2023-07-04
«Ha smarrito il senso delle istituzioni». La sentenza su Davigo
Piercamillo Davigo (Imagoeconomica)
Il Tribunale critica i modi «carbonari» con cui l’ex toga diffuse i verbali di Piero Amara. Ma «salva» i vertici della Procura di Milano.«Si è assistito a un vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive e indirizzi di posta elettronica». La fossa comune giudiziaria avrebbe inghiottito buona parte degli indizi sui quali gli inquirenti di Brescia avrebbero potuto lavorare. Ma erano spariti già da tempo. Perché, stando al presidente della Sezione penale del Tribunale di Brescia, Roberto Spanò, che ha motivato, a tamburo battente, in neppure due settimane, con 111 pagine la sonora condanna a 15 mesi inflitta al dottor Sottille di Mani pulite Piercamillo Davigo, «la morìa dei possibili elementi di riscontro» sarebbe avvenuta «in epoca da ritenersi ragionevolmente prossima alla perquisizione subita nell’aprile del 2021 da Marcella Contrafatto», funzionaria del Csm assegnata proprio alla segreteria di Davigo. Le modalità con le quali le notizie riservate sono uscite dal perimetro investigativo del pm Paolo Storari, che curava il fascicolo con le dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara sulla Loggia Ungheria, secondo il giudice sarebbero avvenute, inoltre, in un modo «quasi carbonaro». «Le precauzioni adottate in occasione del disvelamento ai consiglieri», che si sarebbe consumato nel cortile del Csm, «lasciando prudenzialmente i telefonini negli uffici», secondo il giudice, «appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale». E mentre il giudice Spanò argomenta questo assunto, però, nel compilare la sentenza non sfiora tutti i temi posti dalla vicenda, come le ragioni, denunciate da Storari, che avrebbero indotto la Procura di Milano, allora retta da Francesco Greco, a non indagare sulle spinose questioni della Loggia Ungheria, in quanto pregiudizievole per l’accusa che l’aggiunto Fabio De Pasquale coltivava nel processo Eni-Nigeria nei confronti di 14 imputati, compresi i vertici dell’azienda petrolifera. E, così, i verbali sulla Loggia Ungheria vengono bollati come «materiale limaccioso, cosparso da una patina scivolosa su cui era arduo far presa». In sostanza il giudice salva i vertici della Procura di Milano. E lo fa con queste parole: «L’esame della vicenda conforta quanto sostenuto da Greco e da Laura Pedio (procuratore aggiunto, ndr)», poiché «la scelta organizzativa improntata alla cautela poteva dunque essere ispirata non a colpevole titubanza o, peggio, a volontà di insabbiamento, quanto piuttosto a ragioni di garantismo». Eppure, davanti a Spanò, all’udienza del 24 maggio 2022, Storari aveva dichiarato: «De Pasquale mi dice “secondo me questo fascicolo [...] deve rimanere nel cassetto per due anni”». L’evidente correlazione con il processo Eni-Nigeria, però, resta solo sullo sfondo. Per Spanò, tra Storari e Davigo si sarebbe creato «un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante». Ma non sarebbe emerso se quella di Storari «sia stata davvero un’iniziativa self made» o se «non vi sia stato, invece, un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra». Di certo, secondo Spanò, Storari avrebbe «rappresentato all’imputato (Davigo, ndr) una situazione distonica rispetto a quella reale». La responsabilità, per Spanò, non potendo condannare Storari, che viene comunque crocifisso, ricadrebbe su Davigo, perché avrebbe indotto e convinto Storari a dargli i verbali con un atto definito «extra ordinem». Quale? «La consegna brevi manu di copia dei verbali secretati, benché in teoria, la strada maestra per investire il Csm della questione fosse, per sua stessa ammissione, quella di “fare un plico riservato”». Spanò valuta come prove a carico di Davigo anche le dichiarazioni, seppur complessivamente favorevoli, di due grandi amici dell’imputato: gli ex consiglieri del Csm Giuseppe Marra e Giuseppe Cascini. Poi accosta la testimonianza di Sebastiano Ardita a quella di Cascini che, di certo, si collocano su fronti opposti. Non solo, il Tribunale elogia David Ermini, pure amico e ammiratore di Davigo, quando sottolinea che precedenti fughe di notizie dal Csm non potevano certo giustificare «la grave violazione delle regole» delle quali si era reso protagonista Davigo. Ermini, però, non solo non ha denunciato, ma ha addirittura distrutto il corpo del reato (ovvero i verbali di Amara che Davigo gli aveva consegnato). Per spiegare il movente, invece, il Tribunale ha escluso che Davigo abbia agito per inimicizia nei confronti di Ardita, quanto piuttosto perché convinto che i fatti fossero veri. A confermarlo ci sarebbero, secondo Spanò, vari testimoni, tra cui Nino Di Matteo. Infine, il giudice sembra ascrivere all’ex segretaria di Davigo il ruolo di «talpa», a cui erano state riversate «confidenze che non era legittimata a ricevere». La sentenza sembra collegare i vari protagonisti della divulgazione degli atti. E arriva a valutare la posizione di Contraffatto che però è stata assolta dall’accusa di calunnia dal gup di Roma, perché non c’era prova che avesse inviato lei i verbali ai giornali. Dalla lettura della sentenza non emergono gli elementi che abbiano spinto Spanò a convincersi del contrario. Ma questa non è l’unica questione che resta aperta. Alcun atto è stato trasmesso alla Procura per le omesse denunce e per le distruzioni dei documenti. Il caso per le toghe bresciane va chiuso così.
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