La storia del Mes è quasi infinita. Per provare a sintetizzarla occorre partire dal 2010: in Europa arriva l’onda lunga della crisi Lehman, e le istituzioni comunitarie si dotano di uno strumento - tecnicamente una società di diritto lussemburghese - chiamato Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf), che emette obbligazioni destinate a finanziare il deficit di Stati in difficoltà (all’epoca, Portogallo e Irlanda, oltre ovviamente alla Grecia). Un anno dopo, il Fondo confluisce nel Meccanismo europeo di stabilità, che non emette titoli ma riceve capitale versato dai singoli Stati. Per accedere ai finanziamenti del Mes in caso di crisi di finanza pubblica, un Paese accetta pesanti piani di riforma. Ogni Stato membro contribuisce a tali fondi in modo proporzionale: nel caso dell’Italia, sono circa 60 miliardi di euro versati. Nell’indifferenza generale, Senato e Camera approvano Fiscal compact e Mes tra il 12 e il 19 luglio 2012, Giorgio Napolitano promulga il testo il 23 dello stesso mese. Mario Monti è al governo da sette mesi, ma lo spread viaggia a quota 536, pericolosamente a un passo dai livelli «berlusconiani» di fine 2011. Servirà il «whatever it takes» di Mario Draghi a far capire che solo la Bce sistema verso il basso i differenziali. Da allora resta in vigore uno strumento finanziario (il Mes appunto) pensato come scudo contro le crisi, che all’Italia è costato parecchio, e ha sistemato più che le finanze pubbliche i creditori privati, soprattutto tedeschi e francesi, esposti su Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda.
Anni dopo - siamo nel 2018/19 - il Mes è sottoposto a un percorso di riforma con l’obiettivo di dare ad esso la cornice istituzionale di un nuovo Trattato. L’Eurogruppo di giugno 2019 nella quasi totale inconsapevolezza della politica, approva una bozza del nuovo trattato: essa incorpora le clausole di Maastricht vincolando a esse la possibilità di accedere allo strumento di stabilizzazione da choc (esteso alle banche col cosiddetto backstop), inserendo il tutto in voci all’interno del bilancio comunitario. Per l’Italia è un doppio rischio: sia perché può essere chiamata a partecipare a eventuali aumenti di contribuzione, sia perché i «paletti» per l’accesso metterebbero il nostro debito in «serie B».
Il controllo politico sui negoziati, condotti nel 2019 dal dg del Tesoro e dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria, è a dir poco impalpabile, in barba alla legge 234 che impone il mandato parlamentare esplicito su materie simili. All’Eurogruppo del 13 giugno, i ministri dell’Economia dell’eurozona raggiungono un accordo sulla bozza di riforma del trattato del Mes. La palla passa all’Eurosummit del 21 giugno. Nel frattempo i deputati di M5s e Lega, allora forze di maggioranza, preparano una risoluzione durissima nei confronti del nuovo Mes. Il premier Conte impone modifiche e la risoluzione viene approvata «ammorbidita», ma comunque il testo finale vincola il governo a «render note alle Camere le proposte di modifica al trattato Mes […] al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato». Cosa che però non avverrà mai. C’è anche questo strappo tra parlamentari - soprattutto leghisti - e Tesoro e Chigi dietro la crisi del Papeete. Col Conte bis il M5s (che nel 2018 voleva eliminarlo) fa la svolta pro Mes e il negoziato prosegue fino all’ok nel gennaio 2021. Da lì servono le ratifiche parlamentari dei singoli Stati. Il Covid rallenta tutto, ma nel giro di un anno il nostro Paese resta l’unico a non aver approvato in Aula la riforma. Il pressing su Roma torna dopo la caduta di Draghi e dopo le Politiche 2022. Il nuovo ministro Giancarlo Giorgetti, in piena sintonia col premier, difende le prerogative dell’Aula e tiene il punto: a fine novembre 2022 il Parlamento approva una risoluzione chiaramente contraria alla ratifica. Un anno dopo - dicembre 2023 - la Camera boccia ufficialmente la ratifica della riforma: 184 no, 72 sì, 44 astenuti (tra cui Forza Italia). Il discorso pare chiuso, ma a ogni frangente tornano «pizzini» dall’Eurogruppo, si vocifera di «Mes bellico» o altre amenità. Fino al clamoroso verbale che tira in ballo Sergio Mattarella e riapre il ballo.