2024-09-25
Sul rinvio dello stop all’auto a benzina ora la Germania si accoda all’Italia
Olaf Scholz è il cancelliere tedesco dal 2021 (Getty)
Il vicecancelliere Robert Habeck si schiera con Adolfo Urso: «Appoggio la sua richiesta». E sposa la linea del capo della Cdu, Friederich Merz: «Anticipiamo la revisione delle norme al 2025». Intanto l’Ue avverte: «Le emissioni non si toccano».Secondo la narrazione dominante investendo sul solare ridurremo gli eventi climatici estremi. In realtà sprechiamo soldi che andrebbero impiegati per rendere sicuri i fiumi.Lo speciale contiene due articoli Anche la Germania si unisce al coro italiano che punta a ritardare lo stop voluto dall’Ue alla produzione di motori termici entro il 2035. Due giorni fa, Friedrich Merz, leader della Cdu e candidato alla cancelleria alle prossime elezioni federali, ha fatto sapere che vorrebbe cancellare il divieto di produrre nuove auto a combustione a partire dal 2035. «Siamo favorevoli a revocare questo divieto - riteniamo che sia sbagliato - e ad anticipare la revisione», ha dichiarato Merz a un gruppo di giornalisti a Berlino. Il politico tedesco si riferisce alla cosiddetta «clausola di revisione» delle normative sulle emissioni di anidride carbonica e all’idea di anticiparla dal 2026 al 2025. Merz ha già dichiarato che discuterà la questione con il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, a Bruxelles la prossima settimana, dove parteciperà anche all’assemblea politica del Partito popolare europeo. «Ciò che la nuova Commissione europea farà nei prossimi 12 mesi determinerà in larga misura anche ciò che potremo potenzialmente fare insieme nei quattro anni successivi, praticamente a partire dalla fine del 2025», ha ricordato Merz, riferendosi al suo potenziale cancellierato.La Germania, insomma, intende seguire il percorso già iniziato dal ministro Adolfo Urso, più in generale dall’esecutivo italiano e dal settore automobilistico europeo, di anticipare al 2025 la revisione delle norme sulle emissioni di anidride carbonica, di fatto l’antipasto allo stop della produzione di motori termici entro il 2035. L’obiettivo dei produttori automobilistici, ma anche di Germania e Italia, è infatti quello di rivedere le norme sulle emissioni già il prossimo anno per poi ritardare la fine dei motori a benzina e diesel. Intanto, un portavoce della Commissione ha fatto sapere ieri che il riesame delle emissioni previsto per il 2026 è «per il momento è appropriato». Dal canto suo il ministro Urso ha ribadito che l’idea di anticipare la revisione «sta ottenendo sempre più consenso: non si può lasciare nell’incertezza assoluta imprese e consumatori. Altri due anni di incertezza porterebbero al collasso dell’industria dell’auto europea». Alle dichiarazioni di Merz hanno fatto seguito quelle del vicecancelliere e ministro dell’Economia, Robert Habeck, dopo un incontro con i rappresentanti di costruttori, sindacati e produttori di componentistica. «Dalla tavola rotonda è emersa la speranza che la revisione avvenga già nel 2025», ha detto Habeck. «Sono felice di appoggiare questa richiesta». «Ha senso affrontare la questione ora, in modo che i cambiamenti che probabilmente saranno strutturali nel mercato possano essere presi in considerazione negli obiettivi che sono stati fissati nel 2019», ha ricordato sempre Habeck facendo riferimento ai nuovi limiti di emissione della CO2. Del resto Habeck, uno dei leader del partito dei Verdi, ha ricordato che il suo supporto alle richieste dei produttori del mondo delle quattro ruote è motivato principalmente dal rallentamento dell’economia cinese (con la conseguente frenata delle vendite di auto tedesche a Pechino e dintorni), ma anche dalla debolezza delle immatricolazioni in Europa e l’arrivo di nuovi concorrenti, «soprattutto nel campo della mobilità elettrica». Del resto, proprio lo scorso lunedì il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, aveva incontrato i vertici di Confindustria (c’era anche il presidente, Emanuele Orsini) e i sindacati proprio per trovare un fronte comune contro l’ideologia che c’è dietro al Green deal ed evitare la distruzione del mercato europeo dell’auto e la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. «Nel settore dell’automotive si avverte di più la necessità di una revisione per quanto riguarda il percorso del Green deal», aveva detto il ministro Adolfo Urso ricordando di avere «avanzato a Cernobbio una proposta in merito, partendo da una considerazione molto semplice: c’è una crisi evidente in atto in Europa, con il crollo del mercato elettrico, con le difficoltà che incontrano tutte le multinazionali europee, che ci obbliga a prendere delle decisioni». «Possiamo aspettare altri due anni per eventualmente esercitare la clausola di revisione e magari modificare percorso obiettivi e modalità nel settore delle auto?», aveva detto Urso. «Anticipiamo quella clausola di revisione a inizio 2025 e diamo certezze a imprese e consumatori. Questa è una delle tematiche che porterò in sede europea e su cui mi sto già confrontando con gli altri ministri». Così, l’intenzione di Urso, a cui ora si sono accodati anche i tedeschi, è quella di ritardare i vincoli su diesel e benzina all’interno della Conferenza sull’automotive in programma oggi a Bruxelles, per poi discuterne al tavolo del Consiglio competitività in calendario per domani.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/rinvio-stop-auto-benzina-germania-2669264170.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-fotovoltaico-e-un-grande-abbaglio" data-post-id="2669264170" data-published-at="1727214509" data-use-pagination="False"> Il fotovoltaico è un grande abbaglio Qualche lettore mi chiede come mai, con tanto denaro sprecato in mille altre attività, prendo sempre di mira il fotovoltaico come esempio di spreco che avrebbe potuto evitarsi con la messa in sicurezza dei corsi d’acqua della Penisola. Il punto cruciale è che la ragione addotta dalle politiche del Green new deal di Ursula von der Leyen - che per l’Italia significa essenzialmente fotovoltaico e comunità energetiche e, queste ultime, significano, ancora una volta, fotovoltaico - è quella di contrastare gli eventi meteorologici severi che, se ci sono - vuole la narrazione - è per colpa dei combustibili fossili. Ridotti questi, sparirebbero gli eventi severi e tutti saremmo contenti. Riassumendo, abbiamo sicuramente un problema da risolvere: ridurre i rischi di frane, alluvioni e siccità, e lo stiamo affrontando con provvedimenti che non riducono quel rischio di uno iota. Così facendo, siccome il denaro non è infinito, quello che si sceglie di allocare sul problema finisce su provvedimenti farlocchi e poi non rimane un centesimo per provvedimenti che invece il problema lo affrontano e lo risolvono. Rammentiamo a Elly Schlein che nella regione ove ella era responsabile dei problemi in parola, sono stati installati 3 gigawatt di fotovoltaico, che hanno richiesto uno sforzo economico di 7 miliardi; la regione, negli stessi dieci anni in cui lavorava alacremente per quegli impianti, per la messa in sicurezza delle acque ha impegnato appena mezzo miliardo, meno di un decimo del necessario per risolvere un annoso (nel senso di plurisecolare) problema romagnolo, che invece viene spacciato come recente. Un altro lettore mi chiede cosa penso, allora, della recente esondazione del Danubio in quel di Budapest (ove però, grazie ai sistemi di protezione, non ci sono state vittime). Un altro ancora, che si trova a San Pietroburgo - ma che riesce lo stesso a leggerci perché è abbonato - si è preso addirittura la briga di inviarmi un filmato con l’acqua del fiume Neva un po’ più alta del solito. Ora, non è che io segua i corsi dei fiumi del mondo, ma posso solo dire che il Danubio straripò anche nel 1838, quando, in assenza dei sistemi di protezione, devastò Budapest e causò centinaia di morti. Invece nel 1777, e poi nel 1824, il fiume Neva si elevò di 4 metri, devastando la città (nel 1824 si stima, 10.000 vittime). Altre inondazioni si susseguirono in anni successivi (1924 e 1955), e ci volle (diamo a Cesare quel che è di Cesare) Vladimir Putin, che ordinò la realizzazione non di impianti fotovoltaici, ma una diga lunga 25 chilometri, una grande opera ingegneristica completata nel 2011 e che ora protegge una città che nel corso dei secoli era stata colpita da 300 esondazioni del fiume che la attraversa. Un altro ancora mi chiede cosa penso del progetto di alcuni che vorrebbero assicurarsi e di coloro che vorrebbero rendere l’assicurazione obbligatoria per legge. Sui primi posso solo consigliare di contattare la loro preferita compagnia. Quanto ai secondi, direi che la cosa è non solo improponibile, ma stupida assai. Certo, i cittadini si troverebbero questo balzello in più, ma non mi sembra tanto questo il punto, anche perché per la maggior parte di noi è piccola la probabilità che si venga colpiti da frane o alluvioni, e il premio sarebbe molto basso (gli esposti a maggior rischio, naturalmente, avrebbero un premio più alto). Il fatto è che, pur bassa la probabilità dell’evento, se esso accade è devastante. Supponiamo un attimo che fossero stati assicurati i romagnoli danneggiati dall’alluvione del 2023, che causò danni dell’ordine di 10 miliardi o poco meno. Ma è dell’ordine di 2 miliardi il capitale sociale delle più grandi assicurazioni. Queste, allora, farebbero bancarotta, non potrebbero risarcire i danni e, allo scopo, dovrebbe intervenire, comunque, lo Stato. Insomma, per queste cose l’unico in grado di risarcire il danno, il più ricco di tutti, è lo Stato: il capitale sociale delle società d’assicurazione è una briciola a confronto, per esempio, dei circa 200 miliardi della nostra riserva aurea. Anziché adagiarsi alla condizione di dispensatore di risarcimenti danni, lo Stato ha un potere maggiore: prevenirli. A occhio e croce può stimarsi in 50 miliardi l’impegno economico necessario per mettere ordine nei flussi d’acque di cui il nostro territorio è ricco (con un po’ di pazienza si possono ottenere stime più precise; ma l’ordine di grandezza, quello è). Si consideri quindi la cosa come un’enorme grande opera che dovrà impegnare gli ingegneri idraulici e i geologi del Paese per tre o quattro lustri. Dove prendere questo denaro? Ma dalla lotta al clima, naturalmente! Cioè dalla transizione energetica e dal Green new deal. Come disse Margaret Thatcher: «We want our money back!».
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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