Sta per finire quella che tra il serio e il faceto nelle stanze di Palazzo Vidoni, ministero della Pa, è stata definita come la settimana delle firme. Lunedì è toccato ai 430.000 dipendenti di Comuni, Regioni e Province che grazie al rinnovo del contratto di categoria vedranno le buste paga gonfiarsi con più di 150 euro lordi al mese. Mercoledì è stata la volta dei lavoratori della scuola, 1 milione e 260.000 lavoratori (850.000 sono docenti) che oltre agli aumenti di cui sopra porteranno a casa arretrati da 1.640 euro per gli insegnanti e 1.400 euro per il personale Ata (amministrativi tecnici e ausiliari). E il giorno prima, in questo caso l’accordo era stato già siglato qualche mese fa, la Uil aveva deciso di sottoscrivere un altro contratto, quello delle funzioni centrali (chi presta opera nei ministeri o nell’Agenzia delle Entrate), circa 180.000 persone, per avere poi la possibilità di sedersi al tavolo dell’integrativo.
Cosa è successo? Cosa ha scatenato questa corsa a rinnovare intese che per mesi erano state osteggiate, basti ricordare il caso della sanità, settore che coinvolge 670.000 dipendenti, dall’inossidabile coppia Landini-Bombardieri (Cgil-Uil)? Semplice, la Uil si è sfilata. Sui motivi del divorzio, che Bombardieri aveva definito «pausa di riflessione», le ipotesi divergono. C’è chi parla di una delusione per le posizioni sempre più intransigenti di Landini e di un efficace pressing ai lati nel ministro Zangrillo (il titolare della Pa) e chi invece mette la centro del dietrofront un fortissimo malcontento della base. Ma poco importa. Ciò che conta è che l’inversione a U ha consentito al governo di mettere a frutto una parte dei circa 20 miliardi stanziati per i rinnovi dei contratti della Pubblica amministrazione. Quelli che riguardano la tornata già scaduta, il triennio 2022-2024. Che oggi sono stati completamente rinnovati e hanno portato nelle tasche dei circa 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici aumenti medi pari al 6%. A un certo punto era sembrato possibile che il governo tirasse dritto e decidesse di smobilizzare i fondi per riversarli su altre partite o al limite per imporre rinnovi per legge. Sarebbe stato un peccato perché i nuovi contratti portano dietro tutta una serie di misure accessorie, dalla possibilità di optare per la settimana da quattro giorni (comunque lavorando 36 ore) al diritto a maturare il buono pasto anche se operi da remoto, che in assenza delle firme delle parti sociali non avrebbero mai visto la luce.
Ma soprattutto non sarebbe stato possibile iniziare subito a discutere il rinnovo del triennio successivo, quello 2025-2027. Perché la decisione della Uil, oltre a isolare la Cgil, spiana la strada alla prossima tornata che dovrebbe raddoppiare gli aumenti portandoli a toccare la forchetta del 12-14%.
«Abbiamo così chiuso a tempo record», evidenziava nei giorni scorsi Paolo Zangrillo, «questa tornata contrattuale per tutti i comparti e cominciamo a lavorare per il ciclo 2025/27. Ciò significa, in termini salariali, che potremo riconoscere ai 3,4 milioni di dipendenti pubblici nel periodo 2022-27, incrementi che oscillano tra il 12 e il 14%. Una risposta nei fatti al tema del recupero del potere d’acquisto. Escludendo Cgil, che continua a fare politica, di fatto isolandosi, abbiamo un fronte sindacale che riconosce il lavoro e l’impegno del Governo».
E qui siamo al punto. In questo momento abbiamo un governo che ha già stanziato le risorse per i nuovi contratti. Un fronte sindacale che si è compattato verso il sì ai rinnovi grazie alla posizione da sempre dialogante e riformista della Cisl e alla inversione a U della Uil. E una Cgil isolata e felice. Perché stringi stringi a Landini interessa solo continuare a mantenere una posizione movimentista e barricadera a prescindere rispetto a tutte le decisioni del governo. Una posizione politica che snobba i quasi 300 euro lordi al mese in più che potrebbero nel giro di pochi mesi arrivare nelle tasche di 3,5 milioni di lavoratori. E minimizza anche la possibilità di sedersi al tavolo e contrattare l’integrativo che per gli statali equivale agli accordi di secondo livello del privato. Insomma, tanta roba.
Messa così, la strada per una seconda tornata di rinnovi (quella 2025-2027) è in discesa. E secondo quanto risulta alla Verità ci sarebbe anche una sorta di mini-programma per le trattative. Si partirebbe tra qualche settimana - fine novembre o inizio dicembre - con il tavolo dei ministeriali (le funzioni centrali), quindi ai primi del 2026 sarebbe la volta della sanità e a stretto giro toccherebbe di nuovo a scuola ed enti locali (dipendenti di Regioni, Comuni e Province). Incrementi dei salari del 12-14% in pochi mesi che se escludiamo il balzo dei prezzi nel periodo post Covid vorrebbero dire un sostanziale recupero del potere d’acquisto degli italiani. Come non si vedeva da anni.
Ma questo è meglio non dirlo alla Cgil.
Se se il commissario all’Industria e al Commercio dell’Unione Europa dovresti approcciarti con il massimo dell’imparzialità a tutti i dossier cruciali, e non sono pochi, che coinvolgono il tuo ministero. A maggior ragione se fai parte della nutrita schiera (se ne contano ben sei) dei vicepresidenti esecutivi della Commissione Ue. E ancora più se sei considerato un fedelissimo di uno dei politici più influenti e «chiacchierati» di Bruxelles, Emmanuel Macron. Sono questi i ragionamenti che stanno facendo governo e stampa della Repubblica Ceca nel valutare il tenore delle risposte da dare alla lettera arrivata da Stéphane Séjourné, il commissario di cui sopra.
È successo infatti che l’ex enfant prodige della politica transalpina (a soli 38 anni è diventato il più giovane ministro degli Esteri della Repubblica francese), chiamato ora a svolgere un ruolo di primissimo piano a Bruxelles, si sia preso la briga di scrivere al governo di Praga per evidenziare che c’era qualcosa che non andava in una recente gara per assegnare un importante contratto sul nucleare.
La gara se l’era aggiudicata l’azienda sudcoreana Korea Hydro & Nuclear Power (Khnp), la principale energy company della Corea del Sud. Un gruppo molto attivo nella generazione di energia da fonte nucleare ed idroelettrica, non nuovo agli affari nel Vecchio continente. Di recente ha firmato un accordo di collaborazione con la norvegese Nel Hydrogen sull’idrogeno viola, quello prodotto da elettrolisi alimentata da energia nucleare e che ha detta di molti esperti potrebbe avere un ruolo fondamentale nel percorso di decarbonizzazione dell’economia. E in passato, tra gli altri, aveva chiuso un contratto in consorzio anche con l’italiana Ansaldo Nucleare.
Insomma, non un carneade. E un interlocutore di certo apprezzato, anche a Bruxelles.
La gara era molto ambita, tant’è che che i sudcoreani hanno superato la concorrenza del colosso energetico francese Edf (Électricité de France è controllata dallo Stato) e della statunitense Westinghouse. Ma alla fine i sucoreani hanno avuto la meglio, con grande soddisfazione del governo di Praga. Il contratto infatti prevede una forte cooperazione nella costruzione di nuovi reattori nella centrale nucleare di Dukovany. Come ha spiegato il ministro dell’Industria e del Commercio ceco, Lukas Vlcek, l’intesa garantisce un coinvolgimento dell’industria locale nel progetto per una quota del 30% con l’obiettivo di portarla al 60%. «Si tratta», ha sottolineato lo stesso ministro, «del più grande contratto nazionale della storia della Repubblica Ceca». «L’offerta coreana era migliore praticamente in tutti i criteri valutati», ha dichiarato il premier ceco Petr Fiala in conferenza stampa.
Ecco perché il governo ceco ha accolto con disappunto, prima il ricorso depositato lo scorso venerdì da Edf. Mossa che ha costretto il tribunale di Brno a bloccare la firma del contratto e a emettere un’ingiunzione preliminare. E poi, ancor di più, la lettera del commissario europeo francese Stéphane Séjourné che ha invitato la Repubblica Ceca a non finalizzare il contratto. Motivi? «Sulla base delle informazioni fornite, nonché di altre informazioni che i servizi della Commissione hanno scoperto nel quadro dell’esame preliminare», scrive nella missiva il commissario transalpino, «permangono indizi significativi che la società Khnp abbia ricevuto sussidi esteri che potrebbero distorcere il mercato interno». Non solo. Perché l’Ue avrebbe già avviato un’indagine preliminare sottolineando che non prevede una decisione finale, ma sta attualmente approfondendo il caso dopo il ricorso presentato dai francesi di Edf al tribunale regionale di Brno.
Quanta solerzia. Che tempismo nel bloccare una gara che a bene vedere soddisfa a pieno tutti i requisiti posti dai «venditori», ha rispettato tutti i crismi delle gare internazionali e si affida a una multinazionale innovativa dell’energia che ha già chiuso diversi affari nel Vecchio continente.
Il sospetto che la coincidenza della nazionalità degli sconfitti e del commissario «scrivente» abbia un’incidenza, non è venuto solo a noi ma anche ai governanti della Repubblica Ceca.
«Abbiamo ricevuto la lettera del commissario francese», ha evidenziato Vlček in un’intervista alla tv ceca, «la stiamo valutando e stiamo preparando la risposta. La lettera che peraltro riflette le opinioni e i commenti di Edf. Noi risponderemo di conseguenza. Anche perché», ha continuato replicando a una domanda specifica, «non riteniamo sia casuale il fatto che l’appello provenga da un funzionario francese». Mentre ha preferito l’arma dell’ironia, il titolare degli Esteri Jan Lipavský: «È davvero strano che il commissario francese abbia lavorato venerdì sera fino alle 22 di sera (evidentemente l’orario di invio della missiva ndr). È chiaro che si tratta di un gran lavoratore».
I piani di riarmo (impossibile scindere il ReArm e Readiness 2030 Ue che dir si voglia dai progetti bellicisti di Berlino) devono ancora sparare i primi colpi e le banche tedesche fanno già i conti con i profitti che potranno portare a casa. C’è chi, come Deutsche Bank, è arrivato a creare un team dedicato per aumentare i finanziamenti all’industria della difesa. E chi, è il caso di Commerzbank, non ha timore di esprimere in chiaro (l’amministratore delegato Bettina Orlopp ne ha parlato in un’intervista rilasciata a Bloomberg Television) che la corsa verso gli armamenti «sarà uno stimolo importante» per l’economia del Paese in primis e quindi anche per Commerz che ha storicamente buoni rapporti con le aziende belliche.
Deutsche Bank in realtà si è mossa da tempo. Già nel mese di marzo aveva istituito un gruppo di lavoro per la difesa e le infrastrutture che andava a intersecarsi con tutti i prodotti della banca e adesso visto che i venti di guerra (dall’Ucraina a Gaza fino al neoentrato conflitto tra Pakistan e India) più che affievolirsi sembrano accelerare sta programmando nuovi investimenti. A oggi il team è composto da circa 30 persone che nell’arco di un paio di mesi hanno avviato ventina di nuove operazioni tra fusioni, acquisizioni e finanziamenti. Se il ritmo è questo, devono aver pensato i manager dell’istituto con sede a Francoforte, vale la pena metterne al lavoro delle altre per chiudere quanti più affari è possibile.
Il focus sono i gruppi tedeschi, e del resto Berlino nei prossimi anni (a prescindere dai fondi Ue) intende iniettare nel sistema della difesa circa 500 miliardi, ma in questo contesto è impossibile non guardare anche oltreconfine. Fabrizio Campelli, responsabile del corporate e investment banking dell’istituto, ha evidenziato che Deutsche sta già finanziando circa 400 aziende del settore a livello globale e intende aggiungerne molte altre nei prossimi anni. «Non si tratta di passare da 400 a 450», si è lasciato andare in un impeto di ottimismo, «ma di un aumento significativo. Se gli obiettivi di spesa della Nato dovessero passare dal 2% al 3,5% del Pil nei prossimi 3-5 anni, ciò potrebbe tradursi in oltre 1.000 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi necessari in Europa». Ecco perché Deutsche Bank sta offrendo ai clienti del settore della difesa un po’ di tutto i pezzi forti del suo listino: si parte dai prestiti garantiti e si arriva fino a soluzioni di project finance, export finance e di supporto (quotazione) all’ingresso nel mercato dei capitali.
Le parole sono diverse, ma anche i manager di Commerzbank hanno annusato da tempo che intorno a droni, aerei militari, satelliti, carri armati e munizioni girerà una fetta consistente dell’economia europea del futuro e ci si stanno fiondando. «Abbiamo relazioni molto forti con i produttori della difesa, ma anche con i loro fornitori e con i conglomerati», ha spiegato a Bloomberg l’ad, «e, quindi, pensiamo che sarà un buon stimolo, non solo per l’economia tedesca, ma anche per Commerzbank». L’aumento della spesa pubblica per gli armamenti, ha fatto capire nelle dichiarazioni degli ultimi giorni la Orlopp, aiuterà a compensare il deficit da dazi che sta colpendo l’economia tedesca.
La stessa Orlopp, ieri per Commerzbank era giornata di conti, ha spiegato che su Unicredit «non è cambiato nulla». Rinvigorita anche dalle prospettive di aumentare i profitti grazie alla ventata bellicista che sta animando l’Europa e dalla trimestrale record (l’utile è cresciuto del 12%, raggiungendo gli 834 milioni di euro, e i ricavi hanno fatto altrettanto), l’ad ha sottolineato che l’intenzione è quella di «focalizzarsi sulla strategia stand alone, sul raggiungere i risultati e creare valore per i nostri stakeholder chiave». Unicredit ha circa il 28% della banca tedesca ma deve fare i conti con l’ostilità dell’istituto di Francoforte e del governo di Berlino, senza contare che anche sull’altra partita, quelle italiana per Banco Bpm, le acque sono abbastanza agitate. Insomma, cosa succederà? «Per quanto riguarda Unicredit», ha evidenziato laconica l’ad, «è chiaro che se qualcosa arriverà sul tavolo (riferendosi a un’eventuale offerta della banca italiana ndr) valuteremo le opzioni».
Ma il vero strappo di ieri porta la firma del neonato governo Merz. Il ministro delle Finanze Lars Klingbeil, infatti, non ha usato mezzi termini con la Deutsche Presse-Agentur. «Puntiamo sull’indipendenza di Commerzbank», ha spiegato, «un approccio ostile come quello di Unicredit è inaccettabile. Ciò vale in particolare quando si tratta di una banca di importanza sistemica come la Commerz». Che con l’industria della difesa da finanziare in fretta e furia diventa ancora più strategica.





