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2020-09-02
Speranza usa l’emergenza per vincolare l’educazione alla didattica a distanza
Roberto Speranza (Ansa)
In un tweet, il direttore dell'Oms Europa, Hans Kluge, non se l'era fatto scappare e commentava: «Tenere aperte le scuole è complesso; non esiste una soluzione a rischio zero; il trasporto è un punto critico per la riapertura; sono vitali evidenze scientifiche più forti» sul tema del Covid-19 negli istituti scolastici. Era in corso il vertice virtuale del 31 agosto, tra i 53 Stati membri della Regione europea dell'Organizzazione mondiale della sanità e stava parlando il nostro presidente dell'Iss, Silvio Brusaferro. «Lezioni apprese dall'Italia», si congratulava Kluge, che poche ore dopo stilava con il ministro della Salute, Roberto Speranza, un comunicato nefasto per la scuola. «È realistico prepararsi e fare piani per rendere disponibile la didattica online a integrazione dell'apprendimento in aula nel prossimo anno scolastico», avvertivano, spiegando nel dettaglio che «ciò sarà necessario durante le chiusure temporanee, può essere un'alternativa per bambini e insegnanti con condizioni di salute particolari, può essere necessario durante quarantene episodiche e può integrare l'apprendimento scolastico in circostanze in cui i bambini alternano la loro presenza a scuola» a periodi in cui siano costretti a rimanere a casa, «per rispettare le esigenze di distanziamento fisico nelle aule più piccole».
Quindi a pochi giorni dalla riapertura delle scuole, mentre i presidi impazziscono a sistemare le aule e i genitori finalmente cominciano a credere che potranno mandare i figli a studiare in classe, il ministro Speranza ha tenuto a mettere nero su bianco che la didattica a distanza (Dad) rimane uno strumento importante. Indispensabile. Paradossalmente, la nota congiunta messa a punto con il direttore dell'Oms Europa faceva seguito alla dichiarazione con cui Speranza annunciava di aver promosso, in rappresentanza dell'Italia, la conferenza virtuale perché «diritto alla salute e diritto all'istruzione devono camminare insieme». In realtà il ministro e l'Oms dimostrano di voler fare di una soluzione d'emergenza, come è stata la Dad durante il lockdown, l'unica alternativa possibile all'incapacità di organizzare la scuola «in presenza», secondo le norme anti Covid. Sappiamo tutti, l'Istat ce l'ha ricordato, che tre famiglie italiane su dieci non hanno un pc o un tablet a casa e che solo il 6,1% dei ragazzi ha un dispositivo personale. Il 16% delle famiglie senza titolo di studio ha un accesso a banda larga fissa o mobile, contro il 95% delle famiglie di laureati. Sappiamo anche che nei mesi dell'emergenza sanitaria la didattica a distanza ha escluso i più deboli e i più svantaggiati: non hanno potuto seguire maestri, insegnanti, lezioni online. L'ha ammesso lo stesso ministero dell'Istruzione: 1,6 milioni di alunni non sono stati raggiunti dalla scuola, che per loro è rimasta drammaticamente chiusa. In ogni caso, lo schermo di un pc non può replicare la presenza di una lezione, di un insegnante, sostituire una relazione educativa costruita assieme ai compagni di classe. Il ricorso esclusivo alla tecnologia informatica non può diventare la condizione ordinaria a cui vengono costretti studenti, tenuti lontano dalle aule solo perché le misure adottate non riusciranno ad azzerare il rischio di trasmissione del virus in ambito scolastico. Eppure il vademecum dell'Iss è stato chiaro, le misure possono ridurre il rischio e «modelli previsionali solidi sull'effetto delle diverse strategie di intervento» andranno sviluppati «man mano che si acquisirà conoscenza» su come il Covid-19 si trasmetterà nelle scuole. Non servono allarmismi né previsioni catastrofiche. Quanti alunni si vogliono abbandonare all'isolamento sociale, costretti (i più fortunati) a collegarsi in Rete da un'abitazione dove non hanno a disposizione uno spazio proprio per concentrarsi e devono così vivere le lezioni virtuali in situazioni di stress? Lo scorso marzo, in un intervento sul sito di informazione Lavoce, il presidente della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto, affermava che nella didattica a distanza «il primo obiettivo rimane quello di non perdere per strada i più deboli e i meno attrezzati». Ricordava, a proposito delle tecnologie digitali, che dall'indagine 2019 dell'Autorità delle comunicazioni «solo nell'8,6 per cento dei casi gli insegnanti le utilizzano per attività progettuali a distanza, mentre per la maggioranza si tratta di consultare fonti o materiali digitali, compilare il registro elettronico o preparare Powerpoint. Insomma, un uso abbastanza rudimentale della Rete, in linea con la didattica frontale, di poco aiuto nella gestione di una classe online per un periodo prolungato, specie nella scuola primaria». Questa sarebbe la capacità di insegnare online dei nostri docenti? In ogni caso, momenti di lavoro per via telematica organizzati dai professori non vogliono dire che gli studenti debbano fruire delle tecnologie in solitaria, magari con problemi di concentrazione e di comprensione di lezioni online. Non ci sarebbe più equità, garantita nel diritto allo studio. Il ministro Speranza, assieme a Kluge, fa sapere: «Stiamo davvero dimostrando che vogliamo garantire che i bambini e gli adolescenti non siano lasciati indietro mentre il mondo continua ad affrontare questa pandemia». Asserisce di voler «preservare l'equità come principio guida fondamentale per garantire che le popolazioni svantaggiate non siano ulteriormente svantaggiate», ma prima ancora che le scuole aprano sta già pensando di chiuderle. «L'importante collegamento tra i settori della salute e dell'istruzione continuerà a crescere mentre navighiamo nella nuova realtà post Covid-19», hanno concluso. Forse intendevano navigare in Internet, costringendo la scuola a fare altrettanto.
Il caos della scuola non ha confini. Salta l'istituto italiano in Eritrea
I banchi con le rotelle e le mascherine in classe, questa volta, non c'entrano. Eppure, il vortice di caos che ha travolto la scuola nelle ultime settimane si fa sentire anche a migliaia di chilometri di distanza. Più di 6.000, per la precisione, e arriva fino ad Asmara, in Eritrea, dove è appena stato chiuso l'istituto italiano omnicomprensivo statale. Si tratta di una delle scuole italiane all'estero più antiche, attiva addirittura dal 1903. «Oltre 1.200 alunni (di cui l'88% eritrei) e circa 120 dipendenti impiegati a pieno regime», come ha spiegato in commissione Esteri al Senato il sottosegretario Riccardo Merlo. Una sede di eccellenza del sistema scolastico italiano all'estero, ricordano i sindacati, che ha formato generazioni di italiani ed eritrei e che ha resistito a due guerre mondiali. Nulla ha potuto però di fronte alla debolezza diplomatica del ministero degli Esteri a guida Luigi Di Maio e alla catena di errori e incomprensioni tra il governo italiano e quello eritreo.
Per capire l'evoluzione della vicenda bisogna tornare al 2012, quando viene siglato l'accordo bilaterale per la gestione dell'istituto. All'articolo 15 del Concordato, i due governi si impegnano a «istituire un comitato tecnico congiunto con il compito di monitorare gli indirizzi pedagogici e altri aspetti relativi al funzionamento delle scuole italiane». Il comitato si sarebbe dovuto riunire almeno due volte l'anno. Peccato che, come lamentano da Asmara e come confermano alcuni insegnanti per anni impegnati in Eritrea, i componenti italiani non siano mai stati nominati. Tra il 2017 e il 2018, poi, le cose sono ulteriormente peggiorate: i motivi sono da ricercare nella riduzione dei fondi per gli istituti di formazione all'estero e l'abolizione del personale supplente italiano. Il massiccio ricorso ai docenti locali avrebbe indebolito l'offerta formativa e generato nel governo di Asmara il sospetto di un progressivo disimpegno da parte italiana. L'accordo, della durata di cinque anni, è scaduto nel 2017 ed è stato rinnovato in maniera unilaterale dal governo eritreo, che ha garantito la licenza a operare. Almeno fino allo scorso 25 marzo. In piena emergenza sanitaria, il direttore dell'ufficio di presidenza dello Stato eritreo ha comunicato il recesso dall'accordo bilaterale e la revoca della licenza. La motivazione? «La decisione da parte del dirigente scolastico, Vilma Candolini, di chiudere l'istituto». In realtà, la dirigente non ha mai disposto la chiusura dell'istituto. Come si legge nella risposta del sottosegretario Merlo a un'interrogazione presentata dalla senatrice di Iv Laura Garavini, l'ambasciatore italiano ad Asmara «aveva semplicemente disposto l'interruzione dell'attività in presenza per via della crescita dei contagi in Italia e per il fatto che diversi docenti si trovavano temporaneamente fuori dal Paese o erano stati posti in quarantena dalle autorità eritree». Inoltre, la scelta del governo eritreo contravviene palesemente all'accordo del 2012, in base al quale «ogni divergenza deve essere risolta attraverso canali diplomatici». Ecco, in questa vicenda sembra che siano proprio i canali diplomatici a non funzionare. Le missive e i colloqui del viceministro degli Esteri, Marina Sereni, non hanno sortito gli effetti sperati. Da Asmara non sono arrivati segnali di apertura né chiarimenti. Contattato dalla Verità, il viceministro ha preferito non rilasciare alcuna dichiarazione. E non sono bastate le sollecitazioni del rappresentante permanente italiano alle Nazioni Unite, che lo scorso primo luglio ha cercato di fare breccia nelle resistenze eritree trattando con il suo omologo a Ginevra. Non è bastata, infine, la lettera che Giuseppe Conte ha spedito al presidente, Isaias Afewerki: il tentativo di chiedere «un approccio costruttivo» si è evidentemente risolto in un buco nell'acqua. «È un brutto segnale per la promozione del nostro Paese nel mondo», commenta Marcello Pacifico, presidente dell'Anief, Associazione nazionale insegnanti e formatori. «Bisogna invertire la tendenza degli ultimi anni, la scuola non può più essere un luogo di risparmio. Avremmo potuto trarre enormi benefici e invece stiamo perdendo la nostra influenza su un terreno importante della storia italiana come il Corno d'Africa». Al governo giallorosso, insomma, non resta che raccogliere i cocci di una situazione che si trascina da anni, ma che mostra, ancora una volta, una scarsa visione da parte dell'Italia sul piano della politica estera.
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In un vertice dell'Oms, il ministro della Salute ha definito «irrinunciabili» le lezioni on line. Per nascondere i ritardi il governo è pronto a stravolgere l'apprendimento.Un gioiello che ha resistito ai conflitti mondiali. Ma non agli errori diplomatici di Luigi Di Maio.Lo speciale contiene due articoli.In un tweet, il direttore dell'Oms Europa, Hans Kluge, non se l'era fatto scappare e commentava: «Tenere aperte le scuole è complesso; non esiste una soluzione a rischio zero; il trasporto è un punto critico per la riapertura; sono vitali evidenze scientifiche più forti» sul tema del Covid-19 negli istituti scolastici. Era in corso il vertice virtuale del 31 agosto, tra i 53 Stati membri della Regione europea dell'Organizzazione mondiale della sanità e stava parlando il nostro presidente dell'Iss, Silvio Brusaferro. «Lezioni apprese dall'Italia», si congratulava Kluge, che poche ore dopo stilava con il ministro della Salute, Roberto Speranza, un comunicato nefasto per la scuola. «È realistico prepararsi e fare piani per rendere disponibile la didattica online a integrazione dell'apprendimento in aula nel prossimo anno scolastico», avvertivano, spiegando nel dettaglio che «ciò sarà necessario durante le chiusure temporanee, può essere un'alternativa per bambini e insegnanti con condizioni di salute particolari, può essere necessario durante quarantene episodiche e può integrare l'apprendimento scolastico in circostanze in cui i bambini alternano la loro presenza a scuola» a periodi in cui siano costretti a rimanere a casa, «per rispettare le esigenze di distanziamento fisico nelle aule più piccole». Quindi a pochi giorni dalla riapertura delle scuole, mentre i presidi impazziscono a sistemare le aule e i genitori finalmente cominciano a credere che potranno mandare i figli a studiare in classe, il ministro Speranza ha tenuto a mettere nero su bianco che la didattica a distanza (Dad) rimane uno strumento importante. Indispensabile. Paradossalmente, la nota congiunta messa a punto con il direttore dell'Oms Europa faceva seguito alla dichiarazione con cui Speranza annunciava di aver promosso, in rappresentanza dell'Italia, la conferenza virtuale perché «diritto alla salute e diritto all'istruzione devono camminare insieme». In realtà il ministro e l'Oms dimostrano di voler fare di una soluzione d'emergenza, come è stata la Dad durante il lockdown, l'unica alternativa possibile all'incapacità di organizzare la scuola «in presenza», secondo le norme anti Covid. Sappiamo tutti, l'Istat ce l'ha ricordato, che tre famiglie italiane su dieci non hanno un pc o un tablet a casa e che solo il 6,1% dei ragazzi ha un dispositivo personale. Il 16% delle famiglie senza titolo di studio ha un accesso a banda larga fissa o mobile, contro il 95% delle famiglie di laureati. Sappiamo anche che nei mesi dell'emergenza sanitaria la didattica a distanza ha escluso i più deboli e i più svantaggiati: non hanno potuto seguire maestri, insegnanti, lezioni online. L'ha ammesso lo stesso ministero dell'Istruzione: 1,6 milioni di alunni non sono stati raggiunti dalla scuola, che per loro è rimasta drammaticamente chiusa. In ogni caso, lo schermo di un pc non può replicare la presenza di una lezione, di un insegnante, sostituire una relazione educativa costruita assieme ai compagni di classe. Il ricorso esclusivo alla tecnologia informatica non può diventare la condizione ordinaria a cui vengono costretti studenti, tenuti lontano dalle aule solo perché le misure adottate non riusciranno ad azzerare il rischio di trasmissione del virus in ambito scolastico. Eppure il vademecum dell'Iss è stato chiaro, le misure possono ridurre il rischio e «modelli previsionali solidi sull'effetto delle diverse strategie di intervento» andranno sviluppati «man mano che si acquisirà conoscenza» su come il Covid-19 si trasmetterà nelle scuole. Non servono allarmismi né previsioni catastrofiche. Quanti alunni si vogliono abbandonare all'isolamento sociale, costretti (i più fortunati) a collegarsi in Rete da un'abitazione dove non hanno a disposizione uno spazio proprio per concentrarsi e devono così vivere le lezioni virtuali in situazioni di stress? Lo scorso marzo, in un intervento sul sito di informazione Lavoce, il presidente della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto, affermava che nella didattica a distanza «il primo obiettivo rimane quello di non perdere per strada i più deboli e i meno attrezzati». Ricordava, a proposito delle tecnologie digitali, che dall'indagine 2019 dell'Autorità delle comunicazioni «solo nell'8,6 per cento dei casi gli insegnanti le utilizzano per attività progettuali a distanza, mentre per la maggioranza si tratta di consultare fonti o materiali digitali, compilare il registro elettronico o preparare Powerpoint. Insomma, un uso abbastanza rudimentale della Rete, in linea con la didattica frontale, di poco aiuto nella gestione di una classe online per un periodo prolungato, specie nella scuola primaria». Questa sarebbe la capacità di insegnare online dei nostri docenti? In ogni caso, momenti di lavoro per via telematica organizzati dai professori non vogliono dire che gli studenti debbano fruire delle tecnologie in solitaria, magari con problemi di concentrazione e di comprensione di lezioni online. Non ci sarebbe più equità, garantita nel diritto allo studio. Il ministro Speranza, assieme a Kluge, fa sapere: «Stiamo davvero dimostrando che vogliamo garantire che i bambini e gli adolescenti non siano lasciati indietro mentre il mondo continua ad affrontare questa pandemia». Asserisce di voler «preservare l'equità come principio guida fondamentale per garantire che le popolazioni svantaggiate non siano ulteriormente svantaggiate», ma prima ancora che le scuole aprano sta già pensando di chiuderle. «L'importante collegamento tra i settori della salute e dell'istruzione continuerà a crescere mentre navighiamo nella nuova realtà post Covid-19», hanno concluso. Forse intendevano navigare in Internet, costringendo la scuola a fare altrettanto.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/speranza-usa-lemergenza-per-vincolare-leducazione-alla-didattica-a-distanza-2647426673.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-caos-della-scuola-non-ha-confini-salta-l-istituto-italiano-in-eritrea" data-post-id="2647426673" data-published-at="1598986539" data-use-pagination="False"> Il caos della scuola non ha confini. Salta l'istituto italiano in Eritrea I banchi con le rotelle e le mascherine in classe, questa volta, non c'entrano. Eppure, il vortice di caos che ha travolto la scuola nelle ultime settimane si fa sentire anche a migliaia di chilometri di distanza. Più di 6.000, per la precisione, e arriva fino ad Asmara, in Eritrea, dove è appena stato chiuso l'istituto italiano omnicomprensivo statale. Si tratta di una delle scuole italiane all'estero più antiche, attiva addirittura dal 1903. «Oltre 1.200 alunni (di cui l'88% eritrei) e circa 120 dipendenti impiegati a pieno regime», come ha spiegato in commissione Esteri al Senato il sottosegretario Riccardo Merlo. Una sede di eccellenza del sistema scolastico italiano all'estero, ricordano i sindacati, che ha formato generazioni di italiani ed eritrei e che ha resistito a due guerre mondiali. Nulla ha potuto però di fronte alla debolezza diplomatica del ministero degli Esteri a guida Luigi Di Maio e alla catena di errori e incomprensioni tra il governo italiano e quello eritreo. Per capire l'evoluzione della vicenda bisogna tornare al 2012, quando viene siglato l'accordo bilaterale per la gestione dell'istituto. All'articolo 15 del Concordato, i due governi si impegnano a «istituire un comitato tecnico congiunto con il compito di monitorare gli indirizzi pedagogici e altri aspetti relativi al funzionamento delle scuole italiane». Il comitato si sarebbe dovuto riunire almeno due volte l'anno. Peccato che, come lamentano da Asmara e come confermano alcuni insegnanti per anni impegnati in Eritrea, i componenti italiani non siano mai stati nominati. Tra il 2017 e il 2018, poi, le cose sono ulteriormente peggiorate: i motivi sono da ricercare nella riduzione dei fondi per gli istituti di formazione all'estero e l'abolizione del personale supplente italiano. Il massiccio ricorso ai docenti locali avrebbe indebolito l'offerta formativa e generato nel governo di Asmara il sospetto di un progressivo disimpegno da parte italiana. L'accordo, della durata di cinque anni, è scaduto nel 2017 ed è stato rinnovato in maniera unilaterale dal governo eritreo, che ha garantito la licenza a operare. Almeno fino allo scorso 25 marzo. In piena emergenza sanitaria, il direttore dell'ufficio di presidenza dello Stato eritreo ha comunicato il recesso dall'accordo bilaterale e la revoca della licenza. La motivazione? «La decisione da parte del dirigente scolastico, Vilma Candolini, di chiudere l'istituto». In realtà, la dirigente non ha mai disposto la chiusura dell'istituto. Come si legge nella risposta del sottosegretario Merlo a un'interrogazione presentata dalla senatrice di Iv Laura Garavini, l'ambasciatore italiano ad Asmara «aveva semplicemente disposto l'interruzione dell'attività in presenza per via della crescita dei contagi in Italia e per il fatto che diversi docenti si trovavano temporaneamente fuori dal Paese o erano stati posti in quarantena dalle autorità eritree». Inoltre, la scelta del governo eritreo contravviene palesemente all'accordo del 2012, in base al quale «ogni divergenza deve essere risolta attraverso canali diplomatici». Ecco, in questa vicenda sembra che siano proprio i canali diplomatici a non funzionare. Le missive e i colloqui del viceministro degli Esteri, Marina Sereni, non hanno sortito gli effetti sperati. Da Asmara non sono arrivati segnali di apertura né chiarimenti. Contattato dalla Verità, il viceministro ha preferito non rilasciare alcuna dichiarazione. E non sono bastate le sollecitazioni del rappresentante permanente italiano alle Nazioni Unite, che lo scorso primo luglio ha cercato di fare breccia nelle resistenze eritree trattando con il suo omologo a Ginevra. Non è bastata, infine, la lettera che Giuseppe Conte ha spedito al presidente, Isaias Afewerki: il tentativo di chiedere «un approccio costruttivo» si è evidentemente risolto in un buco nell'acqua. «È un brutto segnale per la promozione del nostro Paese nel mondo», commenta Marcello Pacifico, presidente dell'Anief, Associazione nazionale insegnanti e formatori. «Bisogna invertire la tendenza degli ultimi anni, la scuola non può più essere un luogo di risparmio. Avremmo potuto trarre enormi benefici e invece stiamo perdendo la nostra influenza su un terreno importante della storia italiana come il Corno d'Africa». Al governo giallorosso, insomma, non resta che raccogliere i cocci di una situazione che si trascina da anni, ma che mostra, ancora una volta, una scarsa visione da parte dell'Italia sul piano della politica estera.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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