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Grazie ai sussidi di stato la Cina controlla tutta la filiera dell'auto elettrica, a partire dalle materie prime. Ma questo non sembra preoccupare troppo espositori e addetti ai lavori del settore automotive.
Il Salone Mondiale dell'Auto di Parigi (Mondial de l'Auto 2024), si tiene ogni due anni alle porte della capitale francese (Porte de Versailles). L'iniziativa si apre all'insegna dell'innovazione e del progresso con lo slogan "Festeggiamo" ("Let's Celebrate").Più che festeggiare un mercato che stenta a crescere, gli organizzatori sembrano preconizzare i futuri successi di un comparto industriale sul quale incombe la spada di Damocle del gennaio 2035. Data in cui, secondo la normativa imposta dalla Commissione europea, tutte le case automobilistiche dovranno cessare di produrre veicoli a motore termico.Una scommessa rischiosa, in cui il calcolo probabilistico si fonda su due variabili principali: le batterie elettriche, che costituiscono il 50% del costo ancora elevato delle vetture full electric, e i materiali principali con cui queste vengono prodotte, i cui mercati sono attualmente controllati dalla Cina.E per arrivare a tale risultato, con BYD leader di mercato davanti a Tesla, il governo cinese ha investito dal 2009 al 2023 230 miliardi di dollari (fonte studio realizzato dal CSIS Centre d'etudes Internationales et Strategiques).Con una media di sette miliardi l'anno tra il 2009 e il 2017, le sovvenzioni statali cinesi sono passati a 45 miliardi nel 2022 e nel 2023. Di fronte a questi sussidi di stato la Commissione europea ha deciso di applicare dei dazi ai veicoli importati, dazi che si traducono in sovrapprezzi per i modelli distribuiti in Europa. E le cifre raccontano poco di questa scommessa, se si pensa che quest'anno sono stati venduti 18,2 milioni di vetture nuove, contro i 17,8 del 2023. Laddove la porzione di vetture full electric è passata da 13,9% a 12,6%.Cercando di alimentare l'immaginario degli automobilisti di tutto il mondo, il Salone apre mostrando i suoi gioielli più preziosi.Si parte con la concept car Alpine Alpenglow Hy6, vettura alimentata da un motore a idrogeno.Tra le tedesche Audi espone Q6 Sportback e-tron, oltre alla nuova A5 nelle versioni berlina e stationwagon.Presente anche l'altra tedesca, attuale leader di vendite in Europa: la BMW, che espone la gamma Visioin Neue Klasse, una nuova generazione di vetture elettriche tra le quali spicca la iX3, anche questa prodotta come berlina e stationwagon.Legato al marchio di Monaco è quello di Mini, presente anche lui al Salone con la nuova John Cooper Works (JCW). Una menzione particolare per il costruttore statunitense Cadillac, che espone i modelli interamente elettrici Lyriq e Optiq, pensati principalmente per il mercato europeo.Nel settore delle medie Volkswagen presenta il nuovo SUV Tayron, oltre ai nuovi concept ID3 e ID GTI Concept.Renault esce invece con una rivisitazione dei suoi modelli iconici del passato R4 e R5, rispettivamente Renault Fl4wer Power e R5 Electrique. Presente anche la nuova Twingo E-Tech e i nuovi modelli Alpine A290 e A390, realizzati con lo sviluppatore di auto da competizione Alpine.Tra i SUV di maggior successo di vendite, se Dacia espone il suo modello full electric Dacia Bigster, Peugeot presenta le nuove versioni della 3008 e della 5008. Particolare attenzione viene data al marchio cinese BYD, leader di mercato, già distribuita in Italia e presente al Salone con l'ibrida Seal U-OM da 36 mila euro, con la Seal 3.8 e con la nuova versione della Dolphin. La casa di Shenzhen presenta per la prima volta il marchio di vetture di lusso Yangwang, con la top di gamma costituita dal SUV U8, che ha la particolarità di avere quattro motori indipendenti sulle quattro ruote motrici. Sia Dolphin che Seal sono già commercializzate in Italia. L'altro marchio ciese XPeng presenta invece il suo modello di punta la G6, nata nel 2023 come l'alternativa cinese alla Tesla Y. Creata nel 2014, la casa è già da tempo presente in Europa in paesi molto attenti al clima come la Norvegia. Il gruppo è molto solido, ha uno studio di progettazione a Mountain View in California e gli impianti produttivi a Guangzhou. Nel terzo trimestre 2020 XPeng ha venduto 8578 veicoli, realizzando un fatturato di 3.293 miliardi di dollari. La casa espone anche il modello P7, interamente realizzato dall'Intelligenza Artificiale. La G9 viene prodotta in due varianti la RWD da 190 Kw e 440 km di autonomia, e la AWD da 350 Kw e 660 Km di autonomia. Mentre la G6 parte da 42.700 euro, la P7 va sul mercato a 49.990 euro. Tra i costruttori asiatici è presente anche KIA, con il nuovo EV3 a un prezzo base di 33.000 euro. Delle italiane, Alfa Romeo espone in uno degli stand più belli del salone i modelli Junior 280 Veloce, vettura ibrida, e 33 Stradale, versione da strada di una vettura progettata per le competizioni.
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Il presidente e ad di Volvo Car Italia Michele Crisci: «La mancanza di coordinamento è il maggior rischio per le aziende. Serve chiarezza sugli investimenti: dalle infrastrutture di ricarica alle materie prime al riciclo dei materiali».
«Non basta mettere la scadenza del 2035 per lo stop alle vendite di auto endotermiche, ma vanno definiti gli investimenti e i supporti per l’utenza, a cominciare dalle infrastrutture e dalla fiscalità, e per le aziende, validi a livello europeo. Non può essere che ogni mercato si muove in modo autonomo. Sulle elettriche e plug-in va applicata una fiscalità più favorevole». E poi: «Bene uno o più operatori per la produzione in Italia ma il sistema così com’è ora è poco attrattivo, rispetto al resto d’Europa, sia dal punto di vista dei costi, sia per la fiscalità e la burocrazia. Abbiamo imposte, burocrazia e costi sproporzionati rispetto alle offerte che possono fare altri Paesi. Gruppi cinesi si sono affacciati in Italia ma poi vediamo che la scelta è di andare a produrre altrove. Ci sono situazioni che qui sono insuperabili». Michele Crisci, presidente e amministratore delegato di Volvo Car Italia traccia uno scenario dei temi strategici dell’automotive.
Cominciamo dall’ipotesi, al vaglio del ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, di affiancare a Stellantis un nuovo operatore. Come andrebbe gestito l’ingresso di un’altra casa automobilistica?
«Un nuovo o più nuovi operatori per la produzione in Italia sarebbero auspicabili. Ovviamente il sistema Italia ad oggi non è il più “attrattivo” tra le varie opzioni in Europa, sia dal punto di vista dei costi che della fiscalità che della burocrazia. Per attrarre veramente investitori dall’estero si dovranno risolvere questi che agli occhi degli investitori sono problemi irrisolvibili e che fanno preferire all’Italia Paesi come la Turchia, la Spagna o i Paesi dell’ex Jugoslavia».
I gruppi cinesi premono alle porte dell’Europa. La strada da seguire è quella tracciata da Volvo?
«Volvo è un produttore globale e abbiamo fabbriche in tutti i continenti, negli Stati Uniti, in Europa, in Svezia, in Belgio e in Slovacchia, e in Cina. L’idea è quella di produrre dove si vende, in modo di ridurre costi di trasporto ed emissioni relative. La decisione di produrre la nuova EX30, piccolo Suv elettrico, in Europa è stata una decisione presa per questo motivo. Siamo partiti in Cina perché là c’era la piattaforma e i fornitori. La EX30 è però essenzialmente un prodotto per l’Europa e quindi la produzione verrà spostata in Belgio nel 2025».
Il dibattito sulla possibilità di spostare la scadenza del 2035. Volvo è molto avanti nel raggiungimento dei target di decarbonizzazione ma altre case automobilistiche fanno fatica.
«Personalmente ritengo che gli 11 anni che ci separano dal 2035 che, a onor del vero, erano molti di più quando questa data fu fissata, siano comunque sufficienti ad arrivare ad una completa riconversione verso i motori a emissioni zero di CO2. Credo fermamente che il ruolo delle istituzioni sia dettare le linee strategiche all’interno delle quali l’industria e il commercio si debbano muovere. Se la decarbonizzazione è un obiettivo di tutti, tutti i settori sia a livello europeo che globale devono tendere con determinazione a questo obiettivo, e l’automotive è uno di questi».
Gli obiettivi sono sulla carta ma le auto non si vendono.
«Naturalmente non sarà sufficiente settare gli obiettivi, si dovrà infatti definire con chiarezza gli steps intermedi per raggiungerli favorendo tutte le condizioni a livello economico e sociale per il loro raggiungimento. Il che significa, chiarezza negli investimenti richiesti su tutta la catena del valore dell’automotive del futuro, dalle infrastrutture di ricarica e rifornimento, alle materie prime, dalla produzione delle auto alla loro commercializzazione, fino alla loro assistenza e al recupero e riciclo di tutti i materiali. Ecco in questo senso, a mio avviso, vedo il maggior rischio per le aziende, e cioè la mancanza di coordinamento e di strategia nelle norme nei singoli Paesi e in generale in Europa. Le norme infatti dovrebbero essere coordinate a livello di Unione europea e tra l’Ue e i singoli Paesi per velocizzare la riconversione industriale a tutti i livelli appunto della catena del valore dell’automotive, che è enorme a livello di gdp e occupazione sul piano nazionale ed europeo. La mancanza di un piano europeo coordinato e strategico comporterà troppe indecisioni sui mercati e lentezza nella transizione, con conseguenti enormi rischi in termini di occupazione ai quali stiamo già assistendo».
Lei quindi non vede possibile mettere in discussione la scadenza del 2035?
«Il 2035 per la fine della produzione di motori termici è una data legata alla più articolata, totale e globale decarbonizzazione prevista dagli accordi internazionali nel 2050. I 15 anni che separano queste due date furono previsti quali necessari a ripulire e aggiornare per intero il parco circolante in Europa. Spostare in avanti il 2035 significherebbe rivedere anche il 2050 o l’intervallo di tempo che intercorre tra le due date, insomma un processo complicato».
Volvo è stata la prima ad abbracciare il full electric ma poi c’è stata una revisione del programma. Volvo a partire dal 2030 non avrà in gamma solo auto elettriche come annunciato tre anni fa. Cosa ha portato a questa correzione del tiro?
«Grazie allo stato di avanzamento nella produzione e commercializzazione di vetture full electric e ibride plug-in, Volvo ha già raggiunto e superato gli obiettivi di CO2 fissati per ogni singola azienda a livello europeo sia per il 2025 che per il 2026. Ovviamente resta molto alta l’attenzione sullo sviluppo da un punto di vista di assorbimento di mercato di queste tecnologie a livello di regioni europee. Il Nord Europa sta correndo molto velocemente verso il full electric mentre il Sud Europa fa più fatica. Così a livello mondiale stiamo osservando le diverse evoluzioni. Il plug-in è sicuramente un passaggio intermedio verso il full electric ed in questo senso vogliamo accompagnare ancora di più i nostri clienti in questo percorso. Se servirà più tempo lo faremo, da qui il mantenimento ancora di motori ibridi in gamma. Tuttavia, Volvo non cambia la sua strategia che da sempre, e non certo per il 2035, è stata quella di raggiungere la totale sostenibilità delle sue “operations” su scala mondiale. Il totale impegno sulla salvaguardia della vita che sempre ha contraddistinto Volvo è da decadi ormai integrato alla salvaguardia del nostro pianeta intesa come scelta irrinunciabile per la difesa della vita in termini futuri».
La Germania è contraria a ridiscutere le scadenze. Come si spiega questa rigidità nonostante la profonda frenata della sua industria dell’auto?
«Molto spesso si tende a semplificare. Senza contare le diverse narrative dei portatori di interessi opposti che evitano i giusti approfondimenti. La frenata tedesca oggi non è solo causata da una crescita più lenta o da una stagnazione della elettrificazione rispetto alle recenti aspettative ma anche, e soprattutto, alla stagnazione o al calo di alcuni mercati strategici per i marchi tedeschi nella vendita di auto tradizionali termiche e premium, segnatamente la Cina. Per la Germania le vendite di auto in Cina negli ultimi anni hanno rappresentato e rappresentano ancora percentuali importantissime rispetto al totale. Percentuali che potremmo definire irrinunciabili. Credo che posticipare il 2035 significherebbe andare ulteriormente a frenare sulle nuove tecnologie mettendo ancora più a rischio il rientro degli investimenti ingentissimi operati negli ultimi anni in visione di quella data».
Oltre al 2035 c’è una scadenza più ravvicinata che è quella del 2025 quando entreranno in vigore i nuovi limiti alle emissioni. Acea chiede un rinvio ma la Commissione non sembra d’accordo. I produttori sceglieranno di essere sanzionati piuttosto che ridurre la produzione?
«Su questo faccio fatica ad esprimere una opinione che possa andare bene a tutti. Come ho già detto Volvo ha già raggiunto e superato gli obiettivi previsti per i prossimi anni. Acea correttamente difende gli interessi di tutti i produttori che ne fanno parte. Certo stona il fatto che queste multe saranno richieste dall’Unione europea che poco ha fatto per l’affermazione di queste tecnologie, o per lo meno non lo ha fatto in modo coordinato, e dall’altro pensa di imporre dazi sulle produzioni cinesi di auto elettriche. Lo ripeto, non di auto elettriche cinesi, ma di produzione cinese, quindi anche di quelle europee prodotte in Cina. Così si fa fatica a raggiungere i target».
L’accelerazione verso l’elettrico e l’arrivo di un nuovo gruppo automobilistico mette a rischio l’industria della componentistica italiana. Cosa si dovrebbe fare per mettere in sicurezza questa parte importante della filiera dell’automotive?
«La componentistica rischia ovviamente tanto, soprattutto quella legata ai motori termici. Così come si rischia la perdita di commesse causa la delocalizzazione all’estero della produzione o comunque la scelta di nuovi investitori di andare a produrre altrove e non in Italia. Diversamente una rapida e concreta riconversione industriale, unitamente a investimenti provenienti dall’estero, potrebbero fare ripartire alla grande questo settore dell’automotive italiano che è universalmente riconosciuto come di grandissima qualità da tutti i produttori mondiali. È chiaro che però nessuno vuole produrre in modo antieconomico e/o troppo lontano dagli impianti di produzione delle auto. Insomma anche qui c’è bisogno di un piano di politica industriale fatto bene».
Il ministro Adolfo Urso ha presentato in Europa una piattaforma per rivisitare il Green deal, prospettando un Fondo comune europeo a sostegno dell’automotive. È fattibile secondo lei?
«Io credo che un piano europeo a sostegno dell’automotive non dovrebbe prevedere la ridiscussione dei contenuti del Green deal ma piuttosto delle azioni concrete strategiche di programma unitamente all’Europa. Se rinviare dovesse fare rima con rallentare allora sono ancora più scettico. Credo invece che probabilmente un fondo a supporto del settore dell’automotive europea sarebbe necessario. In questo senso sono d’accordo con il ministro».
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Olaf Scholz è il cancelliere tedesco dal 2021 (Getty)
- Il vicecancelliere Robert Habeck si schiera con Adolfo Urso: «Appoggio la sua richiesta». E sposa la linea del capo della Cdu, Friederich Merz: «Anticipiamo la revisione delle norme al 2025». Intanto l’Ue avverte: «Le emissioni non si toccano».
- Secondo la narrazione dominante investendo sul solare ridurremo gli eventi climatici estremi. In realtà sprechiamo soldi che andrebbero impiegati per rendere sicuri i fiumi.
Lo speciale contiene due articoli
Anche la Germania si unisce al coro italiano che punta a ritardare lo stop voluto dall’Ue alla produzione di motori termici entro il 2035. Due giorni fa, Friedrich Merz, leader della Cdu e candidato alla cancelleria alle prossime elezioni federali, ha fatto sapere che vorrebbe cancellare il divieto di produrre nuove auto a combustione a partire dal 2035. «Siamo favorevoli a revocare questo divieto - riteniamo che sia sbagliato - e ad anticipare la revisione», ha dichiarato Merz a un gruppo di giornalisti a Berlino. Il politico tedesco si riferisce alla cosiddetta «clausola di revisione» delle normative sulle emissioni di anidride carbonica e all’idea di anticiparla dal 2026 al 2025. Merz ha già dichiarato che discuterà la questione con il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, a Bruxelles la prossima settimana, dove parteciperà anche all’assemblea politica del Partito popolare europeo. «Ciò che la nuova Commissione europea farà nei prossimi 12 mesi determinerà in larga misura anche ciò che potremo potenzialmente fare insieme nei quattro anni successivi, praticamente a partire dalla fine del 2025», ha ricordato Merz, riferendosi al suo potenziale cancellierato.
La Germania, insomma, intende seguire il percorso già iniziato dal ministro Adolfo Urso, più in generale dall’esecutivo italiano e dal settore automobilistico europeo, di anticipare al 2025 la revisione delle norme sulle emissioni di anidride carbonica, di fatto l’antipasto allo stop della produzione di motori termici entro il 2035. L’obiettivo dei produttori automobilistici, ma anche di Germania e Italia, è infatti quello di rivedere le norme sulle emissioni già il prossimo anno per poi ritardare la fine dei motori a benzina e diesel. Intanto, un portavoce della Commissione ha fatto sapere ieri che il riesame delle emissioni previsto per il 2026 è «per il momento è appropriato». Dal canto suo il ministro Urso ha ribadito che l’idea di anticipare la revisione «sta ottenendo sempre più consenso: non si può lasciare nell’incertezza assoluta imprese e consumatori. Altri due anni di incertezza porterebbero al collasso dell’industria dell’auto europea».
Alle dichiarazioni di Merz hanno fatto seguito quelle del vicecancelliere e ministro dell’Economia, Robert Habeck, dopo un incontro con i rappresentanti di costruttori, sindacati e produttori di componentistica. «Dalla tavola rotonda è emersa la speranza che la revisione avvenga già nel 2025», ha detto Habeck. «Sono felice di appoggiare questa richiesta». «Ha senso affrontare la questione ora, in modo che i cambiamenti che probabilmente saranno strutturali nel mercato possano essere presi in considerazione negli obiettivi che sono stati fissati nel 2019», ha ricordato sempre Habeck facendo riferimento ai nuovi limiti di emissione della CO2. Del resto Habeck, uno dei leader del partito dei Verdi, ha ricordato che il suo supporto alle richieste dei produttori del mondo delle quattro ruote è motivato principalmente dal rallentamento dell’economia cinese (con la conseguente frenata delle vendite di auto tedesche a Pechino e dintorni), ma anche dalla debolezza delle immatricolazioni in Europa e l’arrivo di nuovi concorrenti, «soprattutto nel campo della mobilità elettrica».
Del resto, proprio lo scorso lunedì il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, aveva incontrato i vertici di Confindustria (c’era anche il presidente, Emanuele Orsini) e i sindacati proprio per trovare un fronte comune contro l’ideologia che c’è dietro al Green deal ed evitare la distruzione del mercato europeo dell’auto e la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. «Nel settore dell’automotive si avverte di più la necessità di una revisione per quanto riguarda il percorso del Green deal», aveva detto il ministro Adolfo Urso ricordando di avere «avanzato a Cernobbio una proposta in merito, partendo da una considerazione molto semplice: c’è una crisi evidente in atto in Europa, con il crollo del mercato elettrico, con le difficoltà che incontrano tutte le multinazionali europee, che ci obbliga a prendere delle decisioni». «Possiamo aspettare altri due anni per eventualmente esercitare la clausola di revisione e magari modificare percorso obiettivi e modalità nel settore delle auto?», aveva detto Urso. «Anticipiamo quella clausola di revisione a inizio 2025 e diamo certezze a imprese e consumatori. Questa è una delle tematiche che porterò in sede europea e su cui mi sto già confrontando con gli altri ministri». Così, l’intenzione di Urso, a cui ora si sono accodati anche i tedeschi, è quella di ritardare i vincoli su diesel e benzina all’interno della Conferenza sull’automotive in programma oggi a Bruxelles, per poi discuterne al tavolo del Consiglio competitività in calendario per domani.
Il fotovoltaico è un grande abbaglio
Qualche lettore mi chiede come mai, con tanto denaro sprecato in mille altre attività, prendo sempre di mira il fotovoltaico come esempio di spreco che avrebbe potuto evitarsi con la messa in sicurezza dei corsi d’acqua della Penisola.
Il punto cruciale è che la ragione addotta dalle politiche del Green new deal di Ursula von der Leyen - che per l’Italia significa essenzialmente fotovoltaico e comunità energetiche e, queste ultime, significano, ancora una volta, fotovoltaico - è quella di contrastare gli eventi meteorologici severi che, se ci sono - vuole la narrazione - è per colpa dei combustibili fossili. Ridotti questi, sparirebbero gli eventi severi e tutti saremmo contenti. Riassumendo, abbiamo sicuramente un problema da risolvere: ridurre i rischi di frane, alluvioni e siccità, e lo stiamo affrontando con provvedimenti che non riducono quel rischio di uno iota. Così facendo, siccome il denaro non è infinito, quello che si sceglie di allocare sul problema finisce su provvedimenti farlocchi e poi non rimane un centesimo per provvedimenti che invece il problema lo affrontano e lo risolvono. Rammentiamo a Elly Schlein che nella regione ove ella era responsabile dei problemi in parola, sono stati installati 3 gigawatt di fotovoltaico, che hanno richiesto uno sforzo economico di 7 miliardi; la regione, negli stessi dieci anni in cui lavorava alacremente per quegli impianti, per la messa in sicurezza delle acque ha impegnato appena mezzo miliardo, meno di un decimo del necessario per risolvere un annoso (nel senso di plurisecolare) problema romagnolo, che invece viene spacciato come recente.
Un altro lettore mi chiede cosa penso, allora, della recente esondazione del Danubio in quel di Budapest (ove però, grazie ai sistemi di protezione, non ci sono state vittime). Un altro ancora, che si trova a San Pietroburgo - ma che riesce lo stesso a leggerci perché è abbonato - si è preso addirittura la briga di inviarmi un filmato con l’acqua del fiume Neva un po’ più alta del solito. Ora, non è che io segua i corsi dei fiumi del mondo, ma posso solo dire che il Danubio straripò anche nel 1838, quando, in assenza dei sistemi di protezione, devastò Budapest e causò centinaia di morti. Invece nel 1777, e poi nel 1824, il fiume Neva si elevò di 4 metri, devastando la città (nel 1824 si stima, 10.000 vittime). Altre inondazioni si susseguirono in anni successivi (1924 e 1955), e ci volle (diamo a Cesare quel che è di Cesare) Vladimir Putin, che ordinò la realizzazione non di impianti fotovoltaici, ma una diga lunga 25 chilometri, una grande opera ingegneristica completata nel 2011 e che ora protegge una città che nel corso dei secoli era stata colpita da 300 esondazioni del fiume che la attraversa.
Un altro ancora mi chiede cosa penso del progetto di alcuni che vorrebbero assicurarsi e di coloro che vorrebbero rendere l’assicurazione obbligatoria per legge. Sui primi posso solo consigliare di contattare la loro preferita compagnia. Quanto ai secondi, direi che la cosa è non solo improponibile, ma stupida assai. Certo, i cittadini si troverebbero questo balzello in più, ma non mi sembra tanto questo il punto, anche perché per la maggior parte di noi è piccola la probabilità che si venga colpiti da frane o alluvioni, e il premio sarebbe molto basso (gli esposti a maggior rischio, naturalmente, avrebbero un premio più alto). Il fatto è che, pur bassa la probabilità dell’evento, se esso accade è devastante. Supponiamo un attimo che fossero stati assicurati i romagnoli danneggiati dall’alluvione del 2023, che causò danni dell’ordine di 10 miliardi o poco meno. Ma è dell’ordine di 2 miliardi il capitale sociale delle più grandi assicurazioni. Queste, allora, farebbero bancarotta, non potrebbero risarcire i danni e, allo scopo, dovrebbe intervenire, comunque, lo Stato.
Insomma, per queste cose l’unico in grado di risarcire il danno, il più ricco di tutti, è lo Stato: il capitale sociale delle società d’assicurazione è una briciola a confronto, per esempio, dei circa 200 miliardi della nostra riserva aurea.
Anziché adagiarsi alla condizione di dispensatore di risarcimenti danni, lo Stato ha un potere maggiore: prevenirli. A occhio e croce può stimarsi in 50 miliardi l’impegno economico necessario per mettere ordine nei flussi d’acque di cui il nostro territorio è ricco (con un po’ di pazienza si possono ottenere stime più precise; ma l’ordine di grandezza, quello è). Si consideri quindi la cosa come un’enorme grande opera che dovrà impegnare gli ingegneri idraulici e i geologi del Paese per tre o quattro lustri. Dove prendere questo denaro? Ma dalla lotta al clima, naturalmente! Cioè dalla transizione energetica e dal Green new deal. Come disse Margaret Thatcher: «We want our money back!».
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- La polizia britannica usa un software in grado di spiare i dati bancari e i messaggi dei cellulari dei proprietari delle vetture.
- Federico Mollicone (Fdi): «Abbiamo aggiunto la cultura tra i settori rilevanti da proteggere».
Lo speciale contiene due articoli.
Da ormai diversi anni il problema del «car hacking», cioè colpire con un attacco informatico le automobili di nuova generazione, sta diventando sempre più preoccupante. È ormai evidente che con l’introduzione di tecnologie sempre più sofisticate, come gli aggiornamenti over-the-air (cioè tramite semplice rete wireless) e una maggiore connettività dei dati, le auto non sono più un semplice mezzo di trasporto, ma sono ormai diventate dei veri e propri hub di scambio e ricezione di dati personali.
Secondo le stime di esperti del settore, i veicoli generano circa 25 giga byte di dati ogni ora, circa tre volte la media consumata ogni mese da un normale utente di un telefono cellulare. È una svolta epocale per il settore automotive, una nuova sfida per la sicurezza informatica, che non riguarda solo il pericolo di hackeraggio ma la stessa sicurezza degli automobilisti per potenziali violazioni del sistema operativo. In teoria un criminal hacker potrebbe arrivare a controllare o influenzare la frenata e lo sterzo, ma soprattutto sarebbe in grado di rubare l’enorme quantità di dati dei proprietari, che sono sempre più esigenti per avere mezzi tecnologicamente all’avanguardia, ma anche più esposti.
In Inghilterra nelle ultime settimane è scoppiata una polemica che riguarda le forze dell’ordine. In pratica i cosiddetti bobby starebbero utilizzando un nuovo software in grado di spiare le informazioni personali di alcuni conducenti, come i dati di navigazione, quelli bancari e persino i messaggi di testo dei cellulari. Stiamo parlando di Berla, un software che permette agli investigatori «di identificare, acquisire e analizzare informazioni critiche memorizzate nei sistemi dei veicoli». In pratica grazie a questo sistema di analisi usato in ambito forense, la polizia è in grado di estrarre una lunga serie di dati dai veicoli, tra cui la velocità media: potrebbe essere in grado anche di prevedere il rischio di incidenti. Al momento solo le stazioni di Derbyshire e Gwent hanno confermato di utilizzare questa tecnologia (costata 48.000 sterline), ma hanno anche sottolineato di usarla solo durante le indagini per omicidio, rapimenti o rapine. «Oggi le automobili, anche quelle più semplici, sono centri tecnologici avanzati, dotati di numerosi computer interconnessi che gestiscono diversi aspetti del veicolo. Questi sistemi, collegandosi ai nostri smartphone, possono catturare dati come contatti, messaggi, preferenze quotidiane e persino credenziali di accesso ai servizi, trasformando l’auto non solo in un mezzo di trasporto, ma in un archivio digitale della nostra vita personale», dice Pierguido Iezzi, strategic business director di Tinexta Cyber. «E allo stesso tempo la stessa digitalizzazione e soprattutto le informazioni e i dati diventano uno strumento importante e vitale per le attività investigative, tool di hacking a disposizione delle forze di polizia per accedere ai dati dei veicoli come avviene in Uk» continua Iezzi. «Questi dati diventano cruciali per indagini complesse e aprono la strada a discussioni sul tema della polizia predittiva e privacy».
Ma secondo l’inchiesta portata avanti dalla lobby Privacy International altre 30 forze di polizia si sono rifiutate di rispondere venendo accusate di «inaccettabile segretezza», anche perché il potenziale di «sorveglianza intrusiva» dovrebbe mettere in allarme il Parlamento sull’urgente bisogno di nuove regole. «Intelligenza artificiale, fake news e big data stanno rivoluzionando il nostro quotidiano e le stesse operazioni investigative delle forze dell’ordine. In Argentina è stata recentemente annunciata la creazione di una nuova unità di intelligenza artificiale, voluta dal presidente Javier Milei, volta a prevenire crimini futuri tramite l'unità “Artificial Intelligence Applied to Security Unit”. Sebbene il governo sostenga che questa tecnologia possa prevenire crimini prima che accadano, esistono preoccupazioni legate al potenziale abuso di tali strumenti, che potrebbero trasformare la sicurezza in un mezzo di controllo e repressione», nota Iezzi. «Tecnologie simili, come il software “Giove” in Italia, dimostrano come l’Ia può essere impiegata per la sorveglianza predittiva, ma sempre nel rispetto degli ambiti etici, legali, privacy e diritti dei cittadini, in linea con le indicazioni dell’Ai Act europeo e del Ddl Ai italiano» ricorda. Peccato che proprio di questi tempi l’Inghilterra non stia brillando per tutela della privacy e libertà di parola, dopo le rivolte antimmigrazione delle ultime due settimane e le polemiche per gli interventi di Elon Musk su X («La guerra civile è inevitabile»). Come noto, il primo ministro laburista Keir Starmer è stato accusato di aver attentato alla liberà di espressione nel Regno Unito. Anche perché nelle ultime settimane ci sono stati diversi arresti (ai sensi Communications Act) tra chi aveva condiviso sui social post che incitavano alle rivolte per le strade o notizie considerate false.
Cyber attacchi nei musei francesi. L’Italia intanto è già corsa ai ripari
Entro ottobre di quest’anno tutti i Paesi dell’Unione europea dovranno recepire la direttiva Nis 2 sulla sicurezza delle reti e dell’informazione. Come noto, i criminali informatici stanno diventando sempre più efficienti nel colpire istituzioni e aziende che spesso si trovano ancora sprovviste di protezioni adeguate. La normativa amplia i livelli di protezione e spinge i governi a definire i requisiti di sicurezza. Purtroppo, però, i Paesi membri non si stanno muovendo in maniera uniforme. C’è chi è più avanti in alcuni ambiti, chi in altri. L’Italia, per esempio, è l’unica al momento ad aver inserito nelle scorse settimane il concetto di «cultura» nella direttiva Nis2 sulla cybersicurezza.
«L’avanzamento tecnologico senza sicurezza è un rischio che non ci possiamo permettere: lo abbiamo inserito anche nel programma elettorale del 2022» spiega Federico Mollicone, deputato di Fdi autore dell’emendamento. «I legislatori europei nel lungo elenco dei soggetti che, secondo la direttiva Nis2, dovranno assicurare elevati standard di protezione contro gli attacchi cyber, non hanno previsto di includere i soggetti che forniscono servizi connessi o strumentali al settore della cultura. Ma la cultura in Italia è un settore rilevante per l’economia e, allo stesso tempo, critico: basti pensare all’interruzione dell’erogazione online dei ticket per accedere a un museo a causa di un attacco cibernetico o, guardando all’attualità, ai recenti attacchi ai musei francesi o alla partecipata capitolina Zetema. E siamo alla vigilia di grandi eventi, come il Giubileo nel 2025». Dopo gli attacchi ransomware a 40 musei in Francia durante le Olimpiadi, senza dimenticare gli 8 milioni di euro di danni di gennaio alla British Library di Londra (principale biblioteca nazionale del Regno Unito), l’Italia ha voluto fare un passo in avanti. A inizio agosto a essere colpito fu il sistema informatico che gestisce i musei più importanti di Francia. Un evento che può ripetersi ovunque con gravi ricadute sull’intero sistema culturale. Anche perché il rischio di furto di dati e interruzione di servizi è elevatissimo. «Basti pensare al cyberattacco alla piattaforma Ticketmaster con cui sono stati violati i dati personali di 560 milioni di fan di Taylor Swift, oltre al furto di Qr Code di 440.000 biglietti del tour» prosegue Mollicone che ha già presentato nei mesi scorsi una legge sulla pirateria digitale. «La cultura e l’arte sono un asset economico fondamentale e sono, quindi, un bersaglio dei criminali. Sono un simbolo di unione tra l’Europa, l’America e i Paesi del Pacifico: attaccarli significa colpire il nostro modello culturale e rappresentano, quindi, un bersaglio geopolitico. Infine, sono elementi che pervadono l’opinione pubblica: attaccarli significa avere attenzione mediatica mondiale».
L’Italia è all’inizio del recepimento della direttiva Nis2, altri Paesi, come la stessa Francia, sono un passo avanti, ma si ritrovano comunque in ritardo su altri aspetti. «Lavoreremo col ministro Sangiuliano e il ministero della Cultura - congiuntamente all’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale - affinché l’Italia possa diventare il leader europeo della protezione cyber del mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo dal vivo, dell’audiovisivo, della musica, della proprietà intellettuale», aggiunge Mollicone.
«L’interconnessione digitale è sempre di più delicata arteria del nostro quotidiano, con tutti i rischi associati. Lo abbiamo già vissuto durante il cyber-caos del “venerdì blu”, con impatti significativi sul traffico aereo e sugli ospedali o negli atti di sabotaggio terroristico alla fibra ottica degli operatori francesi di internet e telefonia prima dell’inizio delle Olimpiadi parigine» dice alla Verità Pierguido Iezzi, strategic business director di Tinexta Cyber. «Ora, siamo di fronte a un nuovo attacco ransomware che ha colpito il sistema informatico del network nazionale dei musei francesi, che controlla circa 40 musei transalpini. Di fronte a questi sempre più frequenti avvenimenti è necessaria una drastica presa di coscienza». Per questo motivo, dice Iezzi, «fortunatamente nel nostro Paese vi è già stato un cruciale intervento del governo, che ha approvato prima della pausa estiva il decreto per recepire la direttiva Network and Information Security 2 (Nis2). Ora, il compito passa alle aziende, che dovranno implementare entro ottobre le misure di sicurezza previste».
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