2024-08-11
Occhio, qui ci imbavagliano tutti
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto o altro mezzo di diffusione». Così dice la nostra Costituzione. Dunque se qualcuno decide di dire la sua in piazza, gridando la propria opinione o esponendo un cartellone, nessuno può impedirlo.E infatti, perfino davanti al Parlamento o a Palazzo Chigi, ovvero ai luoghi sensibili delle istituzioni, si vedono spesso persone che con un megafono o con un manifesto espongono le loro idee, senza che sia loro proibito. Ma se nella piazza virtuale costituita dai social network, che tutti ormai usiamo per dire ciò che pensiamo, c’è un ente superiore che decide che cosa sia giusto diffondere e che cosa sia vietato? Se, in altre parole su Facebook, X, Instagram o Tik Tok, c’è chi seleziona le opinioni sulla base di un suo personale codice, decidendo che c’è qualcosa che si può pubblicare mentre qualche altra cosa va eliminata, noi, generazione che dell’articolo 21 della Costituzione ha fatto una bandiera, che cosa facciamo? Lo so, non è una domanda che si possa fare a bruciapelo, in un domenica d’agosto, mentre la maggioranza delle persone se ne sta sotto l’ombrellone o si gode la frescura di un sentiero di montagna. E tuttavia prima o poi questa faccenda la dobbiamo sciogliere, perché ne va del nostro senso di democrazia e della stessa libertà di parola. Noi accusiamo le dittature dicendo che impediscono ai propri cittadini di esprimersi. E dunque condanniamo la Russia, la Cina, l’Iran, gli Stati arabi, ma anche la Turchia o il Venezuela, perché censurano chiunque non la pensi come i loro autocrati. Ogni tanto in questi Paesi i social network vengono sospesi proprio per impedire che le idee circolino liberamente, senza il controllo della censura. Eppure, qualche cosa di simile al controllo delle parole si sta piano piano insinuando anche nelle nostre democraticissime repubbliche, con la sospensione del diritto di postare ciò che si pensa e gli interventi che non superano il vaglio della censura. Ovviamente conosco già le obiezioni: Facebook, X, Instagram e Tik Tok sono strumenti privati di comunicazione e dunque possono darsi le regole che vogliono, come se le danno i giornali, le televisioni o qualsiasi sito Internet. Vero. Come è vero che non si può pubblicare tutto, perché altrimenti in rete ma anche sulla stampa finirebbero pure gli insulti e questa libertà potrebbe anche essere usata per diffamare e calunniare le persone. E però, se l’argine agli oltraggi e al vituperio, si può capire, comprendere perché la parola di chi critica la partecipazione di Imane Khelif alle Olimpiadi nella categoria donne debba essere vietata è più difficile. Chi decide quando un argomento si possa affrontare e quando debba essere proibito? Con quale criterio, dopo averne sfruttato ogni aspetto commerciale, un social network decide che un utente non abbia più diritto di parola e il suo account debba essere sospeso? Abbiamo già visto come un potere molto invasivo può essere usato. In alcuni casi durante il Covid è stata impedita la pubblicazione di alcuni contenuti ritenuti non in linea con il pensiero dominante. E allo stesso modo a volte si rischia la censura anche se si affrontano temi con parole chiave giudicate «unfit», come ad esempio «clandestino». I cosiddetti esperti di fact checking spesso si incaricano di segnalare in base a loro personalissimi criteri che cosa sia vero e che cosa non lo sia, dunque ora è persino pericoloso, nonostante i numeri dicano il contrario, sostenere che i migranti irregolari percentualmente commettano più reati degli italiani, perché dirlo significa rischiare la censura. Il rispetto dell’articolo 21 della nostra Costituzione dunque è a rischio, soprattutto nel momento in cui i social network stanno prendendo il sopravvento sull’informazione, sostituendosi a giornali e tv. È dalla piazza virtuale che passano e si commentano le notizie e c’è qualcuno che può aprire oppure chiudere il rubinetto del flusso di commenti, senza che nessuno si ponga la domanda se tutto ciò rispetti il principio per cui tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero. Dalle dittature ci distingue la libertà di parola, ma se questa è negata da chi gestisce lo scambio di opinioni, siamo ancora veramente liberi? Oggi troppi temi rischiano di essere sottratti al diritto di discuterne senza ostacoli. L’orientamento ideologico e culturale che chiamiamo «politically correct» ormai impedisce di chiamare le cose con il loro nome e proibisce di uscire del conformismo. Sostenere alcune tesi è vietato, pena la sospensione e l’estromissione dai giochi. A pensarci bene, la nostra democrazia, così sterilizzata e resa orfana di alcune opinioni discordanti, non è molto diversa da quella che chiamiamo dittatura del pensiero unico. E da qui alla dittatura vera il passo è breve.