2023-06-26
Sotto i raggi del sole, con misura. Storia e segreti della tintarella
Per secoli la carnagione candida è stata associata alla nobiltà, segno di sottrazione ai lavori umili della terra. Negli ultimi decenni è cambiato tutto: il vero lusso è essere abbronzati anche in inverno, magari in Polinesia.Nel Cantico delle creature, anche conosciuto come Cantico di Frate Sole, San Francesco ringrazia il Signore: «Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui; et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione». Cioè «Lodato sii, mio Signore, tu con tutte le tue creature, specialmente per il signor fratello sole, il quale è la luce del giorno, e tu ci dai la luce tramite lui; e lui è bello e raggiante con grande splendore: te, o Altissimo, simboleggia». Sono le parole con le quali il santo cristiano ringrazia per il sole, dedicandosi poi al resto del firmamento, la luna e le stelle, agli elementi, dal vento al fuoco, insomma a tutto il creato, uomo compreso. Non sono molte le celebrazioni artistiche contemporanee del sole, sebbene abbastanza recentemente un ispirato Fatboy Slim cantasse «She said i wanna go out on a picnic with you baby / Out under the big bright yellow sun» nei brani Talking about my baby e Song for shelter, ripetendo come in una eco ad libitum questo verso dedicato al sole. Era poco oltre 20 anni fa, nel bell’album Halfway between the gutter and the stars del 2000, la cui copertina per di più ritraeva una donna dalla vita in giù che camminava in spiaggia, col sole che faceva capolino tra le sue gambe in ombra, una specie di Origine du monde, la tela di Gustave Courbet del 1866 che rappresenta una vulva, una sorta di Origine du monde, dicevamo, ma più cosmogonica che ginecologica. Oggi, per noi, il sole è principalmente il mezzo per l’abbronzatura e abbronzarsi è una ovvia prassi vacanziera estiva, qualcosa che diamo per scontato. Ma non è sempre stato così. Fin dai tempi più antichi, essere arrossati o bruniti per l’esposizione al sole era considerato segno di povertà: i poveri, infatti, erano quelli che lavoravano nei campi, non riuscendo ad evitare il sole più di tanto, mentre i nobili, che certamente non bazzicavano la terra da zappare, erano riconoscibili anche dalla pelle, perlacea poiché evitavano il sole anche in altre circostanze. Il povero era abbronzato, il nobile e ricco era pallido anche a Ferragosto. Anche il maquillage, che oggi pullula di bronzer cioè terre abbronzanti, in polvere o crema, talvolta arricchite di pigmenti dorati per brillare letteralmente, oltre che sembrare baciati dal sole, in passato, pensate, serviva l’effetto contrario: i nobili coloravano il proprio viso di cipria bianca, proprio per esaltare il candore di una pelle preservata dal sole e ostile ad esso anche nella finzione del trucco. Nel romanzo di Pierre de Marivaux Le paysan parvenu, 1734-5, tradotto in italiano col titolo Il villan rifatto ovvero Le memorie del signor ***, la pelle abbronzata è associata all’umiltà: «Mais est-il vrai qu’il n’y a que quatre ou cinq mois que vous arrivez de campagne? On ne le croirait point à vous voir, vous n’êtes point hâlé, vous n’avez point l’air campagnard; il a le plus beau teint du monde» dice una gran dama al protagonista ossia «Ma è vero che sono appena quattro o cinque mesi che siete arrivato dalla campagna? Non lo si direbbe a vedervi, non siete abbronzato, non avete affatto l’aria del campagnolo; ma il colorito più bello del mondo» cioè chiaro. Questo disvalore dell’abbronzatura è poi completamente ribaltato in un valore positivo. Tutto è cambiato quando si è cominciato a scoprire che esporre la pelle a un po’ di sole faceva bene. Non molto tempo dopo le parole di Marivaux, la bronzatura, cioè la trasformazione cromatica bronzeo-dorata della pelle, acquisirà una connotazione positiva col nome «cura del sole»: siamo alla fine dell’Ottocento, un abbondante secolo dopo il romanzo francese, in Germania, ma la palla ripasserà entro breve alla patria del croissant, dove la stilista Coco Chanel alla fine di una vacanza in Cote d’Azur nel 1923 si mostrerà a-a-bbronzatissima, come canterà Edoardo Vianello nel 1963 (molto simpatica la versione di Brusco del 2002). Trasferirsi in vacanza lontano dalla città o anche semplicemente andare alla spiaggia più vicina e perfino bagnarsi nelle fonti d’acqua urbana, in quei fiumi un tempo usati come mari da chi era talmente povero da non poter arrivare nemmeno alla spiaggia più vicina, come si vede anche nel film Poveri ma belli (1957), con Salvatore che fa il bagnino sul Tevere e i romani, poveri, appunto, che vanno ad abbronzarsi allo stabilimento che è il barcone del Ciriola, diventa un rito estivo: il corpo non va più protetto dal sole, ma esposto, in costume, e abbronzato. Col passare successivo dei decenni, l’abbronzatura sancirà definitivamente lo status opposto a quello rappresentato fino a qualche secolo prima: l’abbronzato è colui che viaggia, che si abbronza tra un weekend a Ibiza e una vacanza lunga in Polinesia. Il povero, in estate, ha la pelle bianca perché lavora chiuso in ufficio o in fabbrica. Naturalmente stiamo riportando lo stereotipo: va anche aggiunto che molti, pur andando in vacanza, non amano abbronzarsi o che c’è chi ama, sì, viaggiare, ma non verso il mare, quindi non tornerà a casa così scurito.Perché la nostra pelle esposta al sole si abbronza? All’origine ci sono i raggi del sole, che sono di tre tipi. Come spiega on line l’Istituto Superiore di Sanità, «la pericolosità» per l’uomo dei raggi UV aumenta al diminuire della lunghezza d’onda e, di conseguenza, all’aumentare della frequenza. La maggior parte dei raggi UV che raggiungono la superficie terrestre sono UVA e, in piccola parte, UVB, mentre gli UVC sono totalmente assorbiti dall’atmosfera. Inoltre, i livelli di UV sono più alti al crescere dell’altitudine (ogni 1000 m di altezza i livelli di UV crescono del 10-12%) e dell’altezza del Sole (specialmente verso mezzogiorno nei mesi estivi) e al diminuire della latitudine e della nuvolosità. Altri fattori ambientali che influenzano i livelli di UV sono lo strato di ozono e la capacità riflettente della superficie terrestre (per esempio, la neve riflette circa l’80% delle radiazioni UV, la sabbia asciutta della spiaggia circa il 15% e la schiuma del mare il 25%)». Vediamoli nel dettaglio. I raggi ultravioletti UVC hanno una lunghezza d’onda tra 100 e 280 nanometri che sono molto dannosi ma, per fortuna, sono respinti dallo strato d’ozono. Se non lo fossero, potrebbero ustionare senza neanche abbronzare. I raggi ultravioletti UVB rappresentano circa il 2% dei raggi che arrivano sulla Terra, hanno una lunghezza d’onda tra 280 e 315 nm, non superano la parte più superficiale della pelle, tuttavia hanno la capacità di alterare il materiale genetico nel Dna e favorire i tumori cutanei oltre ad essere più potenti degli UVA nel procurare eritema. I raggi UVA, infine, hanno una lunghezza d’onda di 315/400 nm, sono circa il 98% dei raggi che arrivano sulla Terra, abbronzano più dei raggi UVB e possono danneggiare la pelle perché hanno capacità di penetrare in profondità nel derma distruggendo capillari, collagene ed elastina e altresì provocando eritemi. Esposta ai raggi ultravioletti del sole oppure a lampade artificiali che li imitano (ormai abbreviamo in «fare la lampada» intendendo «abbronzarci tramite la lampada artificiale che imita il sole»), la pelle reagisce ai raggi solari UVB rilasciando il pigmento melanina. In soldoni, i raggi UVA sono responsabili dell’invecchiamento cutaneo, gli UVB sono responsabili di abbronzatura e scottature. A produrre melanina sono i melanociti, cellule dell’epidermide che agiscono in questa maniera per proteggere il derma dai danni che subirebbe se esse non reagissero così. La melanina prodotta dai melanociti assorbe i raggi UVB, ossidandosi e degradandosi e stimolando la produzione di ulteriore melanina. Questo fenomeno serve appunto a proteggere lo strato inferiore della pelle, ma fino a un certo punto. Più melanina produciamo, più ci abbronziamo. Quando ci scottiamo o addirittura ustioniamo è perché abbiamo esposto la pelle ai raggi UVB per più tempo di quello che potevamo, anche se ci siamo aiutati a schermarli con una protezione solare, e i nostri melanociti non riescono a produrre ulteriore melanina protettiva. ll meccanismo protettivo di produzione di melanina, infatti, funziona fino a un certo punto, non oltre: dipende dal nostro Dna quanta melanina riusciamo a produrre, ecco perché a parità di esposizione al sole c’è chi si abbronza di più e chi di meno ed ecco perché se stiamo a tempo indeterminato sotto il sole a un certo punto dell’esposizione continuata smetteremo di produrre melanina, bruciandoci. Oltre una quota geneticamente determinata, la nostra pelle non produce ulteriore melanina, anche se l’esposizione solare continua. Le persone e gli animali albini non producono pigmenti e quindi l’esposizione alla luce solare non dà luogo ad alcun meccanismo protettivo da parte della pelle e perfino la visione oculare è fortemente osteggiata dal sole. L’abbronzatura, che si manifesta per proteggere gli strati più profondi della pelle, ha sì l’equivalenza di un fattore protettivo, ma molto molto basso e per determinato, e poco, tempo.
La sede della Corta penale internazionale dell’Aia (Ansa)