L’Istat certifica che si è esaurita la spinta demografica impressa da chi è arrivato da fuori. Così, il welfare è destinato a diventare insostenibile. Noi dovremmo riorganizzare gli ingressi regolari. Ma l’inghippo vero sta nel gigantesco flop economico targato Europa.L’anno scorso ogni 1.000 abitanti è nato solo un bimbo. Ne sono venuti alla luce 13.000 in meno del 2022, il che ha fissato l’asticella a soli 394.000. Molto pochi se si pensa che dieci anni fa erano 514.000 e nel 2008 576.000. Purtroppo il dato conferma la preoccupazione. E quindi non è certo una novità. Interessante è un secondo aspetto che emerge sempre dai dati diffusi ieri dall’Istat. Cioè che anche gli immigrati e gli stranieri fanno meno figli. Il tasso di natalità delle donne italiane registrato alla fine del 2023 è 1,14. Quello delle donne straniere è 1,79. Nel 2008 era 2,53, mentre quello delle donne italiane era 1,33. Ovviamente ad alzarsi sensibilmente è l’età media del parto. Nel 2008 per le straniere era 27 anni e 5 mesi, per le italiane era 31 e mezzo. Ora siamo rispettivamente a 29 anni e sette mesi e 33 anni per le italiane. È chiaro che nel frattempo la percentuale di figli nati da matrimoni misti è sensibilmente aumentata, così come è passata da 83,2% a 78,7% la quota di bimbi nati dentro una coppia di italiani. E i figli di soli stranieri adesso sono il 13,5% rispetto al 12,6 del 2008.Andando oltre i numeri puri si capisce che anche gli stranieri non sono più la spinta demografica che rappresentavano un decennio fa. Politici e sindacalisti sono intervenuti. «I dati Istat», ha commentato Luigi Sbarra, segretario Cisl, «raccontano la minaccia futura alla sostenibilità del welfare». Gli allarmi però non bastano. Si tratta di uno schema complesso di problemi che si somma al problema generale che tocca non solo l’Italia, ma l’intera Europa. Appare lampante il circolo vizioso che si forma tra il crollo della natalità, la gestione dei flussi migratori e la capacità delle imprese di aumentare la produttività sostenendo gli stipendi e di conseguenza le future pensioni. Prendere i dati dell’Istat e spacchettarli aiuta a comprendere che il modello di immigrazione libera che è stato imposto negli ultimi anni non contribuisce a sostenere il calo della natalità. Chi arriva e, spesso con difficoltà, si integra, non basta a tenere a galla dati equilibrati tra la mortalità e la natalità. Ciò significa due cose. La prima è che si può e si deve continuare a valutare i flussi regolari di lavoratori con specializzazioni di base purché lo si sostenga con un modello di welfare. Cioè fare arrivare stranieri accompagnati dalle famiglie o giovani coppie che desiderino creare famiglia attorno a poli produttivi, o quelli che in Italia chiamano distretti produttivi. Magari, come ha sostenuto l’attuale presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, offrendo in sostegno progetti di edilizia agevolata. La seconda cosa che si desume è che i flussi irregolari di maschi che arrivano per meri motivi economici hanno un duplice effetto negativo sulla nostra società. Non solo non sostengono il welfare né tanto meno la natalità, come abbiamo scritto più volte, ma contribuiscono a rendere più pericolosa e insicura anche la società. Le statistiche sui reati sono chiare e solo la sinistra mira a strumentalizzare i dati al contrario. Tutto ciò contribuisce indirettamente a un calo della ricchezza e anche a una fuga di personale iper specializzato che punta a Paesi più ricchi e sicuri. Per uscire dal circolo vizioso denatalità-calo del welfare bisognerebbe prima o poi affrontare il tema della produttività in modo serio e definitivo. E ciò indipendentemente dai flussi migratori e dal numero di famiglie straniere presenti in Italia in modo stabile.Il tema è assai complesso e tocca tutto il Vecchio continente. È a Bruxelles che bisognerebbe far presente di cambiare gran parte delle logiche di strategia economica. L’Ue, infatti, negli ultimi 20 anni è riuscita a combinare alti livelli di sviluppo umano con una disuguaglianza relativamente bassa, creando un mercato unico di 440 milioni di consumatori e 23 milioni di aziende che insieme rappresentano circa il 17% del Pil globale. Si tratta di una struttura economica sostenuta da politiche progressiste, un elevato livello di istruzione e forti standard sanitari. Tolta la patina politica però vediamo che il divario tra il Pil Ue e quello Usa è aumentato dal 12% del 2002 al 30% del 2022 e, stando ai valori diffusi ieri in ambito G7 Industria, quasi il 35% nel 2023. Il gap di produttività spiega circa il 70% della stagnazione che stiamo vivendo. Tra il 2000 e il 2019, il commercio internazionale come quota del Pil è aumentato dal 30% al 43% nell’Ue, superando gli Stati Uniti, dove la quota del commercio sul Pil è aumentata solo marginalmente. Questa apertura ha consentito all’Europa di mantenere un vantaggio competitivo in un’economia pienamente globalizzata. Il problema è che il sistema commerciale multilaterale è passato attraverso una crisi profonda e ora è «kaputt». Ci troviamo con un prezzo complessivo dell’energia che è circa quattro volte più alto rispetto a quello dei competitor americani e cinesi. Non solo, lo scorso anno le aziende Ue hanno investito in ricerca e sviluppo 270 miliardi in meno rispetto alle cugine a stelle e strisce. Oggi non abbiamo il controllo delle materie prime, l’industria automotive è spiaggiata. La transizione green ha reso ancora più debole il Vecchio continente, tecnologicamente schiacciato tra Usa e Cina. Un grande puzzle che, se non verrà ricomposto, non risucirà a far tornare agli europei la voglia di fare figli.
Agostino Ghiglia e Sigfrido Ranucci (Imagoeconomica)
Il premier risponde a Schlein e Conte che chiedono l’azzeramento dell’Autorità per la privacy dopo le ingerenze in un servizio di «Report»: «Membri eletti durante il governo giallorosso». Donzelli: «Favorevoli a sciogliere i collegi nominati dalla sinistra».
Il no della Rai alla richiesta del Garante della privacy di fermare il servizio di Report sull’istruttoria portata avanti dall’Autorità nei confronti di Meta, relativa agli smart glass, nel quale la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci punta il dito su un incontro, risalente a ottobre 2024, tra il componente del collegio del Garante Agostino Ghiglia e il responsabile istituzionale di Meta in Italia prima della decisione del Garante su una multa da 44 milioni di euro, ha scatenato una tempesta politica con le opposizioni che chiedono l’azzeramento dell’intero collegio.
Il sindaco di Milano Giuseppe Sala (Imagoeconomica)
La direttiva Ue consente di sforare 18 volte i limiti: le misure di Sala non servono.
Quarantaquattro giorni di aria tossica dall’inizio dell’anno. È il nuovo bilancio dell’emergenza smog nel capoluogo lombardo: un numero che mostra come la città sia quasi arrivata, già a novembre, ai livelli di tutto il 2024, quando i giorni di superamento del limite di legge per le polveri sottili erano stati 68 in totale. Se il trend dovesse proseguire, Milano chiuderebbe l’anno con un bilancio peggiore rispetto al precedente. La media delle concentrazioni di Pm10 - le particelle più pericolose per la salute - è passata da 29 a 30 microgrammi per metro cubo d’aria, confermando un’inversione di tendenza dopo anni di lento calo.
Bill Gates (Ansa)
Solo pochi fanatici si ostinano a sostenere le strategie che ci hanno impoverito senza risultati sull’ambiente. Però le politiche green restano. E gli 838 milioni versati dall’Italia nel 2023 sono diventati 3,5 miliardi nel 2024.
A segnare il cambiamento di rotta, qualche giorno fa, è stato Bill Gates, niente meno. In vista della Cop30, il grande meeting internazionale sul clima, ha presentato un memorandum che suggerisce - se non un ridimensionamento di tutto il discorso green - almeno un cambio di strategia. «Il cambiamento climatico è un problema serio, ma non segnerà la fine della civiltà», ha detto Gates. «L’innovazione scientifica lo arginerà, ed è giunto il momento di una svolta strategica nella lotta globale al cambiamento climatico: dal limitare l’aumento delle temperature alla lotta alla povertà e alla prevenzione delle malattie». L’uscita ha prodotto una serie di reazioni irritate soprattutto fra i sostenitori dell’Apocalisse verde, però ha anche in qualche modo liberato tutti coloro che mal sopportavano i fanatismi sul riscaldamento globale ma non avevano il fegato di ammetterlo. Uscito allo scoperto Gates, ora tutti possono finalmente ammettere che il modo in cui si è discusso e soprattutto si è agito riguardo alla «crisi climatica» è sbagliato e dannoso.
Elly Schlein (Ansa)
Avete presente Massimo D’Alema quando confessò di voler vedere Silvio Berlusconi chiedere l’elemosina in via del Corso? Non era solo desiderare che fosse ridotto sul lastrico un avversario politico, ma c’era anche l’avversione nei confronti di chi aveva fatto i soldi.
Beh, in un trentennio sono cambia ti i protagonisti, ma la sinistra non è cambiata e continua a odiare la ricchezza che non sia la propria. Così adesso, sepolto il Cavaliere, se la prende con il ceto medio, i nuovi ricchi, a cui sogna di togliere gli sgravi decisi dal governo Meloni. Da anni si parla dell’appiattimento reddituale di quella che un tempo era la classe intermedia, ma è bastato che l’esecutivo parlasse di concedere aiuti a chi guadagna 50.000 euro lordi l’anno perché dal Pd alla Cgil alzassero le barricate. E dire che poche settimane fa la pubblicazione di un’analisi delle denunce dei redditi aveva portato a conclusioni a dir poco sor prendenti. Dei 42,6 milioni di dichiaranti, 31 milioni si fanno carico del 23,13 dell’Irpef, mentre gli altri 11,6 milioni pagano il resto, ovvero il 76,87 per cento.
In sintesi, il 43 per cento degli italiani non paga l’imposta, mentre chi guadagna più di 60.000 euro lordi l’anno paga per due. Di fronte a questi numeri qualsiasi persona di buon senso capirebbe che è necessario alleggerire la pressione fiscale sul ceto medio, evitando di tartassarlo. Qualsiasi, ma non i vertici della sinistra. Pd, Avs e Cgil dunque si agitano compatti contro gli sgravi previsti dal la finanziaria, sostenendo che il taglio dell’Irpef è un regalo ai più ricchi. Premesso che per i redditi alti, cioè quello 0,2 per cento che in Italia dichiara più di 200.000 euro lordi l’anno, non ci sarà alcun vantaggio, gli altri, quelli che non sono in bolletta e guadagnano più di 2.000 euro netti al mese, pare davvero difficile considerarli ricchi. Certo, non so no ridotti alla canna del gas, ma nelle città (e quasi sempre le persone con maggiori entrate vivono nei capoluoghi) si fa fatica ad arrivare a fine mese con uno stipendio che per metà e forse più se ne va per l’affitto. Negli ultimi anni le finanziarie del governo Meloni hanno favorito le fasce di reddito basse e medie. Ora è la volta di chi guadagna un po’di più, ma non molto di più, e che ha visto in questi anni il proprio potere d’acquisto eroso dall’inflazione. Ma a sinistra non se la prendono solo con i redditi oltre i 50.000 euro. Vogliono anche colpire il patrimonio e così rispolverano una tassa che punisca le grandi ricchezze e le proprietà immobiliari. Premesso che le due cose non vanno di pari passo: si può anche possedere un appartamento del valore di un paio di milioni ma, avendolo ereditato dai geni tori, non avere i soldi per ristrutturarlo e dunque nemmeno per pagare ogni anno una tassa.
Dunque, possedere un alloggio in centro, dove si vive, non sempre è indice di patrimonio da ricchi. E poi chi ha una seconda casa paga già u n’imposta sul valore immobiliare detenuto ed è l’I mu, che nel 2024 ha consentito allo Stato di incassare l’astronomica cifra di 17 miliardi di euro, il livello più alto raggiunto negli ultimi cinque anni. Milionari e miliardari, quelli veri e non immaginati dai compagni, certo non hanno il problema di pagare una tassa sui palazzi che possiedono, ma non hanno neppure alcuna difficoltà a ingaggiare i migliori fiscali sti per sottrarsi alle pretese del fisco e, nel caso in cui neppure i professionisti sia no in grado di metterli al riparo dall’Agenzia delle entrate, possono sempre traslocare, spostando i propri soldi altrove. Come è noto, la finanza non ha confini e l’apertura dei mercati consente di portare le proprie attività dove è più conveniente. Quando proprio il Pd, all’e poca guidato da Matteo Renzi, decise di introdurre una flat tax per i Paperoni stranieri, migliaia di nababbi presero la residenza da noi. E se domani l’imposta venisse abolita probabilmente andrebbero altrove, seguiti quasi certamente dai ricconi italiani. Del resto, la Svizzera è vicina e, come insegna Carlo De Benedetti, è sempre pronta ad accogliere chi emigra con le tasche piene di soldi. Inoltre uno studio ha recentemente documentato che l’introduzione negli Usa di una patrimoniale per ogni dollaro incassato farebbe calare il Pil di 1 euro e 20 centesimi, con una perdita secca del 20 per cento. Risultato, la nuova lotta di classe di Elly Schlein e compagni rischia di colpire solo il ceto medio, cancellando gli sgravi fiscali e inasprendo le imposte patrimoniali. Quando Mario Monti, con al fianco la professoressa dalla lacrima facile, fece i compiti a casa per conto di Sarkozy e Merkel , l’Italia entrò in de pressione, ma oggi una patrimoniale potrebbe essere il colpo di grazia.
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