2020-09-02
Speranza usa l’emergenza per vincolare l’educazione alla didattica a distanza
In un vertice dell'Oms, il ministro della Salute ha definito «irrinunciabili» le lezioni on line. Per nascondere i ritardi il governo è pronto a stravolgere l'apprendimento.Un gioiello che ha resistito ai conflitti mondiali. Ma non agli errori diplomatici di Luigi Di Maio.Lo speciale contiene due articoli.In un tweet, il direttore dell'Oms Europa, Hans Kluge, non se l'era fatto scappare e commentava: «Tenere aperte le scuole è complesso; non esiste una soluzione a rischio zero; il trasporto è un punto critico per la riapertura; sono vitali evidenze scientifiche più forti» sul tema del Covid-19 negli istituti scolastici. Era in corso il vertice virtuale del 31 agosto, tra i 53 Stati membri della Regione europea dell'Organizzazione mondiale della sanità e stava parlando il nostro presidente dell'Iss, Silvio Brusaferro. «Lezioni apprese dall'Italia», si congratulava Kluge, che poche ore dopo stilava con il ministro della Salute, Roberto Speranza, un comunicato nefasto per la scuola. «È realistico prepararsi e fare piani per rendere disponibile la didattica online a integrazione dell'apprendimento in aula nel prossimo anno scolastico», avvertivano, spiegando nel dettaglio che «ciò sarà necessario durante le chiusure temporanee, può essere un'alternativa per bambini e insegnanti con condizioni di salute particolari, può essere necessario durante quarantene episodiche e può integrare l'apprendimento scolastico in circostanze in cui i bambini alternano la loro presenza a scuola» a periodi in cui siano costretti a rimanere a casa, «per rispettare le esigenze di distanziamento fisico nelle aule più piccole». Quindi a pochi giorni dalla riapertura delle scuole, mentre i presidi impazziscono a sistemare le aule e i genitori finalmente cominciano a credere che potranno mandare i figli a studiare in classe, il ministro Speranza ha tenuto a mettere nero su bianco che la didattica a distanza (Dad) rimane uno strumento importante. Indispensabile. Paradossalmente, la nota congiunta messa a punto con il direttore dell'Oms Europa faceva seguito alla dichiarazione con cui Speranza annunciava di aver promosso, in rappresentanza dell'Italia, la conferenza virtuale perché «diritto alla salute e diritto all'istruzione devono camminare insieme». In realtà il ministro e l'Oms dimostrano di voler fare di una soluzione d'emergenza, come è stata la Dad durante il lockdown, l'unica alternativa possibile all'incapacità di organizzare la scuola «in presenza», secondo le norme anti Covid. Sappiamo tutti, l'Istat ce l'ha ricordato, che tre famiglie italiane su dieci non hanno un pc o un tablet a casa e che solo il 6,1% dei ragazzi ha un dispositivo personale. Il 16% delle famiglie senza titolo di studio ha un accesso a banda larga fissa o mobile, contro il 95% delle famiglie di laureati. Sappiamo anche che nei mesi dell'emergenza sanitaria la didattica a distanza ha escluso i più deboli e i più svantaggiati: non hanno potuto seguire maestri, insegnanti, lezioni online. L'ha ammesso lo stesso ministero dell'Istruzione: 1,6 milioni di alunni non sono stati raggiunti dalla scuola, che per loro è rimasta drammaticamente chiusa. In ogni caso, lo schermo di un pc non può replicare la presenza di una lezione, di un insegnante, sostituire una relazione educativa costruita assieme ai compagni di classe. Il ricorso esclusivo alla tecnologia informatica non può diventare la condizione ordinaria a cui vengono costretti studenti, tenuti lontano dalle aule solo perché le misure adottate non riusciranno ad azzerare il rischio di trasmissione del virus in ambito scolastico. Eppure il vademecum dell'Iss è stato chiaro, le misure possono ridurre il rischio e «modelli previsionali solidi sull'effetto delle diverse strategie di intervento» andranno sviluppati «man mano che si acquisirà conoscenza» su come il Covid-19 si trasmetterà nelle scuole. Non servono allarmismi né previsioni catastrofiche. Quanti alunni si vogliono abbandonare all'isolamento sociale, costretti (i più fortunati) a collegarsi in Rete da un'abitazione dove non hanno a disposizione uno spazio proprio per concentrarsi e devono così vivere le lezioni virtuali in situazioni di stress? Lo scorso marzo, in un intervento sul sito di informazione Lavoce, il presidente della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto, affermava che nella didattica a distanza «il primo obiettivo rimane quello di non perdere per strada i più deboli e i meno attrezzati». Ricordava, a proposito delle tecnologie digitali, che dall'indagine 2019 dell'Autorità delle comunicazioni «solo nell'8,6 per cento dei casi gli insegnanti le utilizzano per attività progettuali a distanza, mentre per la maggioranza si tratta di consultare fonti o materiali digitali, compilare il registro elettronico o preparare Powerpoint. Insomma, un uso abbastanza rudimentale della Rete, in linea con la didattica frontale, di poco aiuto nella gestione di una classe online per un periodo prolungato, specie nella scuola primaria». Questa sarebbe la capacità di insegnare online dei nostri docenti? In ogni caso, momenti di lavoro per via telematica organizzati dai professori non vogliono dire che gli studenti debbano fruire delle tecnologie in solitaria, magari con problemi di concentrazione e di comprensione di lezioni online. Non ci sarebbe più equità, garantita nel diritto allo studio. Il ministro Speranza, assieme a Kluge, fa sapere: «Stiamo davvero dimostrando che vogliamo garantire che i bambini e gli adolescenti non siano lasciati indietro mentre il mondo continua ad affrontare questa pandemia». Asserisce di voler «preservare l'equità come principio guida fondamentale per garantire che le popolazioni svantaggiate non siano ulteriormente svantaggiate», ma prima ancora che le scuole aprano sta già pensando di chiuderle. «L'importante collegamento tra i settori della salute e dell'istruzione continuerà a crescere mentre navighiamo nella nuova realtà post Covid-19», hanno concluso. Forse intendevano navigare in Internet, costringendo la scuola a fare altrettanto.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/speranza-usa-lemergenza-per-vincolare-leducazione-alla-didattica-a-distanza-2647426673.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-caos-della-scuola-non-ha-confini-salta-l-istituto-italiano-in-eritrea" data-post-id="2647426673" data-published-at="1598986539" data-use-pagination="False"> Il caos della scuola non ha confini. Salta l'istituto italiano in Eritrea I banchi con le rotelle e le mascherine in classe, questa volta, non c'entrano. Eppure, il vortice di caos che ha travolto la scuola nelle ultime settimane si fa sentire anche a migliaia di chilometri di distanza. Più di 6.000, per la precisione, e arriva fino ad Asmara, in Eritrea, dove è appena stato chiuso l'istituto italiano omnicomprensivo statale. Si tratta di una delle scuole italiane all'estero più antiche, attiva addirittura dal 1903. «Oltre 1.200 alunni (di cui l'88% eritrei) e circa 120 dipendenti impiegati a pieno regime», come ha spiegato in commissione Esteri al Senato il sottosegretario Riccardo Merlo. Una sede di eccellenza del sistema scolastico italiano all'estero, ricordano i sindacati, che ha formato generazioni di italiani ed eritrei e che ha resistito a due guerre mondiali. Nulla ha potuto però di fronte alla debolezza diplomatica del ministero degli Esteri a guida Luigi Di Maio e alla catena di errori e incomprensioni tra il governo italiano e quello eritreo. Per capire l'evoluzione della vicenda bisogna tornare al 2012, quando viene siglato l'accordo bilaterale per la gestione dell'istituto. All'articolo 15 del Concordato, i due governi si impegnano a «istituire un comitato tecnico congiunto con il compito di monitorare gli indirizzi pedagogici e altri aspetti relativi al funzionamento delle scuole italiane». Il comitato si sarebbe dovuto riunire almeno due volte l'anno. Peccato che, come lamentano da Asmara e come confermano alcuni insegnanti per anni impegnati in Eritrea, i componenti italiani non siano mai stati nominati. Tra il 2017 e il 2018, poi, le cose sono ulteriormente peggiorate: i motivi sono da ricercare nella riduzione dei fondi per gli istituti di formazione all'estero e l'abolizione del personale supplente italiano. Il massiccio ricorso ai docenti locali avrebbe indebolito l'offerta formativa e generato nel governo di Asmara il sospetto di un progressivo disimpegno da parte italiana. L'accordo, della durata di cinque anni, è scaduto nel 2017 ed è stato rinnovato in maniera unilaterale dal governo eritreo, che ha garantito la licenza a operare. Almeno fino allo scorso 25 marzo. In piena emergenza sanitaria, il direttore dell'ufficio di presidenza dello Stato eritreo ha comunicato il recesso dall'accordo bilaterale e la revoca della licenza. La motivazione? «La decisione da parte del dirigente scolastico, Vilma Candolini, di chiudere l'istituto». In realtà, la dirigente non ha mai disposto la chiusura dell'istituto. Come si legge nella risposta del sottosegretario Merlo a un'interrogazione presentata dalla senatrice di Iv Laura Garavini, l'ambasciatore italiano ad Asmara «aveva semplicemente disposto l'interruzione dell'attività in presenza per via della crescita dei contagi in Italia e per il fatto che diversi docenti si trovavano temporaneamente fuori dal Paese o erano stati posti in quarantena dalle autorità eritree». Inoltre, la scelta del governo eritreo contravviene palesemente all'accordo del 2012, in base al quale «ogni divergenza deve essere risolta attraverso canali diplomatici». Ecco, in questa vicenda sembra che siano proprio i canali diplomatici a non funzionare. Le missive e i colloqui del viceministro degli Esteri, Marina Sereni, non hanno sortito gli effetti sperati. Da Asmara non sono arrivati segnali di apertura né chiarimenti. Contattato dalla Verità, il viceministro ha preferito non rilasciare alcuna dichiarazione. E non sono bastate le sollecitazioni del rappresentante permanente italiano alle Nazioni Unite, che lo scorso primo luglio ha cercato di fare breccia nelle resistenze eritree trattando con il suo omologo a Ginevra. Non è bastata, infine, la lettera che Giuseppe Conte ha spedito al presidente, Isaias Afewerki: il tentativo di chiedere «un approccio costruttivo» si è evidentemente risolto in un buco nell'acqua. «È un brutto segnale per la promozione del nostro Paese nel mondo», commenta Marcello Pacifico, presidente dell'Anief, Associazione nazionale insegnanti e formatori. «Bisogna invertire la tendenza degli ultimi anni, la scuola non può più essere un luogo di risparmio. Avremmo potuto trarre enormi benefici e invece stiamo perdendo la nostra influenza su un terreno importante della storia italiana come il Corno d'Africa». Al governo giallorosso, insomma, non resta che raccogliere i cocci di una situazione che si trascina da anni, ma che mostra, ancora una volta, una scarsa visione da parte dell'Italia sul piano della politica estera.