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2021-08-24
Si ritorna al lavoro. Far West nelle mense. E ogni ministero fa quello che vuole
(Stefano Montesi - Corbis/ Getty Images)
Dev'essere una prerogativa dei professori con lo zaino in spalla, lo stipendio garantito e l'aria condizionata in ufficio pigliarsela con i lavoratori che chiedono un posto fisso e un pasto caldo. Finite le ferie, ieri quasi tre milioni sono tornati al lavoro e il caos green pass è rimasto di traverso alle mense. Ci sono proteste ovunque: dalle carceri ai ministeri passando per i centri logistici e siccome la materia è affidata a una Faq del Governo vanno tutti in ordine sparso.
Il primo a farsi sentire è Carlo Cottarelli. L'ex mani di forbice informato che all'Ikea di Piacenza - è il centro logistico da cui dipendono i rifornimenti in tutta Italia - chi non ha il green pass è stato costretto mangiare sul marciapiede ha twittato: «La Cisl dice che non è dignitoso, ma il problema può essere risolto facilmente: basta vaccinarsi». E bravo Cottarelli che fa il paio con Tito Boeri - non rimpianto ex presidente dell'Inps - che sull'obbligo della carta verde a mensa aveva detto: «I sindacati stanno dalla parte dei no vax». Il problema è che sembrano tanti questi no vax, o piuttosto che l'informazione data ai cittadini dai virologi videostar è talmente confusa che più del virus poté il digiuno. I sindacati - come dimostra la faccenda della quarantena a carico del lavoratore - temono che la carta sia il semaforo verde per la compressione di altri diritti.
Se ne è avuta palmare rappresentazione ieri al primo giorno di ritorno dalle ferie. La confusione è tale per cui anche Stefano Bonaccini, presidente Pd della Regione Emilia Romagna, striglia il governo. Dalla tribuna del Meeting di Rimini scandisce: «Non c'è nessun Paese che in questo momento abbia messo l'obbligo vaccinale per la popolazione. Penso che servirebbe l'accordo delle parti sociali. Ad esempio, per il green pass obbligatorio anche sui luoghi di lavoro, cosa che mi troverebbe assolutamente d'accordo, ma non è competenza delle Regioni. Auspico un confronto tra il governo e le parti sociali: mi pare che questa sia l'urgenza più utile». L'uscita di Bonaccini si giustifica perché in Emilia Romagna - ma del resto in tutta Italia - si va in ordine sparso. Alla Ima di Bologna, quella che stacca generosissime cedole a Gianluca Vacchi abbronzatissimo influencer, il fratello Alberto Vacchi, amministratore delegato, ha comunicato ai lavoratori che si mangia solo con il green pass, mentre alle Coesi, altro colosso industriale, Isabela Seragnoli ha detto: «Non abbiamo alcuna intenzione di discriminare tra i lavoratori» e ha scritto una lettera in proposito chiedendo chiarimenti a Regione e sindacati. A Longiano (Cesena) la Suba Seeds è andata oltre seguendo le indicazioni di Roberto Visentin (Federmeccanica). Ha fatto entrare solo i lavoratori muniti di green pass.
A questo punto l'assessore regionale al Lavoro Vincenzo Colla ha tuonato con Orlando: «Serve un accordo o avremo il caos». Cgil-Cisl-Uil denunciano: «Così si rischia il Far West». Che sostanzialmente è quello che è successo nei ministeri, ieri di nuovo popolati, a Roma mentre nelle carceri piemontesi da Torino a Cuneo gli agenti penitenziari hanno dato vita a una vibrante protesta: hanno rifiutato i cestini pretendendo di mangiare con i loro colleghi. Alla Farnesina di fatto il green pass non viene chiesto. Dice un comunicato del ministero degli Esteri: «Allo stato le disposizioni in materia non si applicano alle attività delle mense che garantiscano la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro». Alla Salute non «è arrivata alcuna indicazione negli ultimi dieci giorni» per cui alla mensa di via Ribota si va un po' a caso. A casa della ministra dell'Interno Luciana Lamorgese -severissima sui controlli altrui - i due bar interni si autoregolano, mentre alla Difesa consentono di portarsi la «schiscetta» e mangiare in ufficio, oppure di andare in mensa, ma con la carta verde. E però, fanno sapere i militari - scottati anche dalle durissime proteste sollevate nelle caserme - «il trattamento alimentare dovrà comunque essere garantito a tutto il personale cui compete».
Si apre la strada al buono pasto? È il caso ad esempio di tutti quei lavori che si svolgono all'aperto. Al terminal merci del porto di Genova Pra', dove da ieri è scattato l'obbligo di green pass per la mensa, i sindacati alzano le barricate. All'Enel invece confidano sul fatto che gran pare del personale è ancora in smart working. La preoccupazione dei sindacati è che la carta verde per la mensa si trasformi in un cavallo di Troia a fronte del fatto che tra sanità, scuola (dal primo settembre scatta l'obbligo di salvacondotto), i lavoratori già soggetti a obbligatorietà di green pass sono oltre 3,4 milioni.
In tutto questo manca un interlocutore: è l'Orlando pensoso e così sul green pass si è perso il ben dell'intelletto.
Sui test salivari per gli under 12 le Regioni spingono, Speranza pensa
Si apre uno spiraglio nell'applicazione dei test salivari per la diagnosi di Covid, almeno per i più piccoli. Anche la regione Lazio punta a introdurre nelle scuole elementari e medie i test salivari, meno invasivi dei tamponi rapidi e molecolari, per lo screening del Covid. A un anno dalla loro messa a punto e tre mesi dall'autorizzazione, giusto qualche giorno fa, l'Istituto superiore di sanità (Iss) si è messo a scrivere un Protocollo, con le Regioni, sugli screening del Covid da fare durante tutto l'anno scolastico su circa 110.000 studenti under 12 di massimo tre scuole per provincia. Il tutto avverrà su base volontaria come già accaduto nella sperimentazione di Veneto e Toscana, con un'adesione di circa il 60%. Con mesi di anticipo, a maggio, la regione Lombardia aveva già messo in pista il test messo a punto a novembre 2020 da un gruppo di ricercatrici dell'Università di Milano, tutte madri di bambini, desiderose di dare ai piccoli un test per il Covid meno invasivo, ma attendibile come il tampone nasofaringeo. Questo sistema, non raccoglie il campione infilando un tampone nel naso, ma facendo masticare per alcuni minuti una pallina di cotone che viene poi portato al laboratorio. Il responso è disponibile in qualche ora e ha un'affidabilità del 94-98%, praticamente come un molecolare nasofaringeo.
Con una tempistica assolutamente inadeguata a una pandemia, il documento per lo screening dei bambini di 6-12 anni è atteso in settimana: a ridosso dal suono della prima campanella d'inizio delle lezioni, il 13 settembre. Non è ben noto cosa succederà nelle varie regioni. Il Lazio, appunto, prevede una campagna mensile di almeno 17.000 test che sarà poi ripetuta nel corso dell'autunno e dell'inverno proprio al fine di capire quanto e in che misura circola il virus nei bambini. In tal senso, il commissario regionale straordinario, Jacopo Marzetti, propone che il Lazio «recepisca l'idea di utilizzare le strutture pubbliche di Farmacap (società partecipata del Comune di Roma che gestisce 45 farmacie, ndr), per l'effettuazione a tappeto di test salivari e antigenici degli studenti e docenti in vista del rientro a settembre». Il Veneto ha già avviato una gara per avere garantita una fornitura di un milione di tamponi salivari molecolari alla riapertura delle scuole. La Lombardia si è già mossa in questo senso.
Non si ferma però la battaglia di Franco Corbelli, fondatore e leader del Movimento diritti civili, che chiede il riconoscimento della validità del test salivare (visto che è equiparato dall'Iss agli altri test) per ottenere il green pass anche per gli «oltre 100.000 docenti e centinaia di migliaia di studenti universitari (tutti non vaccinati, per diversi, validi motivi)». Sono «persone perbene e responsabili», scrive Corbelli in una nota, che si vedono negati i test salivari mentre sono sotto il «ricattato del vaccino o la tortura del tampone molecolare ogni 48 ore, pena la sospensione dal servizio de dallo stipendio, ovvero la disperazione per migliaia di famiglie».
Alla campagna di è unita anche l'Anief, Associazione nazionale insegnanti e formatori, chiedendo «l'equiparazione del test salivare gratuito» per «tutto il personale scolastico e universitario nonché per gli studenti universitari obbligati al possesso del green pass», sostenendo che la normativa comunitaria stabilisce «che nessuno Stato membro può discriminare in base al possesso del green pass».
Intanto ieri è arrivata la proposta di Italo Farnetani, professore di pediatria della Libera Università Ludes di Malta, per spostare l'inizio delle lezioni al 3 ottobre e poter vaccinare così un 10% in più di over 12. «Posticipare l'inizio della scuola sarebbe un fallimento totale della politica e del ministero dell'Istruzione», ha commentato Matteo Bassetti, direttore delle Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova.
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Alla Farnesina la carta verde non viene chiesta. Nel refettorio della Salute si va a caso. I due bar del Viminale si autoregolano.Lombardia, Veneto, Toscana e Lazio sono pronte. Si vuole evitare il tampone ogni 48 ore.Lo speciale contiene due articoli.Dev'essere una prerogativa dei professori con lo zaino in spalla, lo stipendio garantito e l'aria condizionata in ufficio pigliarsela con i lavoratori che chiedono un posto fisso e un pasto caldo. Finite le ferie, ieri quasi tre milioni sono tornati al lavoro e il caos green pass è rimasto di traverso alle mense. Ci sono proteste ovunque: dalle carceri ai ministeri passando per i centri logistici e siccome la materia è affidata a una Faq del Governo vanno tutti in ordine sparso. Il primo a farsi sentire è Carlo Cottarelli. L'ex mani di forbice informato che all'Ikea di Piacenza - è il centro logistico da cui dipendono i rifornimenti in tutta Italia - chi non ha il green pass è stato costretto mangiare sul marciapiede ha twittato: «La Cisl dice che non è dignitoso, ma il problema può essere risolto facilmente: basta vaccinarsi». E bravo Cottarelli che fa il paio con Tito Boeri - non rimpianto ex presidente dell'Inps - che sull'obbligo della carta verde a mensa aveva detto: «I sindacati stanno dalla parte dei no vax». Il problema è che sembrano tanti questi no vax, o piuttosto che l'informazione data ai cittadini dai virologi videostar è talmente confusa che più del virus poté il digiuno. I sindacati - come dimostra la faccenda della quarantena a carico del lavoratore - temono che la carta sia il semaforo verde per la compressione di altri diritti. Se ne è avuta palmare rappresentazione ieri al primo giorno di ritorno dalle ferie. La confusione è tale per cui anche Stefano Bonaccini, presidente Pd della Regione Emilia Romagna, striglia il governo. Dalla tribuna del Meeting di Rimini scandisce: «Non c'è nessun Paese che in questo momento abbia messo l'obbligo vaccinale per la popolazione. Penso che servirebbe l'accordo delle parti sociali. Ad esempio, per il green pass obbligatorio anche sui luoghi di lavoro, cosa che mi troverebbe assolutamente d'accordo, ma non è competenza delle Regioni. Auspico un confronto tra il governo e le parti sociali: mi pare che questa sia l'urgenza più utile». L'uscita di Bonaccini si giustifica perché in Emilia Romagna - ma del resto in tutta Italia - si va in ordine sparso. Alla Ima di Bologna, quella che stacca generosissime cedole a Gianluca Vacchi abbronzatissimo influencer, il fratello Alberto Vacchi, amministratore delegato, ha comunicato ai lavoratori che si mangia solo con il green pass, mentre alle Coesi, altro colosso industriale, Isabela Seragnoli ha detto: «Non abbiamo alcuna intenzione di discriminare tra i lavoratori» e ha scritto una lettera in proposito chiedendo chiarimenti a Regione e sindacati. A Longiano (Cesena) la Suba Seeds è andata oltre seguendo le indicazioni di Roberto Visentin (Federmeccanica). Ha fatto entrare solo i lavoratori muniti di green pass. A questo punto l'assessore regionale al Lavoro Vincenzo Colla ha tuonato con Orlando: «Serve un accordo o avremo il caos». Cgil-Cisl-Uil denunciano: «Così si rischia il Far West». Che sostanzialmente è quello che è successo nei ministeri, ieri di nuovo popolati, a Roma mentre nelle carceri piemontesi da Torino a Cuneo gli agenti penitenziari hanno dato vita a una vibrante protesta: hanno rifiutato i cestini pretendendo di mangiare con i loro colleghi. Alla Farnesina di fatto il green pass non viene chiesto. Dice un comunicato del ministero degli Esteri: «Allo stato le disposizioni in materia non si applicano alle attività delle mense che garantiscano la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro». Alla Salute non «è arrivata alcuna indicazione negli ultimi dieci giorni» per cui alla mensa di via Ribota si va un po' a caso. A casa della ministra dell'Interno Luciana Lamorgese -severissima sui controlli altrui - i due bar interni si autoregolano, mentre alla Difesa consentono di portarsi la «schiscetta» e mangiare in ufficio, oppure di andare in mensa, ma con la carta verde. E però, fanno sapere i militari - scottati anche dalle durissime proteste sollevate nelle caserme - «il trattamento alimentare dovrà comunque essere garantito a tutto il personale cui compete». Si apre la strada al buono pasto? È il caso ad esempio di tutti quei lavori che si svolgono all'aperto. Al terminal merci del porto di Genova Pra', dove da ieri è scattato l'obbligo di green pass per la mensa, i sindacati alzano le barricate. All'Enel invece confidano sul fatto che gran pare del personale è ancora in smart working. La preoccupazione dei sindacati è che la carta verde per la mensa si trasformi in un cavallo di Troia a fronte del fatto che tra sanità, scuola (dal primo settembre scatta l'obbligo di salvacondotto), i lavoratori già soggetti a obbligatorietà di green pass sono oltre 3,4 milioni. In tutto questo manca un interlocutore: è l'Orlando pensoso e così sul green pass si è perso il ben dell'intelletto. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/si-ritorna-al-lavoro-far-west-nelle-mense-e-ogni-ministero-fa-quello-che-vuole-2654764000.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sui-test-salivari-per-gli-under-12-le-regioni-spingono-speranza-pensa" data-post-id="2654764000" data-published-at="1629743965" data-use-pagination="False"> Sui test salivari per gli under 12 le Regioni spingono, Speranza pensa Si apre uno spiraglio nell'applicazione dei test salivari per la diagnosi di Covid, almeno per i più piccoli. Anche la regione Lazio punta a introdurre nelle scuole elementari e medie i test salivari, meno invasivi dei tamponi rapidi e molecolari, per lo screening del Covid. A un anno dalla loro messa a punto e tre mesi dall'autorizzazione, giusto qualche giorno fa, l'Istituto superiore di sanità (Iss) si è messo a scrivere un Protocollo, con le Regioni, sugli screening del Covid da fare durante tutto l'anno scolastico su circa 110.000 studenti under 12 di massimo tre scuole per provincia. Il tutto avverrà su base volontaria come già accaduto nella sperimentazione di Veneto e Toscana, con un'adesione di circa il 60%. Con mesi di anticipo, a maggio, la regione Lombardia aveva già messo in pista il test messo a punto a novembre 2020 da un gruppo di ricercatrici dell'Università di Milano, tutte madri di bambini, desiderose di dare ai piccoli un test per il Covid meno invasivo, ma attendibile come il tampone nasofaringeo. Questo sistema, non raccoglie il campione infilando un tampone nel naso, ma facendo masticare per alcuni minuti una pallina di cotone che viene poi portato al laboratorio. Il responso è disponibile in qualche ora e ha un'affidabilità del 94-98%, praticamente come un molecolare nasofaringeo. Con una tempistica assolutamente inadeguata a una pandemia, il documento per lo screening dei bambini di 6-12 anni è atteso in settimana: a ridosso dal suono della prima campanella d'inizio delle lezioni, il 13 settembre. Non è ben noto cosa succederà nelle varie regioni. Il Lazio, appunto, prevede una campagna mensile di almeno 17.000 test che sarà poi ripetuta nel corso dell'autunno e dell'inverno proprio al fine di capire quanto e in che misura circola il virus nei bambini. In tal senso, il commissario regionale straordinario, Jacopo Marzetti, propone che il Lazio «recepisca l'idea di utilizzare le strutture pubbliche di Farmacap (società partecipata del Comune di Roma che gestisce 45 farmacie, ndr), per l'effettuazione a tappeto di test salivari e antigenici degli studenti e docenti in vista del rientro a settembre». Il Veneto ha già avviato una gara per avere garantita una fornitura di un milione di tamponi salivari molecolari alla riapertura delle scuole. La Lombardia si è già mossa in questo senso. Non si ferma però la battaglia di Franco Corbelli, fondatore e leader del Movimento diritti civili, che chiede il riconoscimento della validità del test salivare (visto che è equiparato dall'Iss agli altri test) per ottenere il green pass anche per gli «oltre 100.000 docenti e centinaia di migliaia di studenti universitari (tutti non vaccinati, per diversi, validi motivi)». Sono «persone perbene e responsabili», scrive Corbelli in una nota, che si vedono negati i test salivari mentre sono sotto il «ricattato del vaccino o la tortura del tampone molecolare ogni 48 ore, pena la sospensione dal servizio de dallo stipendio, ovvero la disperazione per migliaia di famiglie». Alla campagna di è unita anche l'Anief, Associazione nazionale insegnanti e formatori, chiedendo «l'equiparazione del test salivare gratuito» per «tutto il personale scolastico e universitario nonché per gli studenti universitari obbligati al possesso del green pass», sostenendo che la normativa comunitaria stabilisce «che nessuno Stato membro può discriminare in base al possesso del green pass». Intanto ieri è arrivata la proposta di Italo Farnetani, professore di pediatria della Libera Università Ludes di Malta, per spostare l'inizio delle lezioni al 3 ottobre e poter vaccinare così un 10% in più di over 12. «Posticipare l'inizio della scuola sarebbe un fallimento totale della politica e del ministero dell'Istruzione», ha commentato Matteo Bassetti, direttore delle Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova.
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L’allarme sul nuovo capitolo - quello che riguarda le bottiglie da spumante o da vini da invecchiare e l’olio extravergine d’oliva (che teme come la peste la luce del sole) - è stato lanciato dal presidente del Coreve, il consorzio italiano per il riciclo del vetro che detiene il record europeo, con l’81% di vetro «circolare», pari a 2,1 milioni di tonnellate nel 2024 (ben sei punti sopra le quote massime richieste da Bruxelles). Che dice: vogliono cancellare le bottiglie scure per il Prosecco. Spiega il presidente Gianni Scotti che tutto nasce dall’idea di Germania e Danimarca d’imporre in Ue solo le bottiglie da birra. S’attaccano al fatto che i lettori ottici, quando devono selezionare una bottiglia scura, la scambiano per ceramica e non la mandano alla fusione, abbassando il tetto delle quantità riciclate. «Abbiamo dimostrato», spiega Scotti, che le nostre macchine arrivano a scartare meno dell’1% del vetro. Speriamo di convincere l’Europa che le indicazioni che vengono da loro sono obsolete». E anche Assovetro, il cui presidente è Marco Ravasi e che usa il rottame di vetro, si dice preoccupata per la piega che sta prendendo Bruxelless. La speranza è l’ultima dea, ma la concorrenza interna all’Ue può molto di più. Gli attacchi al vino da parte dei Paesi del Nord, che lamentano il fatto che sulla birra c’è una (minima) accisa e sul vino no, si ripetono a ondate. Prima l’Irlanda ha imposto le etichette con scritto «il vino fa male», violando i trattati, ma Ursula von der Leyen ha dato loro ragione; poi la Commissione ha approvato il Beca (documento anti cancro che deve passare dall’Eurocamera) per ipertassare il vino, restringerne la vendita e abolirne la promozione; ora si passa dal vetro. Tutto a danno dei Paesi mediterranei, ignorando che in premessa, nel regolamento sugli imballaggi, c’è scritto: «Imballaggi appropriati sono indispensabili per proteggere i prodotti».
Senza bottiglie scure non si può fare la rifermentazione in bottiglia. Solo Cristal in Champagne usa bottiglie bianche, ma tenute al buio. Lo stesso vale per il metodo classico italiano (sempre di rifermentazione in bottiglia si parla), ma anche per gli spumanti fatti in autoclave (il Prosecco appunto). Per avere un’idea, s’imbottigliano 300 milioni di Champagne, gli italiani tappano un miliardo di bottiglie, gli spagnoli 250 milioni. Va bene solo ai tedeschi che fanno tante bollicine ma così leggere che, comunque, non passerebbero l’anno e dunque non hanno bisogno di protezione dal sole, né di contenere le pressioni di rifermentazione. Il caso dei vetri confermerà invece agli inglesi che la Brexit è stata una mano santa. Sono i più forti consumatori di spumanti al mondo, ma sono anche coloro i quali li hanno resi possibile e ora ne producono di ottimi (ad esempio Bolney).
Il metodo di rifermentazione fu codificato da due marchigiani: Andrea Bacci (De naturalis vinorum historia del 1599) e Francesco Scacchi (1622, De Salubri potu dissertatio) mettono a punto la tecnica, tant’è che si potrebbe parale di un metodo Scacchi. Dom Pierre Pérignon arriva sessant’anni dopo. Ma i due italiani hanno un limite: le bottiglie di vetro soffiato scoppiano. In rifermentazione si arriva fino a 6 atmosfere di pressione. Però nel 1652 sir Kelem Digby cambiò tutto. Giorgio I aveva impedito di tagliare alberi per alimentare i forni vetrai, cosi Digby usò il carbone. Questo gli consentì di alzare le fusioni e mescolare carbonio alla pasta vitrea: nacque l’iper-resistente «English Bottle». Gli inglesi, primi clienti dei vini francesi, fecero con il vetro la fortuna dello Champagne. E questo spiega perché le bottiglie sono pesanti e scure (fino a 9 etti per il metodo classico, 700 grammi quelle da Prosecco, mezzo chilo quelle da vino, anche se l’italiana Verallia ha prodotto la Borgne Aire di soli tre etti). Ma l’Europa non lo sa o fa finta. Perché attraverso le bottiglie (produrre un chilo di vetro vergine vale 500 grammi di CO2, ma nel 2024 l’Italia col riciclo ha risparmiato quasi 1 milione di tonnellate di anidride carbonica, 358.000 tonnellate di petrolio e 3,8 milioni tonnellate di materiali) ha capito che può frenare la crescita di alcuni Paesi. Solo che ora dovranno spiegarlo ai vigneron francesi, che da mesi protestano e hanno già estirpato 12.000 ettari di vigna. Ci sta che a Bruxelles dalle cantine arrivi un messaggio in bottiglia: o lasciate perdere, o i trattori che il 18 stanno per circondare palazzo Berlaymont sono solo un aperitivo.
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Maurizio Gasparri (Ansa)
Sono le 20.30, Andrea finisce il suo turno e sale negli spogliatoi, al piano superiore, per cambiarsi. Scendendo dalle scale si trova davanti ad un uomo armato che, forse in preda al panico, apre il fuoco. La pallottola gli buca la testa, da parte a parte, ma invece di ucciderlo lo manda in coma per mesi, riducendolo a un vegetale. La sua vita e quella dei suoi genitori si ferma quel giorno.
Lo Stato si dimentica di loro. Le indagini si concludono con un nulla di fatto. Non solo non hanno mai trovato chi ha sparato ma neppure il proiettile e la pistola da dove è partito il colpo. Questo perché in quel supermercato le telecamere non erano in funzione. Nel 2018 archiviano il caso. E rinvio dopo rinvio non è ancora stato riconosciuto alla famiglia alcun risarcimento in sede civile. Oggi Andrea ha 35 anni e forse neppure lo sa, ha bisogno di tutto, è immobile, si nutre con un sondino, passa le sue giornate tra il letto e la carrozzina. Per assisterlo, al mattino, la famiglia paga due persone. Hanno dovuto installare un ascensore in casa. E ricevono solo un indennizzo Inail che appena gli consente di provvedere alle cure.
Il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, membro della commissione Giustizia del Senato, è sconcertato: «Sono profondamente indignato per quanto accaduto a questa famiglia, Andrea e i suoi genitori meritano la giustizia che fino ad oggi gli è stata negata da lungaggini e burocrazia. Non si capisce il motivo di così tanti rinvii. Almeno si giunga a una sentenza e che Andrea abbia il risarcimento che merita dall’assicurazione. Anche il datore di lavoro ha le sue responsabilità e non possono non essere riconosciute dai giudici».
Il collega senatore di Forza Italia, nonché avvocato, Pierantonio Zanettin, anche lui membro della stessa commissione, propone «che lo Stato si faccia carico di un provvedimento ad hoc di solidarietà se la causa venisse persa. È patologico che ci siano tutti questi rinvii. Bisognerebbe capire cosa c’è sotto. Ci devono spiegare le ragioni. Comunque io mi metto a disposizione della famiglia e del legale. La giustizia ha l’obbligo di rispondere».
Ogni volta l’inizio del processo si sposta di sei mesi in sei mesi, quando va bene. L’ultima beffa qualche giorno fa quando la Corte d’Appello calendarizza un altro rinvio. L’avvocato della famiglia, Matteo Mion, non sa darsi una ragione: «Il motivo formale di tutti questi rinvii è il carico di lavoro che hanno nei tribunali, ma io credo più nell’inefficienza che nei complotti. In primo grado era il tribunale di Padova, adesso siamo in Corte di Appello a Venezia. Senza spiegazioni arriva una pec che ci informa dell’ennesimo rinvio. Ormai non li conto più. L’ultima volta il 4 dicembre, rinviati all’11 giugno 2026. La situazione è ingessata, non puoi che prenderne atto e masticare amaro».
In primo grado, il giudice Roberto Beghini, prova addirittura a negare che Andrea avesse diritto a un indennizzo Inail, sostenendo che quello non fosse un infortunio sul lavoro. Poi sentenzia che non c’è alcuna connessione, nemmeno indiretta, tra quanto successo ad Andrea e l’attività lavorativa che stava svolgendo, in quanto aveva già timbrato il cartellino, era quindi fuori dall’orario di lavoro, non era stata sottratta merce dal supermercato, né il ragazzo era stato rapinato personalmente. Per lui non è stata una rapina finita male. Nessuna merce sottratta, nessuna rapina. Il giudice Beghini insinua addirittura che potrebbe essere stato un regolamento di conti. Solo congetture, nessuna prova, nulla che possa far sospettare che qualcuno volesse fare del male al ragazzo. Giusto giovedì sera, alle 19.30, in un altro Prix market, stavolta a Bagnoli di Sopra (Padova), due banditi hanno messo a segno una rapina armati di pistola. Anche stavolta non c’erano le telecamere. Ed è il quarto colpo in nove giorni.
Ciò che è certo in questa storia è che il crimine è avvenuto all’interno del posto di lavoro dove Andrea era assunto, le telecamere erano spente e chi ha sparato è entrato dal retro dell’edificio attraverso un ingresso lasciato aperto. In un Paese normale i titolari del Prix, se non delle colpe dirette, avrebbero senz’altro delle responsabilità. «L’aspetto principale è l’assenza di misure di sicurezza del supermercato», conclude Mion, «che avrebbero tutelato il personale e che avrebbero consentito con buona probabilità di sapere chi ha sparato. C’è una responsabilità della sentenza primo grado, a mio avviso molto modesta».
Per il deputato di Forza Italia, Enrico Costa, ex viceministro della Giustizia e oggi membro della commissione Giustizia della Camera, «ancora una volta giustizia non è fatta. Il responsabile di quell’atto non è stato trovato, abbiamo un ragazzo con una lesione permanente e una famiglia disperata alla quale è cambiata la vita da un momento all’altro. È loro diritto avere un risarcimento e ottenere giustizia».
L’assicurazione della Prix Quality Spa, tace e si rifiuta di pagare. Sapete quanto hanno offerto ad Andrea? Cinquantamila euro. Ecco quanto vale la vita di un ragazzo.
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Beppe Sala (Ansa)
«Il Comune di Milano ha premiato la Cgil con l’Ambrogino, la più importante benemerenza civica. Quello che vorremmo capire è perché lo stesso riconoscimento non sia stato assegnato anche alla Cisl. O alla Uil. Insomma, a tutto il movimento sindacale confederale», afferma Abimelech. Il segretario della Cisl richiama il peso organizzativo del sindacato sul territorio e il ruolo svolto nei luoghi di lavoro e nei servizi ai cittadini: «È una risposta che dobbiamo ai nostri 185.000 iscritti, ai delegati e alle delegate che si impegnano quotidianamente nelle aziende e negli uffici pubblici, alle tantissime persone che si rivolgono ai nostri sportelli diffusi in tutta l’area metropolitana per chiedere di essere tutelate e assistite».
Nel merito delle motivazioni che hanno accompagnato il riconoscimento alla Cgil, Abimelech solleva una serie di interrogativi sul mancato coinvolgimento delle altre sigle confederali. «Abbiamo letto le motivazioni del premio alla Cgil e allora ci chiediamo: la Cisl non è un presidio democratico e di sostegno a lavoratori e lavoratrici? Non è interlocutrice cruciale per istituzioni e imprese, impegnata nel tutelare qualità del lavoro, salute pubblica e futuro del territorio?», dichiara.
Il segretario generale elenca le attività svolte dal sindacato sul piano dei servizi e della rappresentanza: «Non offre servizi essenziali, dai Caf al Patronato, agli sportelli legali? Non promuove modelli di sviluppo equi, sostenibili e inclusivi? Non è vitale il suo ruolo nel dibattito sulle dinamiche della politica economica e industriale?».
Nella dichiarazione trova spazio anche il recente trasferimento della sede della sigla milanese. «In queste settimane la Cisl ha lasciato la sua “casa” storica di via Tadino 23, inaugurata nel 1961 dall’arcivescovo Giovanni Battisti Montini, il futuro Papa Paolo VI, per trasferirsi in una più grande e funzionale in via Valassina 22», ricorda Abimelech, sottolineando le ragioni dell’operazione: «Lo ha fatto proprio per migliorare il suo ruolo di servizio e tutela per i cittadini e gli iscritti».
La presa di posizione si chiude con un interrogativo rivolto direttamente all’amministrazione comunale: «Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati di serie A e di serie B? Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati amici e nemici?». Al sindaco Sala non resta che conferire con Abimelech e metterlo a parte delle risposte ai suoi interrogativi.
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