2023-01-06
Ha occupato tutto senza mai vincere. Ora la sinistra sbraita se si cambia
Sandra Zampa (Imagoeconomica)
I professionisti della lottizzazione, dai gangli vitali dello Stato alla Rai, vogliono negare l’ordinaria transizione democratica. Il centrodestra dovrebbe avere due soli obiettivi: puntare su persone capaci e privilegiare il fare.«Hanno la faccia come il culo». No, il nostro non è un insulto, ma solo la citazione di una memorabile prima pagina di Cuore, supplemento satirico della vecchia Unità. Il fatto è che oggi quel titolo e quell’invettiva rischiano di avere un sapore autobiografico a sinistra.Ricapitoliamo. Il Pd e i suoi alleati non vincono un’elezione politica dal 2006: ciononostante, dal 2011 al 2022, hanno governato ininterrottamente, con un solo anno di parentesi gialloverde. In tutto questo enorme arco di tempo, hanno occupato tutto l’occupabile e lottizzato tutto il lottizzabile: poltrone di Stato e parastato, gangli vitali dell’amministrazione, fino - inutile ricordarlo - al povero cavallo di Viale Mazzini, letteralmente fatto a bistecche. Ecco, con questi precedenti, adesso a sinistra gridano e si inalberano se Giorgia Meloni (che, a loro differenza, le elezioni le ha vinte) osa prendere alcune prime decisioni all’insegna del ricambio di nomi e facce. Non ci riferiamo tanto alle dichiarazioni di qualche parlamentare di centrodestra (alcune forse tanto roboanti quanto evitabili), ma a un paio di primissime scelte, che - in un contesto normale - sarebbero state vissute come un esempio di ordinaria transizione democratica: la sostituzione del capo dell’Aifa e del commissario alla ricostruzione post-sisma. E invece? Apriti cielo: la sinistra ha cominciato a sparare a palle incatenate. Da un lato, con irresistibili effetti comici: come se la ricostruzione post terremoto potesse essere coordinata solo da un ex magistrato vicino al Pd, o come se l’attività regolatoria sui farmaci potesse essere gestita solo da un superfunzionario ostile al nuovo governo («Gestione delle nomine poco rispettosa della cosa pubblica», ha piagnucolato la senatrice Pd, Sandra Zampa). Dall’altro, però, la sfuriata della sinistra è meno isterica e meno gratuita di quanto appaia a prima vista: l’obiettivo è spaventare il centrodestra, inibire un cambiamento più profondo e articolato, mettere sabbia nell’ingranaggio che dovrebbe portare - da qui alla primavera - alla sostituzione di decine e decine di figure chiave. I lettori della Verità ricorderanno forse che, all’indomani della vittoria elettorale del centrodestra, e prima della formazione dell’esecutivo Meloni, scrivemmo - tra il serio e il faceto - che era sì opportuno occuparsi del «totoministri», e cioè delle figure politiche che di lì a poco sarebbero state chiamate all’uno o all’altro ministero, ma ancora di più ci si sarebbe dovuti preoccupare del «tataministri». Intendendo, con quell’espressione, quel complesso di «badanti», quello squadrone di funzionari e burocrati pubblici, di boiardi di Stato, di titolari dei gangli dell’amministrazione, di mandarini, che svolgono funzioni letteralmente decisive. Si tratta dei soggetti che - volendo - possono facilitare e accelerare l’iter di una riforma, o che invece possono mettersi di traverso, magari a prima vista impercettibilmente ma poi, in ultima analisi, esercitando un notevolissimo potere frenante. E allora vale la pena di ricompitare qui alcuni principi di elementare buon senso. Primo: ciò che sta per accadere non solo non è scandaloso, ma è semplicemente figlio della democrazia e di un risultato elettorale. Se gli elettori avessero voluto (in Parlamento) una maggioranza del Pd e (nei ministeri e nell’amministrazione) la conferma dell’esistente, il 25 settembre scorso avrebbero votato per lo status quo, anziché stravotare Meloni. Secondo. I precedenti occupanti delle caselle che stanno per cambiare non sono venuti né da Marte, né da qualche concorso di bellezza, né sono stati scelti per titoli e curricula. Non facciamo finta di travestirci da Cappuccetto Rosso simulando ingenuità: quei funzionari e quei boiardi di Stato sono stati largamente selezionati in quanto il Pd e la sinistra li riteneva affidabili e sintonici. Non si vede per quale ragione il centrodestra non sia legittimato a comportarsi nello stesso modo. Da questo punto di vista, semmai, il centrodestra dovrebbe avere solo altre preoccupazioni: per un verso, puntare su persone capaci, magari valorizzando chi per anni è stato tenuto ai margini proprio in virtù di uno scarso allineamento politico a sinistra; per altro verso, privilegiare il «fare» (in questo caso, il «nominare») rispetto al «dire». La stagione dei complessi di inferiorità - a destra - è finita: se ne facciano una ragione a sinistra, e la smettano di reagire in modo scomposto. Quanto al governo e alla maggioranza, deve simmetricamente finire il tempo delle lagnanze, della descrizione convegnistica delle operazioni «gramsciane» effettivamente condotte per decenni dalla sinistra. C’è ora l’occasione storica di voltare pagina: di farlo con serietà, ovviamente senza prepotenza, senza commettere a parti invertite gli stessi errori di faziosità imputati negli anni passati agli altri. Troppe volte, in passato, un po’ per penuria di alternative, un po’ nel tentativo di ingraziarsi gli abitanti dei principali palazzi romani, i vecchi governi di centrodestra avevano finito per pescare sempre nello stesso mazzo di «superbadanti»: alcune decine di ben note figure che - con rare soste in panchina - erano sempre lì a spadroneggiare. Con l’effetto di un clamoroso rovesciamento delle parti: in troppe occasioni, infatti, non era un esecutivo di centrodestra a guidare le burocrazie mettendole al servizio di un obiettivo politico; ma erano le burocrazie a dominare i ministri e i governi «ostili», o per allenarli al «non si può fare» o per allinearli al «pilota automatico». Il governo Meloni ha finalmente deciso di sottrarsi a questo rituale. Bene così.