2024-10-19
Sbagliato pagare meno i manager pubblici
Il ministro per la Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo (Imagoeconomica)
La manovra potrebbe introdurre un nuovo limite agli stipendi dei dirigenti della Pa: da 240.000 a 160.000 euro. La mossa farebbe risparmiare solo un paio di milioni ma sarebbe un boomerang, visto che renderebbe impossibile reclutare professionisti di livello. La manovra sembra portare con sé una sorpresa per i manager pubblici. Un pesante taglio di stipendi, visto che l’idea di Palazzo Chigi sarebbe quella di fissare il tetto degli stipendi non più a 240.000 euro lordi all’anno ma a 160.000. L’intento è quello di allineare i compensi non più a quello che percepisce il presidente della Repubblica (che in realtà non è lordo, bensì esentasse) a quello del presidente del Consiglio. Risparmio ai fini della manovra? Probabilmente un paio di milioni di euro. Nulla, insomma. Viene dunque da chiedersi perché il governo voglia andare in scia alle idee grilline o ancor più a quelle di Mario Monti e Matteo Renzi. Perché se è vero che il M5s berciò a lungo contro la casta, alimentato anche dalla campagna stampa tramite libri e articoli della coppia Rizzo-Stella, quando arrivò al potere si guardò bene dallo sforbiciare stipendi. Probabilmente aveva l’idea di non danneggiarsi per gli incarichi post governo. Quindi, per ricostruire la storia dei tagli bisogna tornare al 2011 quando a limare fu il senatore di Scelta civica che con il suo celebre decreto Salva Italia inserì un primo tetto. Ma è stato Renzi nel 2014 a fissare l’asta a 240.000 euro, lasciando una deroga solo per le società quotate. Una decisione che vista a distanza di anni fa persino sorridere. Oggi il senatore semplice di Rignano sull’Arno dichiara 3.217.735 euro. Sì lo scriviamo in lettere: più di 3 milioni. Ma questa è un’altra storia, perché i manager non possono certo andare in giro per il mondo a fare conferenze retribuite. Così arriviamo all’esecutivo Meloni e questa idea di scendere ancora più verso il basso ci stupisce alquanto. Infatti, prima si era provato nel 2022 a fare marcia indietro (ma è stato Mario Draghi a bloccare il tutto) e poi, recentemente, ci si è spinti ad aprire un interessante dibattito sull’abolizione del tetto per fare in modo di attirare professionalità elevate provenienti dal mondo privato, dove - inutile dirlo - le figure apicali guadagnano molto di più. Al dibattito ha partecipato anche La Verità cercando di spiegare che dopo un decennio e con un futuro sempre più complesso nella gestione della macchina dello Stato (basti pensare al Pnrr) sarebbe il caso di non farsi prendere dal populismo e di guardare a chi può essere il meglio per la pubblica amministrazione. Non solo, è intervenuto anche un ministro. «Le posizioni apicali comportano grandi responsabilità e, per ricoprirle, servono competenze specialistiche e capacità manageriali. Puntare a una classe dirigente con queste caratteristiche, significa uscire dai recinti ideologici e guardare al pubblico come al privato», ha detto recentemente Paolo Zangrillo. Il recinto cui fa riferimento il titolare della Funzione pubblica è quello che tiene imbrigliati gli stipendi dei manager e che impedisce loro di andare oltre alla soglia fissata da Renzi. Secondo Zangrillo se l’obiettivo è quello di reclutare e trattenere le migliori professionalità sul mercato del lavoro allora bisogna incominciare a ragionare sulla possibilità di passare il bianchetto sul tetto dei 240.000 euro. Una posizione condivisa da molte figure anche nel mondo sindacale. Insomma, non solo dai diretti interessati. Una posizione che andrebbe ascoltata con attenzione. Invece, questo passo indietro un po’ allarma. Come abbiamo detto sopra non porta alcun risparmio concreto al bilancio e rischia, al contrario, di avviare un spirale non proprio positiva. Primo, non vorremmo che passi l’idea che i manager pubblici siano da punire a prescindere. Secondo, non vorremmo che scatti una fuga in un momento in cui il nuovo Patto di stabilità richiede attenzioni elevatissime. Terzo, c’è un fatto statistico. Manager che gestiscono miliardi e prendono 160.00 euro di stipendio lordo potrebbero trovarsi nella tentazione di commettere illeciti. Un lato umano che tutti noi e soprattutto chi sta al governo dovremmo tenere molto presente. Ci sono i frequenti fatti di cronaca a dimostrarlo. Resta dunque una sola consolazione. Il testo della manovra è in fieri e poi dovrà essere convertito. Potremmo assistere a una marcia indietro. Al momento le indiscrezioni sono vaghe. Una ipotesi è che si applichi soltanto ai vertici (ad e presidente) nominati dalla politica. Cosa che aprirebbe un paradosso. Il numero uno dell’Inps si troverebbe a prendere meno del direttore generale. Perché? Non sapremmo rispondere. Peggio andrebbe se il limite venisse imposto a tutte le società partecipate e pure alle aziende che ricevono contributi pubblici. Immaginate quei direttori di giornali che ogni anno incassano milioni di aiuti per l’editoria che dovrebbero tagliarsi la paga. Ecco, questa sarebbe l’unica parte divertente. Per il resto la questione è seria. E non va sottovalutata. Ci auguriamo che l’Italia prenda esempio dalla Svizzera dove i manager pubblici sono in totale osmosi con le aziende private. Vengono contesi da un lato e dall’altro. Se poi non funzionano vengono mandati a casa. Altrimenti fra qualche anno dovremo ammettere il crollo delle professionalità. Ieri discutendo di questo pericolo, un amico ci ha rammentato un detto americano che è politicamente scorretto ma rende bene l’idea. «If you pay peanuts you get monkeys». Chi paga solo noccioline si circonda di scimmie.
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?
Piergiorgio Odifreddi (Getty Images)