True
2021-07-22
Senza benzina lo Stato resta a secco. Con l’elettrico buco da 37 miliardi
Con l'auto elettrica lo Stato rischia di restare al verde. Chi è in «emissione per conto del pianeta» e vuole mandarci a piedi non se ne cura, ma è uno degli interrogativi più pesanti e oscuri. Può lo Stato rinunciare agli incassi sui carburanti? E una volta che nessuno più comprasse benzina e gasolio dove va a prenderli i soldi? In Italia il fisco incassa circa un euro per ogni litro di carburante acquistato alla pompa. Il Green deal concepito a Bruxelles già stabilisce che il prelievo minimo fiscale passa per la benzina da 0,359 a 0,385 euro e da 0,35 a 0,419 euro per il gasolio. Sono altri 5 centesimi in più al litro. Ma tutto questo dura fino al 2030 quando poi le auto a motore endotermico saranno una specie in via di estinzione perché nel 2035 verranno messe fuori mercato.
È inquietante pensare quanto costerà circolare dopo quelle date per chi non si sarà potuto comprare quattro ruote a batteria. È bastato un anno di pandemia per far perdere all'erario circa 8 miliardi tra Iva e accise. Se nessuno facesse più il pieno il buco sarebbe attorno ai 37 miliardi. Andando più nello specifico si scopre che dai prodotti petroliferi lo Stato incassa, oltre a quelle sui carburanti che sono il 75% della voce accise, un altro 10% delle accise sul gas naturale e un ulteriore 8% sull'energia elettrica prodotta con combustibili fossili. Il 99,3% degli incassi da accise dello Stato è assicurato dal petrolio: sono 33,7 miliardi a cui va aggiunta l'Iva. Giusto per saperlo in tempo di virus cinese: l'incasso delle accise sui carburanti finanzia l'intero sistema sanitario nazionale.
Sempre dalla pompa lo Stato incassa le tasse su reddito dei gestori dei distributori e sui profitti delle imprese petrolifere e di distribuzione. Se facciamo 50 euro di gasolio si ripartiscono così: il 58% e cioè 29 euro vanno allo Stato che si prende 27 euro di accise e Iva e 2 euro di gettito fiscale sulle attività, 40 % cioè 20 euro lordi alla compagnia petrolifera, 2% cioè 1 euro lordo al gestore dell'impianto. Stando così le cose l'evasione sui carburanti in Italia si aggira attorno ai 3 miliardi all'anno attraverso soprattutto le cosiddette «pompe bianche», cioè gli impianti di rifornimento no logo.
Ma il capitolo dello sconvolgimento fiscale non è finito. Dal prossimo anno tutti i carburanti saranno tassati: non ci saranno più esenzioni per il cherosene degli aerei, per il greggio delle navi, per il gasolio agricolo e dei motoscafi. Siccome delle loro emissioni nulla si sa è possibile che questi mezzi anche dopo il 2030 continueranno a viaggiare. A finanziare lo Stato ci penseranno probabilmente in parte loro anche se giganti come Lufthansa hanno già detto che non intendono pagare perché l'Ue consentirà a vettori di altri continenti di viaggiare generando di fatto un dumping contro le compagnie continentali. A Bruxelles hanno fatto sapere che per navi e aerei gli Ets (sono i certificati che consentono di inquinare pagando una tassa) saliranno a 50 euro a tonnellata di CO2 emessa. Un volo Roma-New York e ritorno emette una tonnellata di gas a passeggero.
La transizione verde per lo Stato non è un pasto gratis, ma il conto lo pagherà sempre il cittadino. Tornando alle automobili c'è da considerare il capitolo Iva sull'acquisto delle auto. Nel 2020 solo per l'effetto pandemia il settore auto ha fatturato circa 10 miliardi in meno per minori vendite: lo Stato ci ha rimesso 2 miliardi di Iva e circa 300 milioni di tasse d'immatricolazione, senza contare il minor gettito sui redditi. C'è poi il capitolo tasse di circolazione. Come incentivo all'acquisto di auto elettriche (in Italia siamo fermi al 7,9% del mercato di cui solo il 36% è di elettriche pure) 18 Regioni su 20 non fanno pagare il bollo per cinque anni. E c'è anche da capire se possa resistere il bollo auto applicato alle quattro ruote a carburante fossile avendo decretato per legge che sono un bene non più commerciabile. E qui si apre un'altra falla. Sono 6,6 miliardi all'anno che mancheranno alle Regioni. L'incasso complessivo che lo Stato fa ogni anno dal settore auto e affini è di circa 73 miliardi all'anno. È probabile che dagli oli lubrificanti fino ai meccanici nell'era del tutto elettrico tre quarti di quel gettito sparirà: sono 55 miliardi di entrate.
Dopo il lucro cessante c'è la spesa emergente. La Commissione europea impone che si istallino stazioni di ricarica ogni 60 chilometri. La Corte dei conti europea ha già detto che per cogliere gli obbiettivi posti da Ursula von der Leyen bisognerebbe installare 3.000 colonnine al giorno considerando (è uno studio dell'Acea) che a oggi il 70% degli impianti di ricarica è concentrato in soli tre Paesi. La spesa? Una colonnina domestica che ricarica l'auto in una giornata costa 9.000 euro più Iva, una pubblica non meno di 40.000. Chi paga? Ah saperlo!
«La plastica riciclata è un'eccellenza italiana che rischia di sparire»
Siamo leader nella tecnologia al punto che la esportiamo all'estero, leader nella qualità dei prodotti riciclati, eppure la politica sembra fare di tutto per penalizzare queste imprese di eccellenza. Tant'è che alcune hanno fatto i bagagli e sono andate in Francia e Spagna. È l'ennesima storia di sbagli nella politica industriale, ma questa volta gli effetti potrebbero essere più gravi perché in ballo c'è la transizione ecologica voluta dall'Europa e parte del Pnrr. Lo scenario viene delineato da Walter Regis, presidente di Assorimap/Confimi industria, l'associazione che riunisce 40 delle 60 imprese industriali del riciclo della plastica, anche se, è la critica di Regis, «non siamo mai stati interpellati dal governo sulle strategie per il comparto».
In che modo la politica sta penalizzando l'industria del riciclo della plastica? Non è una contraddizione rispetto all'obiettivo di trovare forme di tutela dell'ambiente?
«Basta leggere quello che ha detto recentemente il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani. Non è d'accordo sul fatto che si dica che l'unica plastica buona è quella riciclabile perché viene dal petrolio. Sostiene che si sposterebbe soltanto l'anno in cui la butteremo perché non si può riciclare all'infinito. Sono affermazioni che danneggiano le imprese che stanno investendo sul riciclo meccanico delle plastiche. Gli obiettivi europei sono il riciclo dei rifiuti di imballaggio in plastica del 50% rispetto all'immesso nel 2025 e del 55% nel 2030. È un obbligo che viene dal Pacchetto per l'economia circolare in vigore da gennaio di quest'anno. Poi c'è la direttiva Sup che prevede che tutti i contenitori per liquidi fino a 3 litri abbiano contenuti di plastica riciclata pari al 25% al 2025 e al 30% al 2030. Il ministro usa parole che disincentivano le imprese a investire nel riciclo. È inaccettabile se si considera che altri Paesi europei come Francia, Spagna e Germania stanno deliberando politiche attive e di incentivazione».
Che tipi di incentivi hanno i vostri competitor?
«La Francia dà un contributo da 150 euro a 350 euro per ogni tonnellata di materia recuperata alle imprese del riciclo meccanico. E lo fa non solo per gli obiettivi della transizione ecologica ma anche per la plastic tax europea. Questa prevede un'imposta di 800 euro per ogni tonnellata di plastica non riciclata rispetto all'immesso. Se l'Italia ha l'immissione di 2 milioni di tonnellate di imballaggi l'anno e ricicla solo 1 milione di tonnellate dovremo pagare 800 milioni di euro. Tutti i Paesi europei stanno investendo nel riciclo proprio alla luce di questa tassa. Parliamo degli imballaggi in plastica che rappresentano il 50% della plastica immessa nel nostro Paese e in Europa».
Siete stati interpellati su tale tema dal governo?
«Assolutamente no. Abbiamo chiesto un tavolo istituzionale per cercare soluzioni e valorizzare un'industria importante per il Paese».
Ma il Pnrr non contiene risorse per il settore?
«Noi avevamo avanzato delle proposte a cominciare da un contributo per ogni tonnellata di materia recuperata sull'esempio della Francia, un credito d'imposta per i produttori di imballaggi che utilizzano il riciclato e contributi per lo sviluppo impiantistico e aiuti. Il Pnrr però non ha assecondato queste richieste. Sullo sviluppo impiantistico contiene risorse irrisorie, circa 1,5 miliardi con priorità per il Sud, ma dovrebbero almeno essere moltiplicate per 100. Il Paese è carente di impianti e spendiamo soldi per mandare i materiali all'estero».
Abbiamo tecnologia all'avanguardia ma non la usiamo.
«È assurdo ma vero. Nonostante le nostre capacità abbiamo solo 60 imprese per il riciclo della plastica. Per il Pet, solo dieci imprese. Ci sono una serie di problemi che non vengono affrontati. Il costo dell'energia, dedotti i costi di approvvigionamento, è il 30% di quello del prodotto e le imprese hanno difficoltà a essere competitive. Poi ci sono i costi nascosti come la burocrazia. In Francia ci vogliono sei mesi per fare un impianto, in Italia almeno due anni. Così diventa prassi delocalizzare. Alcune imprese hanno preferito investire in Francia e Spagna. È la dimostrazione che l'Italia deve cambiare marcia».
In che modo la plastica riciclata contribuisce alla transizione ecologica?
«Per ogni tonnellata riciclata rispetto al vergine si risparmiano 1,9 tonnellate di petrolio, c'è una riduzione di CO2 di 1,4 tonnellate e un risparmio di 3.000 chilowattora».
Continua a leggereRiduci
Al di là dei danni al comparto industriale, vietare le auto a combustione, come ordina l'Ue, significa perdere Iva e accise, usate per finanziare pure il sistema sanitario. Per compensare, le imposte finiranno altrove.Il presidente di Assorimap: «Il governo non ci sostiene, la Francia dà incentivi per evitare delocalizzazioni».Lo speciale contiene due articoli.Con l'auto elettrica lo Stato rischia di restare al verde. Chi è in «emissione per conto del pianeta» e vuole mandarci a piedi non se ne cura, ma è uno degli interrogativi più pesanti e oscuri. Può lo Stato rinunciare agli incassi sui carburanti? E una volta che nessuno più comprasse benzina e gasolio dove va a prenderli i soldi? In Italia il fisco incassa circa un euro per ogni litro di carburante acquistato alla pompa. Il Green deal concepito a Bruxelles già stabilisce che il prelievo minimo fiscale passa per la benzina da 0,359 a 0,385 euro e da 0,35 a 0,419 euro per il gasolio. Sono altri 5 centesimi in più al litro. Ma tutto questo dura fino al 2030 quando poi le auto a motore endotermico saranno una specie in via di estinzione perché nel 2035 verranno messe fuori mercato. È inquietante pensare quanto costerà circolare dopo quelle date per chi non si sarà potuto comprare quattro ruote a batteria. È bastato un anno di pandemia per far perdere all'erario circa 8 miliardi tra Iva e accise. Se nessuno facesse più il pieno il buco sarebbe attorno ai 37 miliardi. Andando più nello specifico si scopre che dai prodotti petroliferi lo Stato incassa, oltre a quelle sui carburanti che sono il 75% della voce accise, un altro 10% delle accise sul gas naturale e un ulteriore 8% sull'energia elettrica prodotta con combustibili fossili. Il 99,3% degli incassi da accise dello Stato è assicurato dal petrolio: sono 33,7 miliardi a cui va aggiunta l'Iva. Giusto per saperlo in tempo di virus cinese: l'incasso delle accise sui carburanti finanzia l'intero sistema sanitario nazionale. Sempre dalla pompa lo Stato incassa le tasse su reddito dei gestori dei distributori e sui profitti delle imprese petrolifere e di distribuzione. Se facciamo 50 euro di gasolio si ripartiscono così: il 58% e cioè 29 euro vanno allo Stato che si prende 27 euro di accise e Iva e 2 euro di gettito fiscale sulle attività, 40 % cioè 20 euro lordi alla compagnia petrolifera, 2% cioè 1 euro lordo al gestore dell'impianto. Stando così le cose l'evasione sui carburanti in Italia si aggira attorno ai 3 miliardi all'anno attraverso soprattutto le cosiddette «pompe bianche», cioè gli impianti di rifornimento no logo. Ma il capitolo dello sconvolgimento fiscale non è finito. Dal prossimo anno tutti i carburanti saranno tassati: non ci saranno più esenzioni per il cherosene degli aerei, per il greggio delle navi, per il gasolio agricolo e dei motoscafi. Siccome delle loro emissioni nulla si sa è possibile che questi mezzi anche dopo il 2030 continueranno a viaggiare. A finanziare lo Stato ci penseranno probabilmente in parte loro anche se giganti come Lufthansa hanno già detto che non intendono pagare perché l'Ue consentirà a vettori di altri continenti di viaggiare generando di fatto un dumping contro le compagnie continentali. A Bruxelles hanno fatto sapere che per navi e aerei gli Ets (sono i certificati che consentono di inquinare pagando una tassa) saliranno a 50 euro a tonnellata di CO2 emessa. Un volo Roma-New York e ritorno emette una tonnellata di gas a passeggero. La transizione verde per lo Stato non è un pasto gratis, ma il conto lo pagherà sempre il cittadino. Tornando alle automobili c'è da considerare il capitolo Iva sull'acquisto delle auto. Nel 2020 solo per l'effetto pandemia il settore auto ha fatturato circa 10 miliardi in meno per minori vendite: lo Stato ci ha rimesso 2 miliardi di Iva e circa 300 milioni di tasse d'immatricolazione, senza contare il minor gettito sui redditi. C'è poi il capitolo tasse di circolazione. Come incentivo all'acquisto di auto elettriche (in Italia siamo fermi al 7,9% del mercato di cui solo il 36% è di elettriche pure) 18 Regioni su 20 non fanno pagare il bollo per cinque anni. E c'è anche da capire se possa resistere il bollo auto applicato alle quattro ruote a carburante fossile avendo decretato per legge che sono un bene non più commerciabile. E qui si apre un'altra falla. Sono 6,6 miliardi all'anno che mancheranno alle Regioni. L'incasso complessivo che lo Stato fa ogni anno dal settore auto e affini è di circa 73 miliardi all'anno. È probabile che dagli oli lubrificanti fino ai meccanici nell'era del tutto elettrico tre quarti di quel gettito sparirà: sono 55 miliardi di entrate. Dopo il lucro cessante c'è la spesa emergente. La Commissione europea impone che si istallino stazioni di ricarica ogni 60 chilometri. La Corte dei conti europea ha già detto che per cogliere gli obbiettivi posti da Ursula von der Leyen bisognerebbe installare 3.000 colonnine al giorno considerando (è uno studio dell'Acea) che a oggi il 70% degli impianti di ricarica è concentrato in soli tre Paesi. La spesa? Una colonnina domestica che ricarica l'auto in una giornata costa 9.000 euro più Iva, una pubblica non meno di 40.000. Chi paga? Ah saperlo! <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/senza-benzina-lo-stato-resta-a-secco-con-lelettrico-buco-da-37-miliardi-2653884353.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-plastica-riciclata-e-un-eccellenza-italiana-che-rischia-di-sparire" data-post-id="2653884353" data-published-at="1626892257" data-use-pagination="False"> «La plastica riciclata è un'eccellenza italiana che rischia di sparire» Siamo leader nella tecnologia al punto che la esportiamo all'estero, leader nella qualità dei prodotti riciclati, eppure la politica sembra fare di tutto per penalizzare queste imprese di eccellenza. Tant'è che alcune hanno fatto i bagagli e sono andate in Francia e Spagna. È l'ennesima storia di sbagli nella politica industriale, ma questa volta gli effetti potrebbero essere più gravi perché in ballo c'è la transizione ecologica voluta dall'Europa e parte del Pnrr. Lo scenario viene delineato da Walter Regis, presidente di Assorimap/Confimi industria, l'associazione che riunisce 40 delle 60 imprese industriali del riciclo della plastica, anche se, è la critica di Regis, «non siamo mai stati interpellati dal governo sulle strategie per il comparto». In che modo la politica sta penalizzando l'industria del riciclo della plastica? Non è una contraddizione rispetto all'obiettivo di trovare forme di tutela dell'ambiente? «Basta leggere quello che ha detto recentemente il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani. Non è d'accordo sul fatto che si dica che l'unica plastica buona è quella riciclabile perché viene dal petrolio. Sostiene che si sposterebbe soltanto l'anno in cui la butteremo perché non si può riciclare all'infinito. Sono affermazioni che danneggiano le imprese che stanno investendo sul riciclo meccanico delle plastiche. Gli obiettivi europei sono il riciclo dei rifiuti di imballaggio in plastica del 50% rispetto all'immesso nel 2025 e del 55% nel 2030. È un obbligo che viene dal Pacchetto per l'economia circolare in vigore da gennaio di quest'anno. Poi c'è la direttiva Sup che prevede che tutti i contenitori per liquidi fino a 3 litri abbiano contenuti di plastica riciclata pari al 25% al 2025 e al 30% al 2030. Il ministro usa parole che disincentivano le imprese a investire nel riciclo. È inaccettabile se si considera che altri Paesi europei come Francia, Spagna e Germania stanno deliberando politiche attive e di incentivazione». Che tipi di incentivi hanno i vostri competitor? «La Francia dà un contributo da 150 euro a 350 euro per ogni tonnellata di materia recuperata alle imprese del riciclo meccanico. E lo fa non solo per gli obiettivi della transizione ecologica ma anche per la plastic tax europea. Questa prevede un'imposta di 800 euro per ogni tonnellata di plastica non riciclata rispetto all'immesso. Se l'Italia ha l'immissione di 2 milioni di tonnellate di imballaggi l'anno e ricicla solo 1 milione di tonnellate dovremo pagare 800 milioni di euro. Tutti i Paesi europei stanno investendo nel riciclo proprio alla luce di questa tassa. Parliamo degli imballaggi in plastica che rappresentano il 50% della plastica immessa nel nostro Paese e in Europa». Siete stati interpellati su tale tema dal governo? «Assolutamente no. Abbiamo chiesto un tavolo istituzionale per cercare soluzioni e valorizzare un'industria importante per il Paese». Ma il Pnrr non contiene risorse per il settore? «Noi avevamo avanzato delle proposte a cominciare da un contributo per ogni tonnellata di materia recuperata sull'esempio della Francia, un credito d'imposta per i produttori di imballaggi che utilizzano il riciclato e contributi per lo sviluppo impiantistico e aiuti. Il Pnrr però non ha assecondato queste richieste. Sullo sviluppo impiantistico contiene risorse irrisorie, circa 1,5 miliardi con priorità per il Sud, ma dovrebbero almeno essere moltiplicate per 100. Il Paese è carente di impianti e spendiamo soldi per mandare i materiali all'estero». Abbiamo tecnologia all'avanguardia ma non la usiamo. «È assurdo ma vero. Nonostante le nostre capacità abbiamo solo 60 imprese per il riciclo della plastica. Per il Pet, solo dieci imprese. Ci sono una serie di problemi che non vengono affrontati. Il costo dell'energia, dedotti i costi di approvvigionamento, è il 30% di quello del prodotto e le imprese hanno difficoltà a essere competitive. Poi ci sono i costi nascosti come la burocrazia. In Francia ci vogliono sei mesi per fare un impianto, in Italia almeno due anni. Così diventa prassi delocalizzare. Alcune imprese hanno preferito investire in Francia e Spagna. È la dimostrazione che l'Italia deve cambiare marcia». In che modo la plastica riciclata contribuisce alla transizione ecologica? «Per ogni tonnellata riciclata rispetto al vergine si risparmiano 1,9 tonnellate di petrolio, c'è una riduzione di CO2 di 1,4 tonnellate e un risparmio di 3.000 chilowattora».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
Continua a leggereRiduci
Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
Continua a leggereRiduci
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
Continua a leggereRiduci