2019-05-05
Solite prove di censura al Salone del libro
Altaforte, editore vicino a CasaPound, ha uno spazio regolarmente pagato alla kermesse. Ma imbarazza il direttore, che bacchetta: «Rivedrei i criteri». Il consulente Christian Raimo fa la lista di proscrizione degli autori che «sostengono il razzismo», poi si dimette.Poteva mancare, in questa nervosa e cupa campagna elettorale, un bell'atto d'intolleranza da parte degli autoproclamati «tolleranti»? Anzi: un atto - direbbero loro - fascista da parte degli antifascisti in servizio permanente? No. E infatti non è mancato. Le prove generali c'erano già state il 1° maggio, ormai considerato un'appendice, una protesi del 25 aprile. E un altro sussulto s'era registrato alla notizia che Matteo Salvini ha appena pubblicato un libro-intervista per le edizioni Altaforte, vicine a CasaPound. Apriti cielo! Gli stessi intellettuali abituati da 20 anni a pubblicare per le case editrici berlusconiane (salvo descrivere Silvio Berlusconi come il demonio, prima e dopo l'incasso dei diritti d'autore) sono insorti invocando un esorcismo contro il nuovo diavolo, cioè Salvini. Capi d'imputazione? Pubblica con Altaforte, e ha pure indossato un giacchetto griffato Pivert, brand d'abbigliamento che fa capo al medesimo proprietario. Dunque, delle due l'una: o Salvini è fascista, o ammicca ai fascisti. Anzi, per far prima: entrambe le cose. Con queste brillanti premesse, la tempesta si è scatenata nelle ultime 36 ore, in vista dell'apertura, giovedì prossimo, del Salone del Libro di Torino. Dove - udite udite - tra centinaia di stand, ci sarà anche uno spazio (tra gli 8 e 10 metri quadrati, già regolarmente prenotati e pagati) a disposizione della casa editrice Altaforte. Sacrilegio! È sceso in campo il direttore del Salone, Nicola Lagioia. Per ricacciare in gola agli intolleranti un'inaccettabile richiesta di censura? Non esattamente. Per precisare - invece - che il libro di Salvini non sarà presentato, e che nel Salone - certo - sono «accolte tutte le opinioni», ma «nessuna libertà può dirsi tale se non è tuttavia priva di argini». Potete immaginare chi siano gli addetti agli «argini». Poi, brandendo come un'arma la memoria di Primo Levi, Lagioia aggiunge che nel programma non si può dar spazio a nulla che sia «in odore» di apologia di fascismo. A seguire, il più classico scaricabarile: «L'iscrizione per gli stand ha altre regole, anche perché qui il principio di opportunità culturale s'intreccia con quello di legalità». Insomma, Lagioia sembra quasi rammaricarsi del fatto che le leggi non consentano di escludere reprobi e sgraditi. E ancora: «Per quanto riguarda la gestione degli stand, invito chi ha potere decisionale a un dibattito aperto sul tema». Nostra libera traduzione: chiedete all'ufficio commerciale. Ma, se Lagioia si è furbescamente messo in corsia d'emergenza, c'è chi si è spostato in corsia di sorpasso. Si tratta di Christian Raimo, a sua volta membro del comitato editoriale del Salone, scrittore - diciamo - non baciato dalla fortuna (non giureremmo neanche sul bacio da parte del talento), noto a un pubblico assai ristretto per qualche chiassata televisiva e sui social. In pieno furore antifascista («l'antifascismo o è militante o non è», fa sapere), Raimo si è scatenato l'altro ieri sulla sua pagina Facebook, diramando la lista di chi andrebbe imbavagliato, e aggiungendo offese da querela. Giudicate voi: «Alessandro Giuli, Francesco Borgonovo, Adriano Scianca, Francesco Giubilei, tutti i giorni in tv, sui giornali, con i loro libri sostengono un razzismo esplicito». Avete letto bene: una serie di voci - incluso uno dei nostri vicedirettori e un'altra firma della Verità - si sono ritrovate addosso un insulto infamante e inaccettabile. Ma ce n'è anche per altri, ad esempio per Pietrangelo Buttafuoco («…al Salone non gli darei tutto questo spazio», sentenzia Raimo).Purtroppo per lui, a Raimo ogni tanto scappa la frizione, e forse ieri pomeriggio se n'è accorto, rassegando le dimissioni. Del resto, commentando l'arrivo di Marcello Foa alla presidenza Rai, aveva chiosato: «…presto, sono convinto, arriverà non l'opposizione, non la critica, non il contrasto, non il conflitto. Presto arriverà la vendetta e sarà spietata». Sta di fatto che ieri - oplà - il post con l'accusa di «razzismo esplicito» è magicamente sparito dalla sua bacheca. La cautela legale deve forse aver avuto il sopravvento sul coraggio. Retromarcia (antifascista) su Roma? In compenso, sulla pagina Facebook del Salone del libro, è comparso ieri un post del comitato d'indirizzo della manifestazione. A giudicare dai commenti - non di rado assai critici - se l'intenzione era quella di chiudere la polemica, il post ha invece gettato altra benzina sul fuoco. Si cita l'articolo 21 della Costituzione (sulla libertà di pensiero), e poi si evocano le leggi Scelba e Mancino, quelle che puniscono l'apologia di fascismo. In sostanza, il Salone dice: finché qualcuno non è stato condannato in base a quelle norme, può affittare uno stand. Toppa peggiore del buco: anziché alzare la bandiera della libertà d'espressione, il Salone sembra rimettere tutto al giudizio della magistratura, quasi ritenendo che siano i giudici a dover stabilire chi possa parlare e chi no. Vale infine la pena di ricordare un paio di cose. Primo: anni fa alcuni dei pericolosi antidemocratici nel mirino di Raimo si mobilitarono in nome della libertà d'espressione, anche con una raccolta di firme, quando invece il solito giretto di intellettuali di sinistra e filopalestinesi pretendeva di impedire che Israele fosse il Paese ospite del Salone. Secondo: il Salone riceve consistenti finanziamenti pubblici: statali, regionali, comunali. A maggior ragione, i suoi capi, sottocapi e consulenti dovrebbero sentir l'obbligo di rispettare anche le opinioni che non condividono.
Charlie Kirk (Getty Images)
Alan Friedman, Cathy Latorre e Stephen King (Ansa)