2021-05-12
Il metodo Mattarella getta i pm di Roma e Milano nel caos
L'ufficio giudiziario di Milano è ostaggio della guerra sulla presunta loggia. Quello di Roma rischia di restare senza capo. Tutto perché il presidente non ha avuto il coraggio di sciogliere e rifondare il Csm, minato dallo scandalo Palamara.La giustizia è allo sbando. Non perché ogni tanto c'è qualche giudice che fa sentenze bizzarre come quella sul rapper e le bustine di droga. E nemmeno perché ci sono pm che prendono lucciole per lanterne, mettendo in galera fior di innocenti. Gli errori giudiziari – seppure in misura minore – non sono un'esclusiva italiana: anche altrove si sbattono le persone dietro le sbarre con eccessiva leggerezza. No, se nei tribunali si registra il caos, è per quello che è successo e sta succedendo in alcune delle più importanti procure del Paese. Del caso milanese abbiamo parlato nei giorni scorsi e dalle inchieste aperte a Brescia, Roma e Perugia si capisce che ne vedremo delle belle. In pratica, c'è un testimone che i magistrati del capoluogo lombardo hanno usato a piacimento, cioè facendolo apparire in un processo, quello contro i vertici dell'Eni, e sparire in un altro, quello che avrebbe potuto inaugurarsi a seguito di una fantomatica associazione segreta denominata Ungheria. L'operazione è deflagrata come una bomba atomica a seguito di una fuga di notizie, ma a favorire quella violazione del segreto istruttorio è stato proprio un pubblico ministero tra quelli che hanno ricevuto la confessione sulla loggia massonica il quale, in conflitto con i colleghi, ha consegnato i verbali a un esponente del Csm, ossia a Piercamillo Davigo, che si è premurato di parlarne a destra e a manca.Tutto ciò ha fatto emergere un conflitto ai vertici della Procura milanese. Da una parte, il procuratore capo e alcuni fedelissimi. Dall'altra, il magistrato che ha passato i verbali, ma forse non solo. Una guerra che, come è facile capire, farà morti e feriti, forse con trasferimenti per incompatibilità ambientale, forse con provvedimenti disciplinari, ma che soprattutto segna la fine del famoso rito ambrosiano, di quella cioè che era considerata la punta di diamante della magistratura inquirente e ora si rivela invece il tramonto della magistratura indipendente. Tutto ciò alle soglie di un pensionamento, perché dopo l'uscita di scena di pm storici come Ilda Boccassini, Ferdinando Pomarici e Armando Spataro, si prepara all'addio anche Francesco Greco, che per raggiunti limiti di età lascerà la procura entro la fine dell'anno. E, purtroppo, il suo è un finale carriera segnato dai veleni. Sì, la Milano da bere delle toghe, con il suo mito di Mani pulite, non c'è più. Oggi i pm sono uno contro l'altro, una stagione di rancori che già si era intravista un po' di tempo fa, con lo scontro fra Edmondo Bruti Liberati (il capo) e Alfredo Robledo (il vice), finita con il trasferimento di quest'ultimo. Ma se il capoluogo lombardo sta messo come vi abbiamo appena raccontato, con sei toghe in fuga verso la procura europea, quindi lontano dalla guerra scoppiata nei corridoi del Palazzo di Giustizia, nella Capitale non va meglio. È di ieri la notizia che il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso del procuratore capo e del Csm contro una sentenza del Tar che rimetteva in discussione i vertici del principale ufficio giudiziario del Paese. Come forse i lettori ricorderanno, tutto il grande scandalo Palamara, dal nome dell'ex capo dell'Anm, ha inizio con l'accordo per la nomina del successore di Giuseppe Pignatone, l'uomo che per anni ha retto la procura romana. All'hotel Champagne si ritrovarono alcuni consiglieri di maggioranza del Consiglio superiore della magistratura e Luca Lotti per decidere chi sarebbe stato il nuovo procuratore capo. Ma all'incontro serale, insieme ai presenti, c'era un intruso, ossia una microspia della procura di Perugia che registrò ogni sospiro. Finì che il candidato prescelto, quello con il maggior numero di voti, fu messo da parte e così pure gli altri che risultavano in corsa. La cena con i politici (oltre a Lotti era della partita anche Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa che attualmente siede in Parlamento con la casacca di Italia viva) infatti suscitò grande scandalo, perché ipocritamente si finse di non sapere che le toghe fanno comunella con gli onorevoli. Risultato, alcune delle toghe presenti all'incontro furono costrette a dimettersi e invece di sciogliere i Csm, di rifare le regole, di separare non le carriere dei giudici, ma quelle delle toghe dalla politica, Sergio Mattarella approvò una soluzione all'italiana, ossia le sole dimissioni dei membri togati riuniti all'hotel Champagne. L'operazione consentì alla corrente più a sinistra della magistratura di riconquistare la maggioranza e nominare il procuratore capo di Roma scartando i nomi che si erano fatti in precedenza. Ma a distanza di due anni, è arrivata prima una sentenza del Tar che ha rimesso tutto in gioco e ora quella definitiva del Consiglio di Stato. Insomma, bisogna rivotare per il vertice della procura. Dunque, abbiamo i principali uffici giudiziari del Paese nel caos. Tutto merito del metodo Mattarella, ovvero della mancata decisione da noi a lungo auspicata. Merito, in subordine, anche del suo vice David Ermini, che verrà ricordato per ciò che non ha saputo gestire. Nel frattempo, Marta Cartabia, aspirante al soglio quirinalizio, parla di riforma della Giustizia: cominci a riformare il Consiglio superiore della magistratura, cancellando le correnti, che ormai sono partiti, e togliendo la maggioranza del Csm alle toghe. Dice il proverbio: cane non mangia cane. Per questo un magistrato non può nominare un altro magistrato, perché il conflitto d'interessi è palese.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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