2020-11-11
Striscia il Lockdown: ora tocca pure a Emilia Romagna e Veneto
Luca Zaia (Roberto Silvino/NurPhoto via Getty Images)
L'esecutivo pasticcia con i colori: ieri create cinque zone arancioni, ma già Emilia, Campania, Friuli e Veneto sono nel mirino. Giuseppe Conte tratta con i governatori: niente «retrocessioni» se ci saranno chiusure in singole città.Per Franco Locatelli, del Consiglio superiore di sanità, «c'è una decelerazione» del contagio, per Silvio Brusaferro dell'Iss «l'Rt rallenta». Eppure il fronte del confinamento a tutti i costi non sente ragioni: vogliono imporre il lockdown totale a colpi di propaganda.Lo speciale contiene due articoli. Il giallo delle Regioni gialle dovrebbe far arrossire il governo giallorosso. Ieri ministro della Salute, Roberto Speranza, ha firmato l'ordinanza che individua le Regioni che passano dall'area gialla a quella arancione e rossa. Come già noto, entrano in fascia arancione Abruzzo, Basilicata, Liguria, Toscana, Umbria; entra nell'area rossa la Provincia autonoma di Bolzano. Complessivamente quindi la ripartizione delle Regioni nelle diverse aree è attualmente la seguente: in «fascia gialla» Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Marche, Molise, Provincia autonoma di Trento, Sardegna, Veneto; in «fascia arancione» Abruzzo, Basilicata, Liguria, Puglia, Sicilia, Toscana, Umbria; in «fascia rossa» Calabria, Lombardia, Piemonte, Valle d'Aosta, Provincia autonoma di Bolzano. Una ripartizione già vecchia: ieri l'Istituto superiore di sanità, analizzando i dati dell'ultimo monitoraggio, ha annunciato misure più restrittive in quattro Regioni fino ad ora in fascia gialla: Emilia Romagna, Campania, Friuli Venezia Giulia e Veneto. Secondo l'Iss, queste quattro Regioni sono entrate in scenario 4 a rischio moderato con alta probabilità di progressione. Che succederà, quindi? Con ogni probabilità, queste quattro Regioni nei prossimi giorni passeranno dalla fascia gialla a quella arancione, andando quindi a unirsi a Liguria, Toscana, Abruzzo, Basilicata, Umbria, Puglia e Sicilia. Ma nulla è certo, in questo caleidoscopio impazzito chiamato Italia: la confusione generata da questo meccanismo infernale di valutazione del rischio è totale. Ben 21 i parametri da analizzare per classificare le Regioni, ma neanche questo basta. In alcuni casi, come ad esempio la Campania, anche l'attendibilità degli stessi dati trasmessi dalla Regione a Roma è fonte di incertezze, dubbi, polemiche.Per la Campania, infatti, la decisione era stata annunciata per ieri, ma non è arrivata. Per fugare i dubbi sulla veridicità dei dati trasmessi dalla Regione guidata da Vincenzo De Luca a Roma, a Napoli sono arrivati i tecnici del ministero della Salute per controllare numeri e parametri e per capire se il flusso di informazioni sia stato trasmesso correttamente. «Riteniamo validi i dati della Campania ma approfondimenti sono in atto per cogliere aspetti che potrebbero completare una analisi che è in corso», ha affermato il presidente dell'Iss, Silvio Brusaferro, prima di annunciare che «sulla base dell'ultimo monitoraggio ci sono 4 regioni che vanno verso rischio alto e nelle quali è opportuno anticipare le misure più restrittive»: appunto Emilia Romagna, Campania, Friuli Venezia Giulia e Veneto. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha telefonato al governatore del Veneto, Luca Zaia: «Mi ha chiamato il Capo dello Stato», ha detto Zaia, «per chiedere informazioni su come sta andando. Ho ringraziato per l'interesse, ho parlato lungamente della situazione, della preoccupazione per i comportamenti di pochi, che inficiano la situazione di molti».Fin qui le comunicazioni ufficiali, ma la quello che sta succedendo in Italia conferma la totale incapacità del governo di assumersi la benché minima responsabilità. A quanto apprende la Verità, infatti, tra Regioni e esecutivo ci sono due livelli di trattativa: uno strettamente tecnico, quindi basato sulla valutazione dei dati, che pure si prestano a diverse interpretazioni, e l'altro puramente politico. In sintesi, il governo avrebbe spiegato alle Regioni a rischio che il passaggio dalla fascia gialla a quella arancione potrebbe essere evitato se le stesse Regioni si assumessero la responsabilità di blindare, dichiarandole zona rossa, le città e le aree metropolitane più esposte al contagio. Prendiamo ancora l'esempio della Campania: Napoli e Caserta, con le rispettive province, sono molto più in sofferenza di Avellino, Benevento e Salerno. Se Vincenzo De Luca dichiarasse Napoli e Caserta zone rosse, eviterebbe la «retrocessione» in fascia arancione. Va detto che ieri il governatore campano ha chiarito che «la collocazione di fascia della Campania è già stata decisa ieri (lunedì, ndr), a fronte della piena rispondenza dei nostri dati a quanto previsto dai criteri oggettivi fissati dal ministero della Salute», dunque «non c'è più nulla da decidere e da attendere».Qui casca l'asino: una decisione drastica da parte di un governatore scatenerebbe contro di lui la rabbia delle categorie colpite dal provvedimento, considerato che i sostegni economici promessi da Roma sono pochi e incerti. Si andrebbe incontro quindi a fortissime tensioni sociali, e le Regioni sarebbero il bersaglio, come già capitato nelle scorse settimane, di proteste e tumulti. Lo scorso 23 ottobre, De Luca annunciò in diretta Facebook un imminente lockdown in Campania: successe il finimondo, con la sede della Regione assediata, le forze dell'ordine prese di mira, la tensione alle stelle. Certo, tra i manifestanti si infiltrarono i soliti facinorosi, ma migliaia di commercianti, piccoli imprenditori, lavoratori, protestarono pacificamente temendo di finire sul lastrico, e De Luca fece marcia indietro.Il paradosso è lampante: De Luca avrebbe voluto chiudere tutto già due settimane fa, lo stesso sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, continua a chiedere che la Campania diventi zona rossa, le organizzazioni dei medici avvertono che la situazione è prossima al collasso, ma il governo non fa altro che rimandare la decisione, in preda al terrore. Senza un adeguato e tempestivo piano di sussidi alle categorie colpite, infatti, si scatenerebbe una nuova sommossa popolare, e quindi si temporeggia, si nicchia, si gioca coi numeri. E con i colori.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/stretta-pronta-per-altre-4-regioni-litalia-corre-verso-il-lockdown-2648852370.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="chiuderanno-tutto-anche-se-la-curva-cala" data-post-id="2648852370" data-published-at="1605040182" data-use-pagination="False"> Chiuderanno tutto anche se la curva cala Il sorpasso. Nel giorno in cui gli scienziati vedono una «decelerazione del virus» e un «appiattimento della curva», si fa più forte la pressione mediatica per arrivare a un lockdown totale. Alla serrata. A quello spirito di marzo che solo per il ministro Roberto Speranza fu positivo visto che si concretizzò nel rinchiudere in cantina un Paese terrorizzato. Abbiamo imboccato la stessa strada e nella società della comunicazione, oggi i tifosi del lockdown sono i giornalisti, gli opinion leader, coloro che in febbraio ingurgitavano involtini primavera, in marzo si sono trasformati in virologi e in aprile invocavano gli avvisi di garanzia per epidemia colposa. «Cresce la pressione per il lockdown totale», è il titolo rimasto per tutto il giorno sulla homepage del Corriere della Sera. «I medici sono stremati» scrive La Repubblica e la notizia più cliccata del giorno è l'allarme a effetto da Monza: «Oggi Codogno siamo noi». Sono state istituite da neppure una settimana, ma per i media le aree colorate non bastano già più. Si chiede inutilmente raziocinio, i governatori consigliano di «aspettare a vedere gli effetti delle restrizioni». Una posizione saggia, che tiene conto degli sforzi di territori colpiti dalla crisi economica, della volontà di persone non garantite di rimanere in piedi. Per i virologi di redazione invece non c'è margine, è una fuga da Saigon: lockdown o morte nera. Eppure. Eppure si legge anche altro, si ascoltano voci meno isteriche. Ieri Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di Sanità, è stato chiaro: «L'indice Rt appare stabile, quindi l'accelerazione marcata è venuta meno e c'è decelerazione, frutto delle misure poste in essere. Ciò va letto in modo positivo, ci auguriamo e ci aspettiamo con il trascorrere dei giorni che i dati possano ulteriormente migliorare». Non è superficialità, è realismo. Ma non ha diritto di cittadinanza, il concetto bisogna andarlo a cercare fra le righe, strangolato dall'allarmismo cosmico di medici sull'orlo di una crisi di nervi e di inviati speciali sempre pronti a partire per Parigi, ma con il mal di denti quando la meta è il Sudan o il Kosovo. Chiudere tutto, chiudere subito; la musica dei talk show suona un'unica nota. E poco importa se nello stesso giorno anche il presidente dell'Istituto superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, pur sottolineando che «l'impatto sui servizi sanitari sta crescendo e ci si avvicina alla soglia di valori critici», aggiunge: «L'indicatore Rt ora a 1,7 ha mostrato un rallentamento nella sua crescita, ma per ridurre i casi dobbiamo riportarlo sotto l'1». Quindi qualcosa sta funzionando, anche se tutto è travolto dai bollettini di guerra, dai selfie degli infermieri in catalessi. E dal grido di dolore dei medici, gli unici ad avere un megafono per raccontare la loro trincea afghana. Il lockdown generale li trova ovviamente favorevoli, è normale. Loro non hanno la necessità di guardare oltre il perimetro degli ospedali o dello studio nel quale faticano ad accettare di dare una mano con i tamponi. Allora «Noi a intubare le persone e la gente al parco Sempione» (Repubblica). Allora ecco l'emergenza del condominio se si avvicina un potenziale positivo per farsi curare. E poi lettere imbarazzanti, disfattiste per partito preso, di qualche presidente regionale dell'Ordine ormai incapace di distinguere il ruolo di rappresentante istituzionale da quello di sindacalista. Siamo all'apologia mediatica del dottor Terzilli, chi l'avrebbe mai detto? Nel rispetto di coloro che davvero stanno al fronte sanitario servirebbe un dignitoso silenzio stampa. In questo sabba chiusurista, mentre già si sente lo scatto dei lucchetti, non poteva che entrare in scena la politica. Sensibile alle paure ma inadeguata ad affrontarle con risposte concrete, tutta la sinistra si sta appiattendo sull'idea della serrata. È la posizione del ministro Speranza, supportato all'interno del Pd da colonnelli come Dario Franceschini. Fosse per loro, istituirebbero le guardie rosse per pattugliare le vie delle città deserte. Il premier Giuseppe Conte ancora resiste, Matteo Renzi è in pericoloso silenzio. Entrambi pronti a capitolare fra una settimana, quando tutto ciò che è giallo sarà diventato arancione. Ieri ha abbracciato il carcere volontario anche Carlo Calenda, che di crisi economiche se ne intende: «Se i numeri indicano che serve la chiusura totale, va fatta. Avrei fatto il lockdown delle città due o tre settimane fa, quando si è capito che c'erano alcuni epicentri». Anche i liberisti alle vongole vacillano, accompagnati dalla presunzione della ragione retroattiva. Tre settimane fa, come disse Giorgio Gori per andare oltre il governatore Attilio Fontana, attirandosi una contestazione personale a Bergamo. Con il senno del poi non avrebbero mai riaperto. Eppure. Eppure c'è un altro distinguo e arriva dall'Europa che i competenti dovrebbero ascoltare come i bimbi ascoltano la mamma. Proprio ieri Peter Liese, medico tedesco responsabile Salute del Ppe, ha spiegato che «ordinare alla gente di stare in casa non è un buon modo per combattere la pandemia. Il virus non si diffonde se vai per strada, si diffonde se incontri altre persone. Quindi lo strumento giusto non è uscire ma ridurre i contatti». Quei contatti inevitabili nei pronto soccorso degli ospedali. Proprio lì dove la gente si sta precipitando al terzo colpo di tosse, spinta dal terrorismo dei tifosi del lockdown. I nostalgici dell'assolo di chitarra in piazza Navona o della partita a tennis fra i tetti di Savona.
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?
Piergiorgio Odifreddi (Getty Images)