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Parla il professor Francesco Vaia e smonta la campagna ansiogena sul monkeypox. E fornisce qualche indicazione anche sulla commissione covid.
Parla il professor Francesco Vaia e smonta la campagna ansiogena sul monkeypox. E fornisce qualche indicazione anche sulla commissione covid.
Francesco Vaia, attuale direttore generale dell’ospedale romano Inmi Spallanzani, non era il candidato ideale. Quantomeno guardando alle valutazioni formali della commissione interna alla Regione Lazio istituita per esaminare i candidati che, secondo il quotidiano La Repubblica, avrebbe ritenuto Vaia «mediamente orientato ai contenuti delle aree sondate».
Eppure, quando la commissione Sanità del Consiglio regionale del Lazio ha ratificato la nomina proposta dalla giunta guidata da Nicola Zingaretti, l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato, ha speso parole di apprezzamento e ringraziamento sulla gestione della pandemia da parte dello Spallanzani, di cui Vaia era diventato direttore sanitario nel gennaio 2020, a pochi giorni della scoperta, proprio nell’ospedale romano, del primo caso di Covid in Italia. Una scelta anche questa finita nel vortice delle polemiche, visto che all’epoca della nomina Vaia aveva 67 anni, un’età che sulla carta non avrebbe permesso di affidargli l’incarico. Infatti, fino a pochi mesi fa, quando un emendamento di Italia Viva inserito in un provvedimento sull’emergenza sanitaria ha alzato il tetto a 68 anni, i 65 anni erano il limite per ottenere certi incarichi. Secondo il quotidiano romano, dopo l’arrivo di Vaia allo Spallanzani, anche la Guardia di finanza avrebbe fatto approfondimenti sulla nomina, rilevando una serie di anomalie rispetto a quanto previsto dalla normativa. E adesso, nei corridoi della Regione Lazio si vocifera di possibili ricorsi al Tar da parte di altri candidati esclusi, che avrebbero già fatto richiesta di accesso agli atti. Al netto della procedura di nomina a dg, la scelta di Zingaretti e D’Amato di puntare tutto su Vaia è per molti un mistero. L’assessore alla Sanità infatti per anni è stato un feroce oppositore del medico che ha gestito la pandemia nel Lazio, al quale aveva dedicato perfino un pamphlet di denuncia, che prendeva spunto dallo scandalo legato a ipotesi di corruzione nella sanità che travolse nei primi anni 2000 la giunta regionale guidata da Francesco Storace. All’inizio di luglio del 2006 i carabinieri si presentarono a casa di Vaia con un’ordinanza di custodia cautelare. Ma il medico-manager non c’era. Si costituì il 24 luglio, e poche settimane dopo il tribunale del riesame lo mise agli arresti domiciliari.
Nell’ordinanza del gip Luisanna Figliolia erano evidenziati i precedenti del neo pupillo di Zingaretti e D’Amato: «Particolare allarme sociale desta la situazione afferente al Vaia. Lo stesso risulta pluricondannato a una pena complessiva di anni uno e mesi sette di reclusione, e a lire 1.200.000 di multa, per associazione per delinquere, reato commesso in Napoli dal 1991 al 1993 […], nonché per vari e numerosi reati di corruzione e per atti contrari ai doveri d’ufficio», che però, in virtù di un provvedimento di estinzione del reato del 2014, non possono essere formalmente di ostacolo alla nomina. Mentre la vicenda giudiziaria laziale si è arenata nelle secche della prescrizione. Resta però l’anomalia di un politico che prima scrive un libro che racconta le malefatte di un manager della sanità e poi, una volta diventato assessore lo sceglie per incarichi di alta responsabilità. Altro mistero del tandem D’Amato-Vaia è la collaborazione dello Spallanzani con l’Istituto Gamaleya, inventore del famigerato vaccino anti Covid «Made in Russia», lo Sputnik V. Quelli che dall’interno del Pd ricordano le dichiarazioni di Matteo Salvini sul vaccino russo infatti dimenticano che a passare dalle parole ai fatti, sia pure a livello di scambio scientifico e non di sperimentazione, è stato solo lo Spallanzani. Una collaborazione che risulta essere stata proposta all’ospedale romano dai russi. Dopo lo scoppio del conflitto ucraino la collaborazione si è interrotta, ed è emerso il timore che i ricercatori russi venuti a Roma avessero avuto accesso ai dati sanitari dei pazienti, a quelli dei 120 ceppi di virus isolati e a quelli degli altri vaccini. Ipotesi però seccamente smentite sia da Vaia che dal direttore scientifico dello Spallanzani, Enrico Girardi.
C’è da dire che, dopo un’esercitazione lunga due anni, l’arrivo del vaiolo delle scimmie («Monkeypox») non sta suscitando eccessivo allarme tra gli italiani. Al contrario, l’atteggiamento più diffuso è un sarcastico scetticismo. Di tutte le virostar apprezzate nel corso della pandemia, il più solerte nel cavalcare l’onda è Matteo Bassetti, primario del reparto di malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova. Venerdì mattina pubblicava una suggestiva fotogallery di pustole (che, come spiega Anna Palamara dell’Iss, «compaiono prima sulle mani, poi sui genitali») causate dal vaiolo delle scimmie. Venerdì notte annunciava allarmato che nel giro di 24 ore i casi erano «quintuplicati nel mondo»: in totale 175, di cui 3 in Italia e 2 in Olanda (ma soltanto sei ore prima aveva parlato di «centinaia di casi in Olanda»). Né si è fatto sfuggire l’occasione per segnalare «le somiglianze col Covid» e sollecitare di «mettersi al sicuro» da questo vaiolo, perché «a giorni avremo migliaia di casi in tutta Europa»: gli insulti sul suo account, a centinaia, sono arrivati in una manciata di secondi.
Dal punto di vista della comunicazione, insomma, la popolazione ha imparato a memoria il registro narrativo Covid e comincia a tirar fuori gli anticorpi, con buona pace di chi avrebbe voluto, allora come oggi, un’informazione davvero rispettosa della scienza, attendibile ed equilibrata. Non bastano le difese naturali, però, a impedire a figure come Antonella Viola, direttrice scientifica dell’Istituto di ricerca pediatrica Città della Speranza, di esporre la sua teoria esplosiva sulle colonne de La Stampa di ieri: «Gran parte delle persone non è vaccinata (il vaccino contro il vaiolo, infatti, non è più obbligatorio dal 1981, ndr) e quindi non è protetta». «Questo calo dell’immunità di comunità», ha spiegato Viola, «può aver lasciato spazio ad un virus che finora si era riusciti a tenere sotto controllo».
E dunque, come si può continuare a tenere sotto controllo? Con un’altra vaccinazione di massa? A sentire le indicazioni dell’Ecdc (Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie), non necessariamente: il Centro ha infatti circoscritto la trasmissione del virus all’interno della comunità gay, ribattezzata Msm («men who have sex with men»). Un’indicazione scientifica che alle orecchie di qualcuno è risuonata come uno stigma: «Ci sentiamo discriminati ed è folle additare gli omosessuali», è insorto il portavoce del Partito gay, Fabrizio Marrazzo, prontamente rintuzzato dal capo della cabina di regia del fu Cts, l’epidemiologo Donato Greco. «Non capisco questa diffidenza nel parlare delle modalità di contagio: nessuno stigma, ma la scienza deve essere chiara», ha dichiarato Greco. Secondo quanto scritto nel report dell’Ecdc, il contagio nella maggior parte dei casi è per via sessuale anale. «Ed è inutile dire che non lo sia», sostiene Greco, «non vedo perché non chiarirlo, se parlassimo di gonorrea quale sarebbe il problema? Stiamo attenti alle discriminazioni, ma dal punto di vista scientifico bisogna parlare e spiegare chiaramente le cose per non generare inutili allarmismi».
Discriminazioni in ambito di salute pubblica rilevate, va detto, a giorni alterni. La comunità Lgbtq, infatti, aveva parlato di «discriminazioni» anche lo scorso anno, quando fu annunciato l’obbligo di green pass per chi lavorava. Afflato di solidarietà nei confronti della comunità dei non vaccinati? Macché. La protesta era stata espressa soltanto riguardo alla «criticità» tecnica del green pass, rappresentata dalla violazione della privacy nell’indicare nome e cognome sul certificato verde, rivelatore dell’identità sessuale e dunque «a rischio bullismo». Nessun accenno alla perdita del posto di lavoro subìto da centinaia di migliaia di cittadini italiani, né all’esclusione dello sport e dei trasporti pubblici sopportato per mesi da centinaia di migliaia di ragazzini, giovani e adulti.
Il rischio cortocircuito comunicativo, a questo punto, è completo. Secondo Antonella Viola, «il virus del vaiolo delle scimmie rappresenta un reale problema per la salute pubblica e le misure di contenimento vanno prese prima che sia troppo tardi». L’allarme lanciato da Viola è stato subito ridimensionato dal professor Francesco Vaia: «Questa non è una nuova malattia e non deve destare allarme», ha dichiarato il direttore generale dell’Ospedale Spallanzani di Roma, «è un vaiolo minore, ha una sintomatologia più lieve del vaiolo tradizionale. Assolutamente no allarme, ma grande attenzione».
Dichiarazione rassicurante, sì, ma pur sempre una goccia rispetto all’oceano allarmista, scatenato dallo stesso presidente Draghi già lo scorso 18 marzo, con l’annuncio previdente che «un’altra pandemia potrebbe rivelarsi importante anche tra qualche tempo». E infatti grazie alla previdenza del presidente del Consiglio l’infrastruttura è stata tenuta in piedi, pronta per immediata riattivazione.
Qualunque sia la natura, la portata e le conseguenze del vaiolo delle scimmie, è evidente che le modalità di comunicazione, subito condivise da scienza e istituzioni, servono a portare acqua alla gestione anti Covid e a un futuro di «profilassi preventiva» spalmata su tutti, in sostituzione delle tradizionali cure su misura (e alla bisogna). L’obiettivo è sempre lo stesso, tenere alta l’allerta. L’unica via d’uscita è soltanto l’immunità naturale, ma all’antiscienza, che gli italiani si sono guadagnati sul campo: l’«operazione simpatia» del nonno d’Italia, in visita senza mascherina a una scuola di bambini con mascherina, criticata massicciamente dagli italiani su tutti i social, ne è la rappresentazione più virale, e felice.
«I bollettini quotidiani andrebbero aboliti e nel mio Istituto l’ho fatto: rischiano, così come sono ora, di creare solo disorientamento e spavento nei cittadini». Francesco Vaia, direttore del polo d’eccellenza romano Lazzaro Spallanzani, non si presta alla guerra dei numeri: «I dati vanno raccolti, ma poi vanno analizzati e, soprattutto, va analizzato l’andamento del periodo: ha molto più senso in questa fase».
Una fase in cui, professor Vaia, è corsa ai tamponi, soprattutto per le scuole.
«Il “tamponificio” che si è creato nell’ultimo periodo è assolutamente da evitare. Allo Spallanzani abbiamo infatti proposto di rivedere le norme in materia di quarantena e di isolamento, consentendo, ad esempio, ai cittadini contagiati asintomatici di interrompere l’isolamento dopo 5 giorni, anche in assenza di test. Così come accade negli Stati Uniti».
Cos’altro cambierebbe?
«Abbiamo anche proposto di ridurre a 5 giorni la quarantena per chi non è vaccinato o è vaccinato da oltre 120 giorni. E di consentire agli asintomatici l’interruzione della stessa anche senza test. Si tratta di essere coerenti: se il vaccino funziona, allora dobbiamo permetterci sempre maggiori spazi di socialità ed evitare di bloccare il Paese».
Non si rischia, però, di non uscirne più?
«Dobbiamo tornare a dare priorità alla clinica e in definitiva alla scienza. I Cdc americani ed europei, ovvero i centri per il controllo e la prevenzione della malattie, spiegano che la persona contagiata è a sua volta contagiosa due giorni prima della sintomatologia e tre giorni dopo. Dobbiamo mantenere in vigore soltanto le misure in grado di limitare realmente l’impatto sulla salute della popolazione e sul sistema sanitario e i cittadini in questo devono essere responsabilizzati».
Siamo davvero in grado di essere responsabili?
«I cittadini sono molto più adulti e responsabili di quanto qualcuno immagina. E occorre siano nostri alleati, alleati della scienza per combattere e vincere la pandemia: se ci stiamo riuscendo molto è merito loro. Ricordiamoci che siamo tra i Paesi nel mondo con i più alti tassi di vaccinazione. Un segno concreto di maturità, direi».
Anche per gli altri andrebbe ridotto l’isolamento?
«Le misure vanno mitigate e mi risulta che il governo ci stia pensando. Sono fiducioso».
La percezione sulle scuole è di caos. Tra Dad e quarantene, Regioni e famiglie sono in affanno. Cosa proporrebbe?
«La didattica a distanza non è la soluzione, così come dicono operatori scolastici e genitori. Sta provocando gravi guasti sul piano psicologico nei giovani e creando problemi enormi alle famiglie, soprattutto alle donne che ne portano il maggior carico. Non si capisce perché ai bambini e ai ragazzi debba essere vietato di andare a scuola in presenza, salvo poi dare loro la possibilità di vedersi per tutte le attività ricreative. La soluzione per la scuola deve essere strutturale: servono investimenti per aumentare le risorse a disposizione».
Ad esempio?
«Il ricambio d’aria non può avvenire con la semplice apertura delle finestre, magari in pieno inverno, ma si dovrebbero sfruttare impianti di aerazione efficienti, come la ventilazione meccanica, tre volte più efficace come protezione delle mascherine, anche Ffp2. Per non parlare dei mezzi pubblici: scuola e trasporti sono un binomio inscindibile e si deve agire su entrambi per garantire ai nostri figli e nipoti una quotidianità vissuta in sicurezza rispetto alla circolazione del virus. Oltre al proseguimento del loro percorso di crescita, troppe volte ahimè accidentato, se non ostacolato».
Torno sui bollettini, professore. Qualcosa sembra non tornare sui numeri.
«Sui pazienti positivi ricoverati per altre patologie si potrà e dovrà fare chiarezza, soprattutto nel computo generale. Dobbiamo, però, prestare attenzione a non sottovalutare il carico che i positivi hanno di per sé sul sistema: richiedono percorsi e personale dedicati, ambienti con particolari peculiarità tipiche delle strutture che accolgono pazienti infettivi, penso ad esempio a camere con pressione negativa. Altrimenti rischiamo di ripetere esperienze gestionali, anche del recente passato, che hanno, ahimè, determinato gravi lutti».
Qual è oggi la situazione allo Spallanzani?
«Nel nostro Istituto i ricoveri sono stabili da un po’ di tempo, almeno quattro settimane. Sono ricoverati prevalentemente pazienti non vaccinati o che hanno completato il loro ciclo vaccinale primario da più di 120 giorni. E questo a dimostrazione dell’importanza della terza dose».
Le terapie intensive seguono questa differenza?
«Sì, la differenza tra non vaccinati o vaccinati con ciclo incompleto e pazienti vaccinati con dose booster si evidenzia in modo molto significativo nelle terapie intensive: 97% contro appena 3%. I pazienti che hanno ricevuto la terza dose e che comunque sono ricoverati, sia in ricovero ordinario sia in rianimazione, sono quasi sempre soggetti fragili e/o anziani con patologie concomitanti o le cui patologie di base hanno determinato una minore copertura da parte del vaccino».
Gli ospedali reggono? Reggeranno?
«La tenuta degli ospedali italiani è complessivamente buona. Potrebbe certo essere migliore se i ricoveri dei pazienti Covid fossero eseguiti con maggiore appropriatezza e se si riuscisse a potenziare l’offerta assistenziale domiciliare».
Curarsi da casa, quindi?
«Il Covid 19 oggi, come l’influenza ieri, ha svelato antiche difficoltà del nostro sistema sanitario, troppo ospedalocentrico e così poco attrezzato e performante sul territorio, abbandonato da troppo tempo. Se riuscissimo ad attuare un reale potenziamento della domiciliarità, portando a casa delle persone terapie innovative e diagnostica performante, istituendo ed enfatizzando il ruolo del “nuovo operatore sanitario del territorio”, non avremmo più motivo di parlare di ospedali sotto pressione, ma di una virtuosa integrazione. Si può, anzi si deve fare. O non avremo percepito da questa pandemia uno dei segni più importanti da cogliere per uscirne migliori. Allo Spallanzani, da varie settimane ormai, il paziente che curiamo ha più un identikit da ambulatoriale che da reparto, segno che una diversa gestione è possibile».
I contagi intanto sembrano fuori controllo. Cosa prevede?
«L’andamento di questi giorni lascia già intravedere un miglioramento: già da febbraio, potremmo assistere ad una diminuzione significativa dei contagi. Così come è avvenuto in altre nazioni dove si è sviluppato prima - Sudafrica ad esempio -, dovremmo assistere a una decrescita abbastanza veloce. Ma è importante non perdere di vista l’obiettivo e continuare sulla strada della vaccinazione. Magari con vaccini e terapie aggiornati alle varianti che si sono determinate, non più il vaccino nato dal virus di Wuhan».
Davvero entro il 2022 tutti saranno raggiunti dalla Omicron, come ha previsto il sottosegretario Sileri? Non c’è scampo?
«Non amo le previsioni. Cerco di attenermi agli studi pubblicati e alle evidenze epidemiologiche. È possibile che l’alta contagiosità del virus determini un aumento significativo della prevalenza, come peraltro sta già avvenendo, ma guai a creare perniciosi allarmismi, di cui proprio non si avverte l’esigenza, anzi».
Concorda sul fatto che il problema del Paese sono i non vaccinati, così come detto da Mario Draghi?
«Evitiamo di mutuare anche in questa pandemia un vezzo molto italico di dividerci sempre in schieramenti, di definirci guelfi e ghibellini, anti e pro, in questo caso vaxisti e antivaxisti. Non è di questo che abbiamo bisogno, ma di equilibrio, sobrietà e capacità di convincimento, soprattutto con la testimonianza personale».
Una divisione che nei fatti però già c’è, e molto netta.
«Fatta eccezione per chi sposa tesi ideologiche e irremovibili - penso a chi ancora è terrapiattista -, molte persone sono di fatto spaventate e disorientate. Hanno ricevuto informazioni non univoche in tutto questo tempo, hanno avuto indicazioni in un verso e nel contrario, una comunicazione inefficace e nociva. Soprattutto nella prima fase della vaccinazione abbiamo pagato un caro prezzo rispetto alla fiducia nello strumento vaccino, rischiando di buttare il bambino con l’acqua sporca. Non voglio fare difese a priori, ma a queste persone bisogna parlare con gli argomenti dell’onestà e della chiarezza. Il vaccino è una tutela, per sé stessi e per tutti».
Intanto la ricerca prosegue.
«Allo Spallanzani nell’ultimo anno abbiamo cercato di potenziare in primo luogo la ricerca sulle terapia, avviando ad esempio studi sugli anticorpi monoclonali che prevengono l’aggravamento di Covid 19. Abbiamo anche studiato l’effetto dei vaccini in particolare nelle popolazioni fragili e negli immunodepressi, dimostrando che la terza dose è efficace in molte di queste persone. E abbiamo avviato collaborazioni internazionali per contribuire a nuovi e più efficaci vaccini. Stiamo anche puntando molto sul rinnovamento dei dirigenti e sull’assunzione entro il prossimo anno di tanti di giovani da impiegare nelle attività di ricerca: il mondo della ricerca ha bisogno del loro entusiasmo, freschezza e preparazione».
«Per iniziare bene, le faccio sentire questa». Francesco Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani di Roma, fa partire il brano Let her go, di Passenger.
Professore, la musica allevia il tedio della zona rossa, eh...
«Sì, ci vuole proprio».
Come vanno le sperimentazioni su Sputnik V? Funziona?
«Gli studi dobbiamo ancora cominciarli. Per ora, abbiamo un articolo di The Lancet, da cui emerge che l'efficacia del vaccino è del 91,7%. Ovviamente, ci sono tanti aspetti da approfondire».
Insieme al Sacco di Milano e ai russi del Centro Gamaleya?
«Siamo entrati in contatto con loro per vie diplomatiche: l'ambasciata russa in Italia e l'ambasciata italiana in Russia».
E poi?
«I colleghi russi sono disponibilissimi a scambiare i dati e il materiale biologico».
Per farci cosa?
«Per verificare se Sputnik è in grado di produrre anticorpi neutralizzanti efficaci sulle varianti, che qui noi abbiamo isolato».
Quando partite?
«La settimana prossima dovrebbe esserci la firma del memorandum, poi i colleghi russi dovrebbero venire in visita per interfacciarsi con la nostra equipe. E mi faccia chiarire una cosa».
Ovvero?
«La scienza è assolutamente neutra. Si fonda su due principi».
Quali?
«Primo: il dubbio. Dobbiamo ricercare, ricercare, ricercare. Secondo: l'assoluta impermeabilità ai fattori economici e alla geopolitica. Noi dobbiamo verificare se il vaccino funziona ed è sicuro. Non ci interessa in che Paese sia stato ideato».
Non è che i pregiudizi politici ostacoleranno l'approvazione di Sputnik da parte dei regolatori?
«Mi auguro che gli enti regolatori facciano per intero il loro dovere, senza pregiudizi».
La Campania ha un accordo per acquistare il vaccino. San Marino l'ha già utilizzato.
«La Repubblica di San Marino ci ha anche chiamati per uno studio sulla popolazione immunizzata».
Lì è andata bene, no?
«Pare proprio di sì. Ma ovviamente bisogna verificare sul campo. Sottolineerei un'altra cosa».
Prego.
«Quando abbiamo fatto la call, in cui erano presenti gli ambasciatori, eravamo collegati anche con il professor Massimo Galli del Sacco, che contribuirà allo studio».
E quindi?
«Ciò dimostra che lo Spallanzani non vuole fare il primo della classe e, anzi, cerca di coinvolgere l'intera comunità scientifica nazionale. È un bel segnale: gli scienziati italiani lavorano uniti».
Senta, ma i vaccini che stiamo somministrando la bloccano o no, la trasmissione del virus?
«Nei Paesi, come Israele e Inghilterra, in cui la campagna di vaccinazione è in fase molto avanzata, la contagiosità si è quasi annullata».
Oh, una buona notizia.
«E nei pochi casi in cui i vaccinati sono risultati positivi, erano quasi sempre asintomatici».
Per cui, quei positivi asintomatici, avendo cariche virali basse, erano anche poco infettivi?
«Quando la carica virale è bassa, certamente. Anche il Cdc americano ha riconosciuto che i vaccinati, se stanno tra loro, non hanno bisogno di mascherine».
Volevo arrivare proprio qui.
«In una situazione ideale, in cui siamo tutti vaccinati, ci possiamo liberare da questa schiavitù».
Altrimenti?
«In una comunità, in cui non so se le altre persone sono o non sono vaccinate, è prudente mantenere le mascherine».
Ma allora, quando potremo togliercele?
«Io mi auguro che la campagna di vaccinazioni avanzi a un punto tale che non avremo più bisogno di proteggerci gli uni dagli altri».
Alcuni medici, ad esempio, il dottor Pietro Garavelli di Novara, dicono che durante una pandemia non bisognerebbe vaccinare, perché così si finisce per selezionare la varianti del virus più aggressive e letali. Che ne pensa?
«Io sono abituato a leggere lavori scientifici pubblicati su riviste prestigiose. E alla luce di questi studi, credo che l'ipotesi non sia verosimile. I colleghi fanno bene a formulare nuove ipotesi, purché non le lancino in maniera assertiva».
Ma quanto dura la protezione garantita dai vaccini? Perché se, a un certo punto, dovremo rimetterci a vaccinare chi l'ha persa e, nel frattempo, somministrare immunizzanti specifici per le varianti, rischiamo di non uscirne più, no?
«Io l'ho già detto una volta: basta utilizzare le varianti come clave».
Si spieghi.
«Intanto, il vaccino praticamente annulla la mortalità, che è il nostro obiettivo primario».
E allora?
«Le varianti saranno una costante. Ma i vaccini tendenzialmente offrono una qualche copertura. E soprattutto, noi, queste varianti, non le dobbiamo inseguire».
Che dobbiamo fare?
«Dobbiamo mettere su una task force poderosa - e noi dello Spallazani lo stiamo facendo nel Lazio - per isolarle e sequenziarle, mettendole a disposizione di chi produce i vaccini».
Perché?
«Perché adesso, in brevissimo tempo, il vaccino può essere adeguato alla variante. La soluzione, insomma, è più semplice di quanto si possa credere».
Dice?
«Sono contrario a drammatizzare la questione varianti. Quando, durante l'estate, era spuntata quella spagnola, nessuno si è preoccupato. E pure quella inglese, ormai, la conosciamo».
Sì, ma sabato, Silvio Brusaferro ha detto che l'abolizione della zona gialla ad aprile è necessaria proprio perché ci sono le varianti. Non è che qualcuno potrebbe usarle per tenerci rinchiusi anche a vaccini somministrati, con la scusa che questi non offrono una copertura ottimale?
«Mi pare di averle risposto. No a mezzi di distrazione di massa: il nostro obiettivo primario è vaccinare la popolazione. Le varianti, poi, non possono essere una scusa per chiudere».
Questo è importante.
«Ci possono essere dei momenti in cui chiudi, perché circola una variante che ti preoccupa. Ma il vero problema, poi, è cosa fai nei 15 giorni di chiusura».
In che senso?
«In quel periodo devi lavorare dalla mattina alla sera per studiare, isolare e sequenziare il ceppo e poi sviluppare il vaccino. Se no facciamo come nel gioco dell'oca: torniamo sempre indietro. Le varianti spuntano di continuo. Che facciamo? Non ne usciamo più?».
Allo Spallanzani state somministrando i monoclonali in day hospital?
«Sì. In questo caso, anziché agire sulla profilassi, come con il vaccino, forniamo all'organismo del malato direttamente l'arma per combattere il virus, cioè gli anticorpi sintetizzati in laboratorio».
Come funzionano?
«Vanno somministrati nelle prime fasi della malattia, tre-cinque giorni massimo, alle persone a rischio complicanze. Stiamo usando le due tipologie approvate dall'Aifa: i monoclonali americani Regeneron ed Eli Lilly».
Quelli che ha preso Donald Trump, giusto?
«Esatto. Li stiamo dando a persone scelte tramite un formulario dei pronto soccorso e dei medici di famiglia. Abbiamo 12 postazioni, li somministriamo per via endovenosa per 60 minuti, teniamo i pazienti in osservazione per altri 60 minuti e poi li mandiamo a casa».
Con che risultati?
«Ce ne aspettiamo di ottimi».
Quanti pazienti salverete?
«Abbiamo iniziato martedì scorso. Verifichiamo questa settimana, ma ci attendiamo di salvarne tanti. Gli studi ci dicono che si può ridurre l'ospedalizzazione fino all'85%».
Sì?
«I monoclonali sono un'arma importantissima, che è stata troppo a lungo trascurata».
Come le terapie domiciliari? Insomma, sarebbe possibile superare il protocollo «tachipirina e vigile attesa»?
«Assolutamente sì. La tachipirina non basta. Ci sono terapie innovative già sperimentate in questi mesi, che ovviamente vanno calibrate sui singoli pazienti. Infatti, io, che pure sono il direttore sanitario di un grande istituto, penso che la frontiera della medicina siano i territori. Non solo per il Covid».
Cioè?
«Si ricorre troppo all'ospedalizzazione. Invece dovremmo puntare su quelli che io chiamerei i medici della domiciliarità».
Chi sarebbero?
«Medici che connettono ospedali e territori e hanno la capacità di portare a casa delle persone le terapie più innovative».
Professore, ma quest'estate come sarà?
«Attenzione: il virus non è stagionale. Non muore con il caldo. E non esistono le ondate: il virus è comparso con la coppia cinese, a gennaio 2020, e non se n'è mai più andato».
Ah, ecco.
«Lo dissi già a maggio dell'anno scorso: occhio all'estate, poi alla riapertura delle scuole e ai trasporti. Ora vale lo stesso discorso».
Quindi?
«Io sono forse il medico d'Italia più favorevole alle aperture. E d'estate, il fatto di stare all'aperto offre meno occasioni di contagio. Ma gli spazi di libertà devono essere graduali e premiali: non dobbiamo passare da un eccesso all'altro. Inoltre, la pandemia ci ha insegnato che dobbiamo coltivare stili di vita salutari».
Ad esempio?
«Dobbiamo rivedere i tempi delle città, gli orari di accesso alle scuole e agli uffici, rimettere al centro il tempo libero e lo sport. Togliamo i bambini da davanti a smartphone e tv, facciamoli stare all'aria aperta».
In lockdown è complicato...
«Io, infatti, sono per tornare con calma alla normalità. E spero che i giovani ci diano una mano, autoregolandosi, perché nessuno poi possa puntare il dito su di loro».
Visto che lei è «aperturista», mi dice di che divieto potremmo fare a meno, dato che incide poco sulla circolazione del virus?
«Il coprifuoco. Evoca la guerra. Non mi piace».

