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Giulio Tremonti (Imagoeconomica)
Maurizio Lupi: «Per contrastare la denatalità occorre risollevare il modello della famiglia tradizionale».
Quando sono in gioco temi urgenti, la frenetica e industriosa Milano si ferma e medita, riflette e cerca soluzioni. E ieri, presso il Consiglio regionale della Lombardia, si è tenuto il convegno dedicato all’unico vero grande problema europeo e, segnatamente, italiano: la denatalità.
L’analisi della situazione demografica italiana è ai limiti dell’allarmante. I dati Istat più recenti mostrano come nel 2023 le nascite della popolazione residente siano state 379.890, 13.000 in meno rispetto all’anno precedente, vale a dire meno 3,4 per cento; ossia, per ogni 1.000 residenti in Italia sono nati poco più di sei bambini.
Il tasso di fertilità si attesta a 1,24 figli per donna, ben al di sotto del livello di sostituzione generazionale, che invece è 2,1. Inoltre, la popolazione italiana è sempre più anziana: oltre il 23 per cento ha più di 65 anni; percentuale destinata a salire al 34,5 per il 2050. Un dato che pone l’Italia tra i Paesi più vecchi al mondo. Le conseguenze sono evidenti: aumento della spesa previdenziale, carenza di forza lavoro e depopolamento delle aree interne, soprattutto nel Mezzogiorno.
A peggiorare la situazione, si aggiunge il fenomeno dell’emigrazione giovanile. Venti anni sono bastati affinché tre milioni di giovani italiani lasciassero lasciato il Paese, privando il tessuto sociale di risorse vitali. Un circolo vizioso: meno giovani significa meno nascite, con un ulteriore aggravamento della crisi.
C’è chi ha pensato di arginare (e non risolvere) il problema, con assegni di mantenimento e piccoli bonus. Ma secondo Giulio Tremonti, intervenuto nel contesto del convegno, «non basta distribuire bonus una tantum. Servono politiche di lungo termine, che sostengano i genitori dal primo figlio e creino un ambiente favorevole alla natalità». «L’inverno demografico italiano», prosegue Tremonti, «è una conseguenza diretta di politiche miopi che per decenni hanno ignorato i segnali di declino. Dobbiamo intervenire sul fisco, perché un Paese che tassa pesantemente le famiglie non può sperare di crescere».
C’è da dire che negli ultimi tre decenni, da quando cioè si è fatta strada l’ideologia utopica della globalizzazione, molte coppie, o perché gravate dalle difficoltà economiche o perché, al contrario, allettate dalla possibilità di disporre liberamente del denaro e del tempo senza la responsabilità della prole, hanno anteposto altro alla famiglia. Per Maurizio Lupi occorre quindi promuovere una nuova narrazione della famiglia: «Non è solo un problema di soldi», spiega, «ma di percezione. Se non cambiamo l’immaginario collettivo, le famiglie continueranno a sentirsi sole e abbandonate».
Di avviso simile anche il professor Emilio Brogi, presidente dell’associazione Altero Matteoli, che ricorda: «L’emergenza natalità non è considerata come si dovrebbe, le famiglie hanno bisogno di ricevere aiuti più concreti. Noi abbiamo consultato i cittadini, sentito le famiglie. Chiedono più posti per gli asili nido, più aiuti per le spese per i testi scolastici, le spese mediche. Anche per capire le giovani coppie, le neo famiglie, che spesso non hanno aiuti in casa».
Poi c’è il caso di Milano, preso in considerazione da Stefano Maullu (Fdi). «Nel corso di vent’anni», sottolinea, «le nascite sono crollate di quasi il 25 per cento. È il minimo storico degli ultimi due decenni, segno di una tendenza negativa ormai consolidata. Per comprendere l’entità del fenomeno è necessario tornare ai primi anni del nuovo millennio. Nel 2004 le culle sotto la Madonnina contavano 12.462 neonati, oltre 3.000 in più rispetto a oggi. Negli anni successivi, il numero di nascite ha superato le 12.000 unità fino al 2010, per poi scendere a 11.547 nel 2011. Il declino è proseguito costantemente: nel 2018 si registravano 10.831 nuovi nati e nel 2019 il dato si attestava a 10.325. La continua contrazione delle nascite evidenzia una crisi strutturale, che richiede interventi mirati per supportare le famiglie e favorire la natalità. Politiche di sostegno economico, potenziamento dei servizi da per l’infanzia da parte dei comuni e misure per conciliare vita privata e lavorativa sono indispensabili per invertire questa rotta e garantire un futuro sostenibile per la città».
Con questa partita ci si gioca il destino del Paese.
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L’Istat certifica che si è esaurita la spinta demografica impressa da chi è arrivato da fuori. Così, il welfare è destinato a diventare insostenibile. Noi dovremmo riorganizzare gli ingressi regolari. Ma l’inghippo vero sta nel gigantesco flop economico targato Europa.
L’anno scorso ogni 1.000 abitanti è nato solo un bimbo. Ne sono venuti alla luce 13.000 in meno del 2022, il che ha fissato l’asticella a soli 394.000. Molto pochi se si pensa che dieci anni fa erano 514.000 e nel 2008 576.000. Purtroppo il dato conferma la preoccupazione. E quindi non è certo una novità. Interessante è un secondo aspetto che emerge sempre dai dati diffusi ieri dall’Istat. Cioè che anche gli immigrati e gli stranieri fanno meno figli. Il tasso di natalità delle donne italiane registrato alla fine del 2023 è 1,14. Quello delle donne straniere è 1,79. Nel 2008 era 2,53, mentre quello delle donne italiane era 1,33. Ovviamente ad alzarsi sensibilmente è l’età media del parto. Nel 2008 per le straniere era 27 anni e 5 mesi, per le italiane era 31 e mezzo. Ora siamo rispettivamente a 29 anni e sette mesi e 33 anni per le italiane. È chiaro che nel frattempo la percentuale di figli nati da matrimoni misti è sensibilmente aumentata, così come è passata da 83,2% a 78,7% la quota di bimbi nati dentro una coppia di italiani. E i figli di soli stranieri adesso sono il 13,5% rispetto al 12,6 del 2008.
Andando oltre i numeri puri si capisce che anche gli stranieri non sono più la spinta demografica che rappresentavano un decennio fa. Politici e sindacalisti sono intervenuti. «I dati Istat», ha commentato Luigi Sbarra, segretario Cisl, «raccontano la minaccia futura alla sostenibilità del welfare». Gli allarmi però non bastano. Si tratta di uno schema complesso di problemi che si somma al problema generale che tocca non solo l’Italia, ma l’intera Europa. Appare lampante il circolo vizioso che si forma tra il crollo della natalità, la gestione dei flussi migratori e la capacità delle imprese di aumentare la produttività sostenendo gli stipendi e di conseguenza le future pensioni.
Prendere i dati dell’Istat e spacchettarli aiuta a comprendere che il modello di immigrazione libera che è stato imposto negli ultimi anni non contribuisce a sostenere il calo della natalità. Chi arriva e, spesso con difficoltà, si integra, non basta a tenere a galla dati equilibrati tra la mortalità e la natalità. Ciò significa due cose. La prima è che si può e si deve continuare a valutare i flussi regolari di lavoratori con specializzazioni di base purché lo si sostenga con un modello di welfare. Cioè fare arrivare stranieri accompagnati dalle famiglie o giovani coppie che desiderino creare famiglia attorno a poli produttivi, o quelli che in Italia chiamano distretti produttivi. Magari, come ha sostenuto l’attuale presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, offrendo in sostegno progetti di edilizia agevolata. La seconda cosa che si desume è che i flussi irregolari di maschi che arrivano per meri motivi economici hanno un duplice effetto negativo sulla nostra società. Non solo non sostengono il welfare né tanto meno la natalità, come abbiamo scritto più volte, ma contribuiscono a rendere più pericolosa e insicura anche la società. Le statistiche sui reati sono chiare e solo la sinistra mira a strumentalizzare i dati al contrario. Tutto ciò contribuisce indirettamente a un calo della ricchezza e anche a una fuga di personale iper specializzato che punta a Paesi più ricchi e sicuri. Per uscire dal circolo vizioso denatalità-calo del welfare bisognerebbe prima o poi affrontare il tema della produttività in modo serio e definitivo. E ciò indipendentemente dai flussi migratori e dal numero di famiglie straniere presenti in Italia in modo stabile.
Il tema è assai complesso e tocca tutto il Vecchio continente. È a Bruxelles che bisognerebbe far presente di cambiare gran parte delle logiche di strategia economica. L’Ue, infatti, negli ultimi 20 anni è riuscita a combinare alti livelli di sviluppo umano con una disuguaglianza relativamente bassa, creando un mercato unico di 440 milioni di consumatori e 23 milioni di aziende che insieme rappresentano circa il 17% del Pil globale. Si tratta di una struttura economica sostenuta da politiche progressiste, un elevato livello di istruzione e forti standard sanitari. Tolta la patina politica però vediamo che il divario tra il Pil Ue e quello Usa è aumentato dal 12% del 2002 al 30% del 2022 e, stando ai valori diffusi ieri in ambito G7 Industria, quasi il 35% nel 2023. Il gap di produttività spiega circa il 70% della stagnazione che stiamo vivendo. Tra il 2000 e il 2019, il commercio internazionale come quota del Pil è aumentato dal 30% al 43% nell’Ue, superando gli Stati Uniti, dove la quota del commercio sul Pil è aumentata solo marginalmente. Questa apertura ha consentito all’Europa di mantenere un vantaggio competitivo in un’economia pienamente globalizzata. Il problema è che il sistema commerciale multilaterale è passato attraverso una crisi profonda e ora è «kaputt». Ci troviamo con un prezzo complessivo dell’energia che è circa quattro volte più alto rispetto a quello dei competitor americani e cinesi. Non solo, lo scorso anno le aziende Ue hanno investito in ricerca e sviluppo 270 miliardi in meno rispetto alle cugine a stelle e strisce. Oggi non abbiamo il controllo delle materie prime, l’industria automotive è spiaggiata. La transizione green ha reso ancora più debole il Vecchio continente, tecnologicamente schiacciato tra Usa e Cina. Un grande puzzle che, se non verrà ricomposto, non risucirà a far tornare agli europei la voglia di fare figli.
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Domani a Modena il Festival delle associazioni pro life per impegnare il Parlamento.
I dati continuano a parlare chiaro: 380.000 nati nel 2023, cioè un -3,8% rispetto all’anno precedente, che aveva già visto i decessi più che raddoppiare sulle nascite. Con un’annotazione curiosa: l’Italia ha visto più nati nel 1943 (in pieno conflitto mondiale) che nel 2023! Pare emergere piuttosto evidente l’immagine di un Paese meno vitale e creativo, meno disposto all’innovazione e, soprattutto, gravante sulle future generazioni in termini pesanti; per l’aumento della spesa sanitaria, sociale e pensionistica (visto il sempre più alto numero di anziani), per la contrazione dei posti di lavoro, per l’abbandono dei piccoli Comuni. Ma, soprattutto, è dietro l’angolo il preoccupante impoverimento del tessuto relazionale, specie nei rapporti tra generazioni diverse, la conseguente povertà educativa, la solitudine degli anziani. E, a questo punto, dei bambini.
Svariate sono le cause: economiche, lavorative, affettive, sociali. Ma la più emergente e, a mio parere, rilevante, risulta essere quella culturale. Sta prevalendo la propensione a zero figli, esito di una cultura individualistico-consumistica, più propensa alla gratificazione immediata che a un progetto a lungo termine, come quello di generare ed educare un figlio.
Eppure la trama nebulosa della deriva demografica può ancora essere perforata da raggi di luce capaci di avviare un’inversione di tendenza. Perché è in primo luogo una questione di sguardo. È la capacità, prevalentemente femminile, di «vedere» il bambino non ancora nato in tutta la sua umanità, nonostante condizionamenti culturali e materiali prevalenti. È privilegio esclusivamente femminile quell’abbraccio, lungo nove mesi, tra gestante e figlio, posto a servizio dell’intera umanità. È la forza della vita nascente, così ricca di umanità e di speranza, che da sempre ha fatto sbocciare nelle gestanti in difficoltà la voglia di accogliere il figlio.
Lo sguardo che rivolgo all’altro dice della mia umanità. È l’impegno per rifondare l’idea dei diritti umani, la molla per un’azione strategica a servizio della vita umana, a partire da quella nascente. Dobbiamo quell’impegno a noi stessi ma, soprattutto, alle future generazioni. Dobbiamo sperare in una classe politica che, superando il piccolo cabotaggio, sia capace di guardare lontano. Solo la politica ha gli strumenti per affrontare le svariate difficoltà che alimentano l’inverno demografico e invertire positivamente la tendenza.
Per questo chiediamo al Parlamento di istituire la Giornata della vita nascente (sono già depositate varie proposte di legge), quale occasione di sereno confronto e di salutare dibattito, al fine di alimentare quella cultura per la vita che, nel rispetto di ogni persona, possa generare un clima di progresso per il bene dell’intero Paese. Ecco la ragione per la quale si svolgerà domani, sabato 23 marzo, a Modena, dalle 16 alle 18, il Festival per l’istituzione della Giornata della vita nascente, proposto annualmente dalla rete delle associazioni costituita all’uopo.
È un dovere morale, politico e sociale promuovere la vita cui non possiamo sottrarci, né con la mente, né con il cuore.
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Siamo afflitti da cecità intellettuale: ci hanno detto di essere troppi e ciò nuoce all’ambiente. In realtà il resto del mondo è in boom demografico e di Pil, mentre i nostri sistemi crollano sotto il peso di sanità e pensioni.
Vorrei essere provocatorio e slegato dal pensiero politicamente corretto. Sono arrivato a convincermi che in «casa nostra» uno dei peggiori mali è la «cecità intellettuale». Un proverbio latino lo spiega così: deterior surdus eo nullus qui renuit audire (non c’è peggior sordo di chi non vuole ascoltare). Parliamo di natalità e denatalità, ambientalismo, benessere…
Venerdì 14 luglio sulla Verità è apparsa una intrigante intervista al «data scientist» Stephen Shaw che ha appena realizzato un documentario il cui titolo conferma il senso della cecità intellettuale evocata: BirthGap (Childless world), sconfessando così le illusioni (le chiamo così per non suonare offensivo) dei neomalthusiani sopravvissuti che ancora oggi insistono a spiegare che più che la quantità conta la qualità della popolazione ed al resto pensa la produttività tecnologica (detto fra noi, ciò lo me lo ha affermato in faccia un monsignore, intellettuale, secondo questi tempi…). Quando sento trattare l’argomento natalità e popolazione, al meglio ascolto dati statistici e proiezioni. Molto raramente percepisco il tentativo di spiegare le cause e non solo gli effetti. Si tratta di un «bias», una distorsione cognitiva e informativa? Chi lo capisce?
Oggi le grandi preoccupazioni (confuse) che affliggono le persone dotate di senso di responsabilità sono (oltre al crollo del senso morale e spirituale): le continue crisi economico finanziarie mai risolte, ma solo resettate; l’inflazione e la sua attuale cura incomprensibile; la disoccupazione e scarsità di lavoro coesistente con l’esaltazione della Ia e con la richiesta di immigrazione per sopperire alla domanda di lavoro; le confuse e contraddittorie spiegazioni delle cause del problema ambientale, eccetera.
Provocatoriamente affermo che tutti questi problemi hanno una prima causa comune: la denatalità, solo in Occidente. Ricordo solo che 50 anni fa al mondo c’erano (arrotondo per semplificare) 4 miliardi di persone di cui 1 miliardo in Occidente. Oggi ci sono 8 miliardi di persone e sempre solo 1 miliardo in Occidente. Ma 50 anni fa l’Occidente controllava più del 90% del Pil mondiale, oggi (non) si contenta di meno della metà. E ciò spiega le ansie oggi dell’Occidente di non perdere la leadership, ma non spiega la razionalità delle decisioni prese per risolvere il problema, dimostrando di non aver capito cosa è successo da quando ha deciso di interrompere la natalità. Quando 50 anni fa l’Occidente decide di avviare il processo di «inverno demografico», capisce solo troppo tardi che anche il tasso di crescita del Pil si sarebbe «congelato» con il freddo, così crede di poterlo compensare con la progressiva crescita del consumi individuali (facendo esplodere il fenomeno del «consumismo»), utilizzando anche il risparmio ovviamente (che 50 anni fa rappresentava il 25% dei redditi, oggi intorno al 5%) che, non fate finta di non saperlo, rappresenta la materia prima per l’intermediazione bancaria e, riducendosi, influenza la disponibilità di credito concesso e il suo costo (tassi). Ma per alimentare il ciclo con la scelta di consumismo si deve crescere il potere di acquisto riducendo i prezzi dei prodotti di consumo. E così nasce la scelta di delocalizzare in Asia a basso costo il più possibile delle produzioni (e reimportarle e venderle a prezzi più bassi). Così facendo abbiamo deindustrializzato l’Occidente e industrializzato l’Oriente. Spiegatelo a chi non trova facilmente lavoro adeguatamente remunerato (e pertanto non può formare famiglia se non lavorando in due, con meno tempo per pensare alla prole).
Non ci crederete, ma tutto a un tratto l’Occidente scopre, con sorpresa, che la popolazione sta invecchiando (forse guardando i bilanci pubblici e vedendo esplodere la voci di sanità e pensioni), scoprendo anche che in 50 anni i «pensionati» sul totale popolazione son triplicati (diciamo dal 10% a oltre il 30%). E naturalmente l’impatto di questi costi è stato assorbito dalla necessaria crescita delle imposte (che da circa un 25% sul reddito di 50 anni fa sono lievitate a quasi un 50%). E le imposte , questo lo sapete, impattano sul reddito e sulle risorse da destinare agli investimenti. Così il ciclo negativo peggiora.
Ma ora viene la sorpresina più curiosa. Si narra che fare figli danneggia l’ambiente, perché l’uomo è «cancro della natura». Forse è vero il contrario? Non facendo figli in Occidente, ricco, colto e con economia matura, la crescita del Pil si riduce progressivamente. Ma non volendo perdere i suoi privilegi di benessere e volendo mantenere uno standard di vita alto, decide di surrogare la crescita economica vera e sostenibile, facendo consumare sempre di più (e sempre più a debito). Per riuscirci deve far produrre a costi sempre più bassi in Oriente. Iperconsumismo necessario (dimenticandosi dell’impatto ambientale) e produzioni low cost (che proprio ignorano l’ambiente) han prodotto il cosiddetto problema ambientale di inquinamento CO2. Ma l’origine è proprio la denatalità, appunto, per compensare la quale son state fatte tutte queste scelte, pragmatiche con visione a breve. Ma ci si rifiuta di riconoscerlo, e questo è grave. Arrivando al punto in cui l’Occidente, preoccupato finalmente della situazione creata, decide di separarsi dall’Oriente diventato troppo potente, facendo però crescere i costi delle materie prime e generando inflazione da costo. Così dopo avere unificato il mondo con il mercato ora si ha la tentazione di risepararlo, inventando persino una nuova forma di capitalismo inclusivo e sostenibile (cioè digitale e di transizione energetica). Il Covid ha accelerato di (diciamo ) 15-20 anni il digitale e la guerra in corso ha accelerato di almeno una decina di anni la trasformazione energetica.
Ma si continua a spiegare che il problema dell’umanità è la sovrappopolazione e la non tutela dell’ambiente. Che devo dire? Non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire.
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