capitale.
Prete ha annunciato di avere aperto un fascicolo ufficiale sulla vicenda dei verbali di Amara. Nel frattempo il presidente del Tribunale di Milano Roberto Bichi ha acquisito da Brescia gli atti del fascicolo archiviato riguardante Tremolada. Si è mossa anche la Procura Generale di Milano: il Pg Francesca Nanni, esercitando i suoi poteri di sorveglianza, ha infatti chiesto all'ufficio del Procuratore Greco informazioni sulla vicenda per capire che cosa sia successo ed, eventualmente, riferire al Procuratore Generale della Cassazione in vista di una possibile azione disciplinare. Oggi verrà sentito a Roma come persona informata dei fatti Davigo che dovrà spiegare nei dettagli come si sia mosso una volta ricevuti i verbali e riferire quanto di sua conoscenza sul coinvolgimento della sua ex segretaria Marcella Contrafatto nella distribuzione delle carte segretate ai giornali e al consigliere Nino Di Matteo. L'impiegata del Csm è accusata di calunnia per le lettere d'accompagnamento ai plichi.
Ieri è arrivata la notizia che Perugia ha finalmente chiuso le indagini sulle fughe di notizie in favore di Amara avvenute nel procedimento 44630/2016 per corruzione in atti giudiziari e altri reati. All'epoca il faccendiere aveva ammesso di avere ricevuto una pen drive con all'interno un'informativa della Guardia di finanza da un ex agente dell'Aisi, Loreto Francesco Sarcina, in cambio di 30.000 euro. Nel 2017 lo 007 avrebbe fatto intendere ad Amara di poter intervenire su alcuni dei pubblici ministeri che stavano indagando su di lui.
Adesso la Procura di Perugia sembra essere arrivata alla conclusione che Sarcina avesse millantato quando aveva fatto i nomi dei magistrati. Ad Amara e al sodale Giuseppe Calafiore viene contestato il traffico illecito di influenze per aver pagato per ottenere il favore degli inquirenti. Ovviamente se il fatto si fosse realizzato, sarebbe stata contestata la corruzione, ipotesi che, però, era già stata esclusa da Roma. La Procura capitolina aveva inviato il fascicolo in Umbria solo per il reato di traffico illecito di influenze.
Adesso gli inquirenti perugini hanno dato un'accelerata per mostrare che non intendono far sconti ad Amara, nonostante sia un testimone utilizzato anche lì nell'ambito del procedimento contro Luca Palamara. Nell'avviso di chiusura delle indagini si legge che Sarcina «sfruttando e vantando relazioni sia esistenti che asserite con pubblici ufficiali indebitamente si faceva consegnare in più soluzioni da Amara e Calafiore la somma complessiva di 30.000 euro come prezzo della propria mediazione illecita verso pubblici ufficiali e per remunerarli in relazione all'esercizio delle loro funzioni e dei loro poteri». Sarcina avrebbe «assicurato di poter avvalersi di personale dell'Aisi e di appartenenti alla polizia giudiziaria per reperire informazioni sulle indagini in corso […], inoltre parte di tale somma sarebbe servita anche per remunerare i magistrati in servizio presso la Procura di Roma». Ma, ma come detto, questa sarebbe stata una millanteria.
In un verbale del 17 luglio 2018 Amara aveva portato i pm sulla strada che conduceva a Sarcina. Quel giorno, a interrogarlo sono l'aggiunto Paolo Ielo e i pm Fabrizio Tescaroli e Stefano Fava. Amara racconta: «L'avvocato Calafiore conosce una persona che si chiama Francesco che lavora alla presidenza del Consiglio dei ministri, che incontrava in un convento che sta in via Druso, mi pare, lì c'è una monaca che potete sentire a sommarie informazioni e che vi può dire chi è questa persona». Successivamente i pm troveranno suor Concetta e da lei risaliranno a Sarcina.
Ma in quell'interrogatorio Amara fa il nome del primo dei magistrati «trafficati» dallo 007, ovvero di quelli da lui citati come raggiungibili attraverso le sue «influenze». Il procuratore aggiunto chiede i nomi dei pm citati da Sarcina e Amara risponde che lui diceva che poteva raggiungere «il numero uno», ma che a suo giudizio erano «stupidaggini». Ielo insiste per avere il nome del numero uno e Amara risponde: «Questo Francesco ci rappresentava che aveva un rapporto con lei dottor Fava». È facile immaginare le facce dei magistrati. Anche se Ielo ci tiene a precisare che «allora il numero uno ero io».
Qualche mese dopo, il 7 marzo 2019, lo stesso Ielo va a chiedere conferma a Sarcina in carcere di questa versione. È accompagnato solo da un finanziere. Lo 007 gli spiega che a fornirgli notizie riservate era un cancelliere, tale G. D.. L'avvocato di Sarcina chiede: i soldi dati a G. D. erano per lui o per terzi? Sarcina fissa negli occhi l'aggiunto: «G. D. mi ha detto che erano per lei dottor Ielo». Un gioco di specchi in cui i magistrati vengono sporcati con schizzi di fango durante gli interrogatori dai loro stessi inquisiti.
Adesso per queste sesquipedali millanterie Amara & C. potrebbero finire a processo.
C'è posta per la Procura di Brescia. Fra i documenti e gli esposti di routine, è arrivata dall'Anac (l'Agenzia nazionale anticorruzione) la segnalazione relativa a una vicenda che sta facendo rumore a Milano. Titolo del dossier: «Nomina illegittima del comandante del corpo di polizia municipale, senza selezione pubblica, senza titolo e con stipendio maggiorato». È il caso sollevato dall'ex comandante dei ghisa Antonio Barbato e da un'inchiesta del programma Le Iene. La storia riguarda anche il successore Marco Ciacci, agita i sonni del sindaco Giuseppe Sala e potrebbe avvelenargli la campagna elettorale.
Barbato fu costretto alle dimissioni nel 2017 dopo una campagna mediatica micidiale. Fu accusato sui giornali (ma mai indagato) perché in un colloquio telefonico l'ex sindacalista Domenico Palmieri gli consigliò di far pedinare un vigile che faceva parte dei cosiddetti «furbetti del cartellino» (aveva utilizzato 60 permessi sindacali in modo irregolare, anche il 2 giugno e l'8 dicembre). Barbato rispose: «Meriterebbe questo e altro». Non fece pedinare nessuno ma la frase gli è costata la carriera; il dialogo era intercettato nell'ambito di un'inchiesta sulle infiltrazioni delle cosche mafiose nella metropoli, Palmieri sarebbe stato arrestato.
L'ex comandante dei vigili non era coinvolto, passava di lì, ma pagò con la defenestrazione. Allora la pietra tombale sui suoi tentativi di difesa venne posta dal Comitato per la legalità e la trasparenza presieduto dall'eroe di Mani pulite, Gherardo Colombo, che sentenziò: «Il solo ipotizzare di poter accettare l'ipotesi di far pedinare un collega depone in senso avverso alla correttezza che un comandante deve avere». Il sindaco Sala sembrava non aspettare altro: parere negativo il 10 agosto, cambio al vertice l'11 agosto con la nomina di Ciacci.
Tutto in una notte senza ricognizione interna per verificare l'esistenza di analoghe professionalità (secondo l'Anci c'erano 13 posizioni adatte al ruolo) e senza concorso. È facoltà del sindaco non fare il bando, ma in passato Letizia Moratti e gli assessori della sua giunta furono condannati dalla Corte dei conti per non aver eseguito «la ricognizione interna» prima di nominare dirigenti esterni. Il nuovo numero uno dei vigili era un esterno di prestigio, ex responsabile della polizia giudiziaria in procura, collaboratore di Ilda Boccassini, paracadutato con un blitz a Ferragosto.
Al di là delle modalità, è l'accusa di Barbato a fare rumore: «La mia sostituzione era per far sì che Sala esaudisse un desiderio della Procura, considerando anche le inchieste giudiziarie a cui era stato sottoposto il sindaco. La gogna mediatica nei miei confronti serviva a velocizzare l'operazione di nomina di Ciacci. Si erano messi d'accordo per mandarmi via». Nel programma Le Iene, Barbato aggiunge che l'allora assessore alla Sicurezza, Carmela Rozza, gli disse: «Bisogna mettere Ciacci perché lei sa in che posizione giudiziaria è il sindaco, non possiamo permetterci di non esaudire la richiesta della Procura».
Nel periodo di Expo, il deus ex machina Sala fu indagato per abuso d'ufficio (aveva affidato due padiglioni della ristorazione direttamente a Oscar Farinetti) e archiviato. Poi fu condannato a sei mesi con prescrizione per un appalto. Il dirottamento delle inchieste a Francesco Greco e Boccassini portò allo scontro fra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo, conclusosi con l'allontanamento di quest'ultimo. Ricordando quel braccio di ferro scrive Luca Palamara: «Se cade Bruti, cade il Sistema». Nel periodo dell'Expo per due volte il premier Matteo Renzi rese pubblico tributo alla Procura di Milano per «sensibilità istituzionale».
La storia è intricata, le opposizioni chiedono a Sala di spiegare in consiglio comunale ma lui non è ancora uscito allo scoperto. Max Bastoni (Lega): «Sala deve fugare ogni sospetto di scambio di favori». Fabrizio De Pasquale (Forza Italia): «Perché non ha voluto valutare più figure? Il sindaco abbia il coraggio di affrontare un dibattito democratico». Ciacci è un funzionario noto: indagò sulle cene eleganti ed è stato teste d'accusa nel processo Ruby contro Silvio Berlusconi. Da capo dei ghisa, nel 2018 si è occupato personalmente di un incidente stradale in cui un medico fu investito da una ragazza in motorino e morì. La responsabile dello scontro, condannata per omicidio colposo, era Alice Nobili, figlia di Boccassini e dell'ex marito pm, Alberto Nobili. Mai sottoposta ad alcoltest e a test antidroga.
Ora saranno i pm bresciani a valutare se dentro il caso sollevato da Barbato ci sono irregolarità. Rimane una perplessità rispetto a quel «solo ipotizzare di poter accettare l'ipotesi» scandito dall'ex pm Colombo nel suo pronunciamento. Un anno lo stesso Comitato legalità e trasparenza non ha avuto niente da dire a Sala per la nomina di Renato Mazzoncini ad amministratore delegato di A2A, multiutility strategica con 12.000 dipendenti e un fatturato da 7 miliardi. Mazzoncini non aveva «ipotesi» pendenti, ma due inchieste a carico.
Anche in Italia cominciano ad accumularsi esposti contro la gestione della pandemia da parte dell'Oms. Come quello che Giovanna Muscetti, in passato presidente del Consorzio destinazione della Valtellina, ha presentato a fine aprile alla Procura di Milano con l'assistenza legale dell'avvocato Giancarlo Cipolla. La denuncia ricostruisce la vicenda con date precise e documenti. Partendo da dicembre 2019 quando a Wuhan inizia una strana epidemia di polmoniti. Il 27 dicembre i laboratori cinesi sequenziano il genoma del nuovo virus, come rivela il giornale online Caixin, ma la Cina aspetterà ben due settimane per dare al mondo la sequenza del genoma. Eppure il direttore generale dell'Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, si complimenta per «la rapidità con cui la Cina ha scoperto il focolaio, isolato il virus, sequenziato il genoma e condiviso con l'Oms e col mondo». Il 14 gennaio Ghebreyesus fa un tweet tranquillizzante: «Dalle indagini preliminari delle autorità cinesi non ci sono prove di trasmissione da uomo a uomo». Il 23 gennaio il Comitato di emergenza dell'Oms discute se dichiarare l'emergenza sanitaria globale. I delegati di Pechino si oppongono e Ghebreyesus si prepara ad incontrare il presidente Xi Jinping. Il 28 gennaio Ghebreyesus vola, quindi, a Pechino ed elogia la trasparenza cinese: «Elogerò la Cina ancora ed ancora!». Intanto invita il mondo a non tagliare i voli commerciali con la Cina dichiarando che «non c'è bisogno di misure che interferiscano con i viaggi ed il commercio internazionale». Il 30 gennaio l'Oms dichiara l'emergenza sanitaria mondiale. Nei numero diffusi da Pechino non vengono inclusi gli asintomatici ma il report finale della missione dell'Oms in Cina sostiene che «la percentuale di infezioni veramente asintomatiche non sembra un fattore trainante della trasmissione». Il 31 gennaio secondo le linee guida Oms un paziente è sospetto di coronavirus solo se ha i sintomi di un'acuta infezione respiratoria con febbre di 37,5 gradi; ha avuto un contatto con la Cina. Il 21 febbraio si scoprono i primi casi in Lombardia. Non vengono, però, cercati i casi asintomatici. L'11 marzo l'Oms dichiara la pandemia quando ormai il contagio ha raggiunto 114 Paesi. Cinque giorni dopo la rivista Science dichiara che «gli asintomatici non riconosciuti sono stati la causa del 79% dei casi». Il 2 marzo i test per gli asintomatici possono essere considerati nella valutazione degli infetti. Il 3 marzo per l'Oms solo l'1% è asintomatico. Il 16 marzo il responsabile tecnico dell'Oms per il coronavirus, Maria Van Kerkhove, dichiara che «la nostra definizione di caso infetto include anche gli asintomatici» mentre Ghebreyesus esorta tutti a fare i test. Eppure, le linee guida dell'Oms del 6 aprile continuano a non consigliare le mascherine per tutti. Ritardi, omissioni e repentini cambi di direzione. Di qui, la richiesta di valutare l'opportunità di procedere penalmente nei confronti dei soggetti che saranno ritenuti responsabili per i fatti/reati che l'autorità giudiziaria dovesse ravvisare. «Le azioni di risarcimento dei danni, da promuovere in sede civile, fioccheranno non appena saranno quantificati nella loro effettiva entità», commenta l'avvocato Cipolla. Per ora si muovono i cittadini, quando lo farà anche Conte?







