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2021-02-01
Scuola riaperta nel caos
iStock
Ora che anche gli ultimi tasselli sono finiti al loro posto, il puzzle della scuola mostra la sua immagine finale: un'enorme nuvola di caos. Ancora una volta. Dopo la falsa partenza di settembre e il rompicapo delle riaperture di inizio anno, oggi tornano in aula anche gli studenti delle scuole superiori nelle ultime regioni che mancavano all'appello, tra cui Veneto, Campania, Puglia, Sardegna e Calabria. Unica eccezione resta la Sicilia, i cui studenti dovrebbero entrare in classe la prossima settimana. La presenza è ancora limitata al 50% e, a giudicare dalle segnalazioni che arrivano da tutta Italia, l'obiettivo del 75% degli ingressi, fissato da Giuseppe Conte lo scorso 3 dicembre, resta ancora lontano.
Chi si aspettava un rientro ordinato, ha dovuto fare i conti con una serie di ostacoli, tra cui la fantasia dei governatori regionali. Alcuni di loro, indecisi sulle forme che la didattica ha assunto in questi mesi, hanno optato per una soluzione ulteriore, tutta loro: la «didattica a scelta». Ai presidi degli istituti, già alle prese con la «grana» degli orari scaglionati orari, non resta che rassegnarsi al volere delle famiglie. A loro, i presidenti di Regione hanno assegnato la facoltà di decidere per i ragazzi: lezioni in presenza o «fruizione della didattica a distanza». Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, è stato il primo a percorrere questa strada. A ruota, sono arrivati i presidenti della Campania, Vincenzo De Luca, e della Calabria, Nino Spirlì.
«L'obbligo di frequenza durante una pandemia è inconcepibile», si è giustificato Emiliano, con buona pace delle disposizioni governative e delle linee diramate dai prefetti ai dirigenti scolastici. In molti istituti è ripartito il sudoku degli ingressi per far quadrare orari e presenze. «Frequentare è un dovere e la frequenza non può che avvenire con le regole della scuola», spiega Roberto Romito, rappresentante dei presidi pugliesi. «La libertà di scelta offende gravemente la dignità degli istituti, riducendoli a parcheggi, e svilisce l'impegno di dirigenti e insegnanti». A preoccupare sono le ricadute sulla didattica che la girandola delle decisioni finirà per generare: «Si crea un divario tra chi frequenta e chi no, e tenere i ragazzi attaccati ai monitor per tante ore non può produrre miglioramenti formativi», ragionano i sindacalisti della Cisl scuola.
L'allarme è già scattato in Campania, l'ultima regione ad aprire gli istituti in autunno e la prima a chiuderli qualche giorno più tardi. I conti li fa il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris: «Abbiamo ragazzi che per un anno non sono quasi mai andati a scuola e la Regione non ha fatto nulla per monitorare». Nella sola Napoli, c'è un «picco esponenziale» di dispersione scolastica che coincide esattamente con gli ultimi otto mesi di pandemia, quando è stata imboccata la strada della didattica a distanza per far fronte all'emergenza. Quella che doveva essere una misura temporanea si è trasformata in una soluzione strutturale.
Ne pagano il conto i ragazzi, che nelle ultime settimane stanno provando a far sentire la propria voce. Le proteste sono esplose tra Torino, Milano, Napoli e Roma. Alcuni licei storici sono stati temporaneamente occupati, con una richiesta molto semplice: «Lasciateci tornare in sicurezza». Il rientro a metà non basta più, i ragazzi cercano una parvenza di normalità che per ora non c'è. «Le scuole superiori hanno riaperto, ma in condizioni drammatiche per la sicurezza di studenti e lavoratori», raccontano. Le linee dei trasporti restano in buona parte sovraffollate, manca un adeguato sistema di tracciamento dei contagi negli istituti. Nessuno sembra aver pensato a come mettere mano a uno dei problemi atavici del nostro sistema formativo: le classi pollaio. «All'interno delle aule c'è una relativa sicurezza, come attesta anche l'Istituto superiore di sanità», spiega alla Verità Antonello Giannelli, presidente dell'Associazione nazionale dei presidi. «I problemi sorgono fuori, dove si perde il controllo. Se nelle scuole facciamo rispettare un certo protocollo e poi altrove saltano gli schemi, allora diventa tutto inutile».
Bus sempre strapieni alle ore di punta e calca agli ingressi
«C'è una discrepanza tra quello che si dice e quello che si vede: le aziende del trasporto pubblico locale ci assicurano che è tutto a posto, che le corse sono garantite, che la capienza del 50% è pienamente rispettata. Poi usciamo in strada e vediamo in realtà che gli autobus sono pieni, che le corse non partono o partono in ritardo». Al piano per la riapertura del suo liceo, il Newton di Roma, Cristina Costarelli ha lavorato per giorni. Ingressi scaglionati, distanziamento, tutto è stato rivisto per far tornare i ragazzi a scuola. C'è una cosa però che non sembra essere cambiata, nonostante i proclami: le criticità croniche del trasporto pubblico.
«Ci hanno costretto a ripensare la scuola, e ora il sistema dei trasporti non riesce a sostenerlo», spiega la preside, raggiunta al telefono dalla Verità. Le linee periferiche sono quelle più in sofferenza: le corse non sono ben distribuite, i ragazzi rischiano di ritrovarsi tutti insieme per raggiungere gli istituti. Sulla base delle segnalazioni che arrivano dagli studenti delle consulte, l'Associazione nazionale dei presidi di Roma ha contato più di 30 linee in sofferenza, tra autobus e tram. Atac assicura che «verranno approfondite le specifiche situazioni», ma ciò non basta ai genitori della capitale. «Le preoccupazioni delle famiglie», continua la preside Costarelli, «non sono dovute alle lezioni in presenza, ma a ciò che avviene al di fuori degli istituti: ci sono ragazzi che, per arrivare a scuola, cambiano mezzi anche due o tre volte. Su quelle linee potrebbe muoversi il contagio».
Il timore di un servizio insufficiente corre anche lungo le linee degli autobus di Napoli, che oggi dovrebbero riportare in classe buona parte degli studenti delle scuole superiori. Nel piano messo a punto dall'azienda del trasporto locale Anm, dovrebbero esserci 45 autobus dedicati, per un totale di 450 corse giornaliere. Chi conosce i programmi di servizio dell'azienda, però, sospetta che le corse non siano un'integrazione di quelle ordinarie, ma solo una sostituzione. «Il servizio non è esclusivamente scolastico: durante il percorso, siamo obbligati a far salire chiunque ne farà richiesta», spiega Marco Sansone, del coordinamento regionale Usb. Per incrementare il numero degli autisti, all'Anm hanno deciso di procedere con l'assunzione di 40 lavoratori interinali, con un contratto temporaneo di appena 5 mesi. Ma chi si aspettava di vederli già in servizio oggi rimarrà deluso: i nuovi autisti troveranno posto sugli autobus di Napoli solo tra una settimana.
Secondo Sansone, il servizio rischia di «restare scoperto». I buchi, al massimo, verranno tappati con il ricorso agli straordinari. «Credo che in questa settimana andremo incontro a tre scenari: assembramenti paurosi alle fermate, un aumento del traffico in caso di ricorso alle auto private oppure la prosecuzione della didattica a distanza, se i genitori decideranno di tenere i ragazzi a casa per evitare un'eventuale esposizione al contagio. Del resto, a Napoli lo abbiamo già sperimentato nei mesi scorsi, quando le scuole sono state chiuse a causa dell'inefficienza dei trasporti».
A quasi un anno di distanza dall'inizio della pandemia, le aziende del trasporto pubblico locale non sono ancora riuscite a risolvere del tutto il problema dei «picchi di domanda». Le corse del mattino restano dei nodi critici, nonostante lo scaglionamento degli ingressi a scuola. Come sottolinea la stessa Atac, gli studenti utilizzano scarsamente altre fasce orarie, come quella delle 10, soprattutto per motivi familiari.
Eppure, le soluzioni per intervenire in tempo c'erano. Le risposte non sono state efficaci, come spiega Andrea Giuricin, docente di economia dei trasporti all'università di Milano Bicocca. «Allargare l'offerta era la strada più semplice, ma la decisione di aprire ai privati è stata tardiva e non è ancora univoca. Servivano delle scelte regolatorie sugli orari, ma anche quelle sembrano ancora in via di definizione. Infine, si poteva pensare a un sistema di prezzi differenti in funzione del picco, come già avviene in altre città, per esempio a Londra. Ma la strada del governo è stata un'altra, la stessa imboccata in tutti questi anni: continuare a finanziare le aziende per ripianare le perdite. La risposta non è stata sufficiente nel periodo di emergenza e non lo sarà nel lungo periodo. Di fatto, si continua a mettere benzina in un motore che non gira come dovrebbe, ormai da troppo tempo».
«In Dad non s'impara quasi nulla»
«Affidarsi alla didattica a distanza (Dad) è stato come andare al pronto soccorso: può essere una possibilità in una situazione di emergenza, ma poi i pazienti devono essere curati in altri reparti. Si è scelto di continuare con la Dad e non sappiamo ancora quale sia la diagnosi per i nostri ragazzi. Tutto lascia pensare che le cose non siano migliorate, anzi». Dal 2014, Anna Maria Ajello vigila sulla qualità dell'offerta formativa italiana e sulle conoscenze e le abilità degli studenti. A quasi un anno di distanza dall'inizio della pandemia, la presidente di Invalsi (Istituto per la valutazione del sistema educativo e di formazione) non ha dubbi: «Ai nostri ragazzi è stato tolto molto. Senza scuola, chi non ha un sostegno culturale in famiglia rischia l'impoverimento, non solo formativo».
Professoressa Ajello, la pandemia è stata un detonatore per i tanti problemi della scuola. A cosa vanno incontro i «figli della Dad»?
«Ci sono due ordini di rischio: uno di natura educativa, l'altro attiene all'aspetto emotivo».
Partiamo dal primo: senza una solida istruzione, rischiamo di perdere una generazione di studenti?
«I ragazzi potrebbero non avere le competenze necessarie per la vita che li aspetta fuori. Un alto numero di studenti potrebbe essere condannato a una dispersione implicita».
Che cosa intende?
«Ci saranno studenti che si attesteranno sempre sul livello minimo, dai primi cicli scolastici fino all'università. Se i ragazzi non vengono messi nelle condizioni di alzare il loro grado di conoscenza, lasceranno gli istituti senza una cultura sedimentata, vera. Avranno semplicemente delle infarinature. E come la farina al vento, quelle conoscenze sono destinate a sparire».
Alle conseguenze implicite si aggiungono quelle esplicite: secondo Save the children, 34.000 studenti sono a rischio dispersione scolastica.
«Ogni insegnante sa che si sono persi degli studenti. In questa condizione, dovremmo capire come possono tornare a scuola, come riagganciarli al percorso formativo».
I rischi connessi alla sfera emotiva, invece, quali conseguenze possono avere sugli studenti?
«L'aspetto emotivo incide sulla sicurezza che i ragazzi hanno dei loro mezzi. La Dad ha eroso i rapporti personali, fondamentali negli anni dell'adolescenza. Sul piano identitario, la crescita si realizza attraverso il contatto. Tutto questo è venuto meno».
Alcuni studi internazionali evidenziano dati drammatici: le settimane di lockdown hanno generato dei ritardi nell'apprendimento del 30-50% rispetto ai progressi previsti all'inizio dell'anno scolastico. In Italiaparliamo delle stesse percentuali?
«Ogni confronto è un azzardo, ma ci sono degli elementi che vanno in questa direzione anche in Italia. Quello messo a punto in Olanda è un caso di studio emblematico: si tratta di un Paese con un forte incentivo alla digitalizzazione, una delle migliori connessioni al mondo. Eppure anche gli olandesi si sono accorti che nelle otto settimane di lockdown il livello di apprendimento dei ragazzi è stato minimo, quasi inesistente».
Come ripensare la didattica dopo questi mesi schizofrenici?
«La scuola deve insegnare ad approfondire. Oggi le informazioni sono a disposizione di tutti, facilmente. Il compito non è più solo trasmetterle, ma insegnare a gestirle: gli studenti devono essere messi nella condizione di selezionare e comparare le nozioni. Si tratta di insegnare ai ragazzi a ragionare».
Nelle ultime settimane, si sono moltiplicate le manifestazioni degli studenti che chiedono di essere ascoltati. Perché non sono coinvolti nei processi decisionali?
«Quello del coinvolgimento resta uno dei limiti del nostro sistema. Gli studenti crescono se li responsabilizziamo rispetto al problema. In fondo, a 14 anni hanno un motorino, riconosciamo loro un diritto. È possibile che a scuola non contino niente? Non sono degli ospiti, sono parte attiva».
Perché persiste questa tendenza a «infantilizzarli»?
«Per iperprotettività. Non ci preoccupiamo abbastanza della loro crescita, di come renderli indipendenti. Proteggere i nostri ragazzi non significa prendersene cura: un conto è tenerli al riparo da un eventuale contagio, altro è renderli autonomi e spingerli a riflettere rispetto a questa situazione. Altrimenti, sono come dei topi in gabbia: una volta usciti, assistiamo a scene tristi, come le risse che abbiamo visto al Pincio a Roma. Si fa presto a dire lasciamoli a casa».
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Gli studenti protestano, i sindaci non riorganizzano i trasporti, i presidenti delle Regioni s'inventano di lasciare ai genitori la libertà di decidere se mandare i figli in classe o no, i presidi si ribellano perché dicono che così «viene offesa la dignità degli istituti». Risultato: nessuno riesce ancora a dare una parvenza di normalità al sistema dell'istruzione.Famiglie preoccupate per i mezzi pubblici rimasti inadeguati A Napoli assunti autisti in più che non sono ancora in servizio.La presidente di Invalsi, Anna Maria Ajello: «Apprendimento a picco anche nell'iperdigitale Olanda».Lo speciale contiene tre articoli.Ora che anche gli ultimi tasselli sono finiti al loro posto, il puzzle della scuola mostra la sua immagine finale: un'enorme nuvola di caos. Ancora una volta. Dopo la falsa partenza di settembre e il rompicapo delle riaperture di inizio anno, oggi tornano in aula anche gli studenti delle scuole superiori nelle ultime regioni che mancavano all'appello, tra cui Veneto, Campania, Puglia, Sardegna e Calabria. Unica eccezione resta la Sicilia, i cui studenti dovrebbero entrare in classe la prossima settimana. La presenza è ancora limitata al 50% e, a giudicare dalle segnalazioni che arrivano da tutta Italia, l'obiettivo del 75% degli ingressi, fissato da Giuseppe Conte lo scorso 3 dicembre, resta ancora lontano. Chi si aspettava un rientro ordinato, ha dovuto fare i conti con una serie di ostacoli, tra cui la fantasia dei governatori regionali. Alcuni di loro, indecisi sulle forme che la didattica ha assunto in questi mesi, hanno optato per una soluzione ulteriore, tutta loro: la «didattica a scelta». Ai presidi degli istituti, già alle prese con la «grana» degli orari scaglionati orari, non resta che rassegnarsi al volere delle famiglie. A loro, i presidenti di Regione hanno assegnato la facoltà di decidere per i ragazzi: lezioni in presenza o «fruizione della didattica a distanza». Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, è stato il primo a percorrere questa strada. A ruota, sono arrivati i presidenti della Campania, Vincenzo De Luca, e della Calabria, Nino Spirlì. «L'obbligo di frequenza durante una pandemia è inconcepibile», si è giustificato Emiliano, con buona pace delle disposizioni governative e delle linee diramate dai prefetti ai dirigenti scolastici. In molti istituti è ripartito il sudoku degli ingressi per far quadrare orari e presenze. «Frequentare è un dovere e la frequenza non può che avvenire con le regole della scuola», spiega Roberto Romito, rappresentante dei presidi pugliesi. «La libertà di scelta offende gravemente la dignità degli istituti, riducendoli a parcheggi, e svilisce l'impegno di dirigenti e insegnanti». A preoccupare sono le ricadute sulla didattica che la girandola delle decisioni finirà per generare: «Si crea un divario tra chi frequenta e chi no, e tenere i ragazzi attaccati ai monitor per tante ore non può produrre miglioramenti formativi», ragionano i sindacalisti della Cisl scuola. L'allarme è già scattato in Campania, l'ultima regione ad aprire gli istituti in autunno e la prima a chiuderli qualche giorno più tardi. I conti li fa il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris: «Abbiamo ragazzi che per un anno non sono quasi mai andati a scuola e la Regione non ha fatto nulla per monitorare». Nella sola Napoli, c'è un «picco esponenziale» di dispersione scolastica che coincide esattamente con gli ultimi otto mesi di pandemia, quando è stata imboccata la strada della didattica a distanza per far fronte all'emergenza. Quella che doveva essere una misura temporanea si è trasformata in una soluzione strutturale. Ne pagano il conto i ragazzi, che nelle ultime settimane stanno provando a far sentire la propria voce. Le proteste sono esplose tra Torino, Milano, Napoli e Roma. Alcuni licei storici sono stati temporaneamente occupati, con una richiesta molto semplice: «Lasciateci tornare in sicurezza». Il rientro a metà non basta più, i ragazzi cercano una parvenza di normalità che per ora non c'è. «Le scuole superiori hanno riaperto, ma in condizioni drammatiche per la sicurezza di studenti e lavoratori», raccontano. Le linee dei trasporti restano in buona parte sovraffollate, manca un adeguato sistema di tracciamento dei contagi negli istituti. Nessuno sembra aver pensato a come mettere mano a uno dei problemi atavici del nostro sistema formativo: le classi pollaio. «All'interno delle aule c'è una relativa sicurezza, come attesta anche l'Istituto superiore di sanità», spiega alla Verità Antonello Giannelli, presidente dell'Associazione nazionale dei presidi. «I problemi sorgono fuori, dove si perde il controllo. Se nelle scuole facciamo rispettare un certo protocollo e poi altrove saltano gli schemi, allora diventa tutto inutile». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/scuola-riaperta-nel-caos-2650220431.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="bus-sempre-strapieni-alle-ore-di-punta-e-calca-agli-ingressi" data-post-id="2650220431" data-published-at="1612123643" data-use-pagination="False"> Bus sempre strapieni alle ore di punta e calca agli ingressi «C'è una discrepanza tra quello che si dice e quello che si vede: le aziende del trasporto pubblico locale ci assicurano che è tutto a posto, che le corse sono garantite, che la capienza del 50% è pienamente rispettata. Poi usciamo in strada e vediamo in realtà che gli autobus sono pieni, che le corse non partono o partono in ritardo». Al piano per la riapertura del suo liceo, il Newton di Roma, Cristina Costarelli ha lavorato per giorni. Ingressi scaglionati, distanziamento, tutto è stato rivisto per far tornare i ragazzi a scuola. C'è una cosa però che non sembra essere cambiata, nonostante i proclami: le criticità croniche del trasporto pubblico. «Ci hanno costretto a ripensare la scuola, e ora il sistema dei trasporti non riesce a sostenerlo», spiega la preside, raggiunta al telefono dalla Verità. Le linee periferiche sono quelle più in sofferenza: le corse non sono ben distribuite, i ragazzi rischiano di ritrovarsi tutti insieme per raggiungere gli istituti. Sulla base delle segnalazioni che arrivano dagli studenti delle consulte, l'Associazione nazionale dei presidi di Roma ha contato più di 30 linee in sofferenza, tra autobus e tram. Atac assicura che «verranno approfondite le specifiche situazioni», ma ciò non basta ai genitori della capitale. «Le preoccupazioni delle famiglie», continua la preside Costarelli, «non sono dovute alle lezioni in presenza, ma a ciò che avviene al di fuori degli istituti: ci sono ragazzi che, per arrivare a scuola, cambiano mezzi anche due o tre volte. Su quelle linee potrebbe muoversi il contagio». Il timore di un servizio insufficiente corre anche lungo le linee degli autobus di Napoli, che oggi dovrebbero riportare in classe buona parte degli studenti delle scuole superiori. Nel piano messo a punto dall'azienda del trasporto locale Anm, dovrebbero esserci 45 autobus dedicati, per un totale di 450 corse giornaliere. Chi conosce i programmi di servizio dell'azienda, però, sospetta che le corse non siano un'integrazione di quelle ordinarie, ma solo una sostituzione. «Il servizio non è esclusivamente scolastico: durante il percorso, siamo obbligati a far salire chiunque ne farà richiesta», spiega Marco Sansone, del coordinamento regionale Usb. Per incrementare il numero degli autisti, all'Anm hanno deciso di procedere con l'assunzione di 40 lavoratori interinali, con un contratto temporaneo di appena 5 mesi. Ma chi si aspettava di vederli già in servizio oggi rimarrà deluso: i nuovi autisti troveranno posto sugli autobus di Napoli solo tra una settimana. Secondo Sansone, il servizio rischia di «restare scoperto». I buchi, al massimo, verranno tappati con il ricorso agli straordinari. «Credo che in questa settimana andremo incontro a tre scenari: assembramenti paurosi alle fermate, un aumento del traffico in caso di ricorso alle auto private oppure la prosecuzione della didattica a distanza, se i genitori decideranno di tenere i ragazzi a casa per evitare un'eventuale esposizione al contagio. Del resto, a Napoli lo abbiamo già sperimentato nei mesi scorsi, quando le scuole sono state chiuse a causa dell'inefficienza dei trasporti». A quasi un anno di distanza dall'inizio della pandemia, le aziende del trasporto pubblico locale non sono ancora riuscite a risolvere del tutto il problema dei «picchi di domanda». Le corse del mattino restano dei nodi critici, nonostante lo scaglionamento degli ingressi a scuola. Come sottolinea la stessa Atac, gli studenti utilizzano scarsamente altre fasce orarie, come quella delle 10, soprattutto per motivi familiari. Eppure, le soluzioni per intervenire in tempo c'erano. Le risposte non sono state efficaci, come spiega Andrea Giuricin, docente di economia dei trasporti all'università di Milano Bicocca. «Allargare l'offerta era la strada più semplice, ma la decisione di aprire ai privati è stata tardiva e non è ancora univoca. Servivano delle scelte regolatorie sugli orari, ma anche quelle sembrano ancora in via di definizione. Infine, si poteva pensare a un sistema di prezzi differenti in funzione del picco, come già avviene in altre città, per esempio a Londra. Ma la strada del governo è stata un'altra, la stessa imboccata in tutti questi anni: continuare a finanziare le aziende per ripianare le perdite. La risposta non è stata sufficiente nel periodo di emergenza e non lo sarà nel lungo periodo. Di fatto, si continua a mettere benzina in un motore che non gira come dovrebbe, ormai da troppo tempo». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/scuola-riaperta-nel-caos-2650220431.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="in-dad-non-s-impara-quasi-nulla" data-post-id="2650220431" data-published-at="1612123643" data-use-pagination="False"> «In Dad non s'impara quasi nulla» «Affidarsi alla didattica a distanza (Dad) è stato come andare al pronto soccorso: può essere una possibilità in una situazione di emergenza, ma poi i pazienti devono essere curati in altri reparti. Si è scelto di continuare con la Dad e non sappiamo ancora quale sia la diagnosi per i nostri ragazzi. Tutto lascia pensare che le cose non siano migliorate, anzi». Dal 2014, Anna Maria Ajello vigila sulla qualità dell'offerta formativa italiana e sulle conoscenze e le abilità degli studenti. A quasi un anno di distanza dall'inizio della pandemia, la presidente di Invalsi (Istituto per la valutazione del sistema educativo e di formazione) non ha dubbi: «Ai nostri ragazzi è stato tolto molto. Senza scuola, chi non ha un sostegno culturale in famiglia rischia l'impoverimento, non solo formativo». Professoressa Ajello, la pandemia è stata un detonatore per i tanti problemi della scuola. A cosa vanno incontro i «figli della Dad»? «Ci sono due ordini di rischio: uno di natura educativa, l'altro attiene all'aspetto emotivo». Partiamo dal primo: senza una solida istruzione, rischiamo di perdere una generazione di studenti? «I ragazzi potrebbero non avere le competenze necessarie per la vita che li aspetta fuori. Un alto numero di studenti potrebbe essere condannato a una dispersione implicita». Che cosa intende? «Ci saranno studenti che si attesteranno sempre sul livello minimo, dai primi cicli scolastici fino all'università. Se i ragazzi non vengono messi nelle condizioni di alzare il loro grado di conoscenza, lasceranno gli istituti senza una cultura sedimentata, vera. Avranno semplicemente delle infarinature. E come la farina al vento, quelle conoscenze sono destinate a sparire». Alle conseguenze implicite si aggiungono quelle esplicite: secondo Save the children, 34.000 studenti sono a rischio dispersione scolastica. «Ogni insegnante sa che si sono persi degli studenti. In questa condizione, dovremmo capire come possono tornare a scuola, come riagganciarli al percorso formativo». I rischi connessi alla sfera emotiva, invece, quali conseguenze possono avere sugli studenti? «L'aspetto emotivo incide sulla sicurezza che i ragazzi hanno dei loro mezzi. La Dad ha eroso i rapporti personali, fondamentali negli anni dell'adolescenza. Sul piano identitario, la crescita si realizza attraverso il contatto. Tutto questo è venuto meno». Alcuni studi internazionali evidenziano dati drammatici: le settimane di lockdown hanno generato dei ritardi nell'apprendimento del 30-50% rispetto ai progressi previsti all'inizio dell'anno scolastico. In Italiaparliamo delle stesse percentuali? «Ogni confronto è un azzardo, ma ci sono degli elementi che vanno in questa direzione anche in Italia. Quello messo a punto in Olanda è un caso di studio emblematico: si tratta di un Paese con un forte incentivo alla digitalizzazione, una delle migliori connessioni al mondo. Eppure anche gli olandesi si sono accorti che nelle otto settimane di lockdown il livello di apprendimento dei ragazzi è stato minimo, quasi inesistente». Come ripensare la didattica dopo questi mesi schizofrenici? «La scuola deve insegnare ad approfondire. Oggi le informazioni sono a disposizione di tutti, facilmente. Il compito non è più solo trasmetterle, ma insegnare a gestirle: gli studenti devono essere messi nella condizione di selezionare e comparare le nozioni. Si tratta di insegnare ai ragazzi a ragionare». Nelle ultime settimane, si sono moltiplicate le manifestazioni degli studenti che chiedono di essere ascoltati. Perché non sono coinvolti nei processi decisionali? «Quello del coinvolgimento resta uno dei limiti del nostro sistema. Gli studenti crescono se li responsabilizziamo rispetto al problema. In fondo, a 14 anni hanno un motorino, riconosciamo loro un diritto. È possibile che a scuola non contino niente? Non sono degli ospiti, sono parte attiva». Perché persiste questa tendenza a «infantilizzarli»? «Per iperprotettività. Non ci preoccupiamo abbastanza della loro crescita, di come renderli indipendenti. Proteggere i nostri ragazzi non significa prendersene cura: un conto è tenerli al riparo da un eventuale contagio, altro è renderli autonomi e spingerli a riflettere rispetto a questa situazione. Altrimenti, sono come dei topi in gabbia: una volta usciti, assistiamo a scene tristi, come le risse che abbiamo visto al Pincio a Roma. Si fa presto a dire lasciamoli a casa».
(IStock)
Senza il pandoro, così come senza il panettone, non sarebbe Natale. È però un fatto che il pandoro è considerato un di più, un elemento dolce ancillare del panettone. Se il pandoro può mancare sulla tavola natalizia, non lo può il panettone. In realtà questa subordinazione del pandoro al panettone è abbastanza ingiusta. Il pandoro non è un dolce meno saporito del panettone, da un punto di vista tecnico non è meno complesso e dal punto di vista gustativo come il panettone soddisfa il bisogno di abbondanza, così il pandoro soddisfa quello di leggerezza, offrendo al gusto un sapore univoco non complicato da sospensioni come sono le uvette e i canditi nel panettone tradizionale e tutte quelle che passano per la mente del creatore nel panettone di ricerca. E leggera è anche la consistenza, che ricorda più una torta, un pan di Spagna o una torta paradiso, più che un pane addolcito e (assai) lievitato come invece fa il panettone. Questa nettezza di gusto lo rende aperto ad abbinamenti estemporanei: tipico di bambini e golosi è il sandwich di pandoro che si realizza con due fette di pandoro e un ripieno dolce che può andare dalla tavoletta di cioccolato al torrone.
La storia anzi la probabile storia del pandoro ci porta indietro fino agli antichi Romani. Plinio il Vecchio, infatti, raccontando le abitudini culinarie dell’antica Roma parla di un panis preparato abitualmente con fior di farina, burro e olio da Virgilius Stephanus Senex. Marco Gavio Apicio parla di un pane da liberare della crosta e poi imbibire di latte, friggere e cospargere di miele, perciò dorato. Da questi esempi di panis dorato antico-romano secondo molti deriva il levà veronese, anch’esso un pane dolce, di occasione festiva, ma più dolce del suo avo, con tanto di copertura di glassa con mandorle. Pare che nella corte veneziana il levà, come altri dolci locali, fosse ricoperto di sottilissime foglie d’oro zecchino e perciò fosse chiamato pane de oro. Dal levà deriverebbe il nadalin, nome veneto del dolce natalino ossia di Natale che si chiamerebbe così proprio perché sarebbe nato a Natale del XIII secolo per festeggiare l’investitura dei Della Scala a Signori di Verona. Il nadalin presenta un impasto morbido, una cupola decorativa di crosticina e frutta secca e una forma a stella di otto punte. Dal 2012 è anche un prodotto De.Co. del Comune di Verona, con tanto di ricette ufficiali per le due versioni, quella con lievito di birra oppure quella con lievito madre.
Questi i presunti prototipi - finora - del pandoro. Zoomiamo, quindi, sul pandoro. Del pandoro come lo conosciamo oggi abbiamo una data ufficiale di nascita. È il 14 ottobre 1894, il giorno in cui il pasticcere Domenico Melegatti brevetta la ricetta e il nome del suo dolce, Pandoro, ottenendo poi l’attestato di privativa industriale del ministero di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia qualche tempo dopo: il 20 marzo 1895 il ministero di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia, infatti, rilascia l’«attestato di privativa industriale della durata di anni tre per un brevetto designato col titolo Pandoro (dolce speciale)». La nascita del Pandoro con tanto di data presenta anche una… annunciazione! E già, in perfetto calco del paradigma religioso natalizio di nascita precedentemente annunciata. Sul quotidiano veronese L’Arena del 21 e 22 marzo 1894 (sei mesi prima del brevetto) compare l’avviso pubblicitario di annuncio del prodotto: «Il Pasticcere Melegatti… avverte la benevola e numerosissima sua clientela di aver allestito un nuovo dolce per la sua squisitezza, leggerezza, inalterabilità e bel formato l’autore lo reputa degno del primo posto nomandolo Pan d’oro». Nel depositare il brevetto il nome perde la sua composizione triplice e diventa un tutt’uno, quel «Pandoro» che, come succede alle grande invenzioni, per antonomasia, da nome proprio poi diventerà nome generico. Oggi pandoro è un marchionimo (così si chiamano i nomi originati da marchi) ovvero un tipo di dolce che tutti i pasticceri artigianali e industriali realizzano, non solo Melegatti e non solo i pasticceri di professione, essendo tanti i cucinieri casalinghi che si dilettano a impastare e cucinare pandori e panettoni in casa per le feste natalizie. Il Pandoro di Melegatti è un dolce ispirato alla morbidezza del levà, grazie ad un impasto diverso e allo stampo di cottura, ideato sempre da Domenico Melegatti, spiega il sito Internet dell’azienda, con forma di stella troncoconica a otto punte, brevettato anch’esso. La forma a stella del pandoro ricorda certamente quella del nadalin, rispetto al quale però è assai più alto e privo di qualsiasi topping. Secondo lo studioso Andrea Brugnoli il pandoro potrebbe però trovare altre fonti, ovvero il pane di Natale del monastero di San Giuseppe a Fidenzio: nei registri dell’economato del ministero il 21 dicembre 1790 si acquistano 500 uova, tantissimo burro e tantissimo altro zucchero. Altra fonte di ispirazione per Brugnoli sarebbe il Pan d’Oro che nel 1871 Cesare Capri di Verona porta ad un’esposizione pasticcera regionale presentandolo come «panettone di pasta dolce». Non si sa e in fondo non è nemmeno così interessante saperlo, essendo il pandoro talmente perfetto da interessarci dalla sua nascita ufficiale in poi. Tornando alla questione linguistica, perché il nome pandoro passi da proprio a generico bisogna attendere il 1927. In quell’anno, entra nella quinta edizione dell’importantissimo - per la costruzione della lingua italiana - Dizionario moderno di Alfredo Panzini. La voce «pandoro» nel dizionario recita: «Dolce di lievito, ricchissimo di burro (Verona). Dal colore aurato dovuto al rosso d’uovo».
Voi siete team pandoro, team panettone o team entrambi? In tutti i casi vi, anzi ci, sarà utile una breve disamina nutrizionale del pandoro, per capire cosa mangeremo quando lo mangeremo alla tavola natalizia. Non si può certamente sostenere che il pandoro sia dietetico. Si tratta al contrario di un dolce generoso di zuccheri e grassi saturi, che sono i macronutrienti tipici delle festività, ma anche quelli che dobbiamo tenere a bada. Generoso, conseguentemente, di calorie: 100 g ne hanno tra 390 e 435. Considerato che da un pandoro di 1 kg traiamo 8 fette (sono le 8 punte) si capisce come ogni fetta pesi 125 grammi. Se ragioniamo sui 100 g, abbiamo tra i 49 e i 53 g di carboidrati di cui tra 22 e 26,5 di zuccheri. Considerato che il pandoro si mangia alla fine di un pasto in cui i primi piatti sono sontuosi e abbondanti anch’essi e che questo pasto festivo e festoso si ripete (il cenone della Vigilia, il Pranzo del Natale, il Pranzo di Santo Stefano, minimo) si capisce come introiettare ulteriori 400 calorie circa composte per lo più di carboidrati e tra questi di zuccheri sia un elemento da tenere attenzionato, cercando dunque di non mangiare troppo nel resto delle giornate festive. I carboidrati sono solo l’inizio. Abbiamo tra 20 e 21 grammi di grassi, di cui tra 10 e 13 sono saturi e sono dovuti all’abbondanza di tuorlo d’uovo e burro. Infine abbiamo tra 7 e 8 grammi di proteine che sì, abbassano lievemente l’indice glicemico del dolce e si affiancano anche all’indice lipidico, tuttavia - com’è ovvio - non li annulla. In definitiva, chi è a dieta e chi deve limitare fortemente i grassi saturi, magari perché ipercolesterolemico, ipertrigliceridico o afflitto da altra patologia del metabolismo dei grassi e in generale del metabolismo dovrebbe mangiare giusto un pezzetto, forse evitare il pandoro. Non ne deve abusare nemmeno chi ha una forma e una salute perfette, perché - ricordiamoci - un eccesso di grassi saturi fa ingrassare e aumenta il rischio cardiovascolare, oltre a sovraffaticare l’apparato digestivo. Nel caso si voglia o si desideri un consumo più virtuoso, il consiglio è quello di optare o per il panettone o per il pandoro e non mangiare entrambi alla fine dello stesso pasto, per il dispiacere del team che definiremo «entrambi e pure uno insieme all’altro». Altri consigli: mangiare mezza fetta di pandoro anziché una fetta intera, stare molto leggeri per quanto riguarda grassi e zuccheri al pasto successivo o precedente, fare una bella passeggiata dopo il pranzo della festa. Il consiglio più strong di tutti è quello di non mangiare proprio il pandoro, ma come si fa? Quello semi strong è di non mangiarlo a fine pasto, ma a merenda (con un tè o un caffè rigorosamente senza zucchero) o a colazione. Tuttavia noi preferiamo pensare che mangiare il pandoro a fine pasto vuol dire anche seguire una tradizione e quindi vi riproponiamo il «trucchetto» di mangiarne, magari, mezza fetta.
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La decisione del tribunale di La Spezia che consente a una minorenne di assumere un nome maschile è contestabile. E quando si parla di transizioni chirurgiche bisogna sapere che le difficoltà sono tantissime.
Il tributo alle vittime della strage di Bondi beach a Sydney (Ansa)
Era evidente che l’antisemitismo da un momento all’altro sarebbe esploso con morti ammazzati. Nessuno si faccia illusioni: è solo l’inizio. Sono colpevoli i giornali che hanno riportato slogan genocidi, i politici e i cardinali che ripetono le menzogne di Hamas, i media che, grazie anche al fiume di denaro che da decenni arriva dal mondo islamico, hanno demonizzato lo Stato di Israele, i governanti che hanno permesso che la bandiera delle belve di Hamas sventolasse addirittura su palazzi di sedi istituzionali, tutti coloro che l’hanno appesa o messa sui social. Chiunque gridi slogan come «globalizzare l’intifada», sta invocando più morti ammazzati.
Ancora più sconvolgente dell’attentato antisemita in Australia sono i commenti sui social ai post che danno la notizia.
L’antisemitismo si è rifugiato nelle fogne nel 1945, il nazismo gli aveva tolto ogni dignità, e nelle fogne è rimasto fino al 1975. Fino a quella data sapevamo che Israele era dalla parte della ragione, che la sua nascita non solo era legittima, ma era un raggio di giustizia nella storia. Se guardiamo una carta geografica, dal Marocco all’Indonesia è tutto islam. Ovunque sono state annientate le civiltà precedenti, al punto tale che non ce ne ricordiamo, per cui non lo riconosciamo nemmeno per quello che è: dannato colonialismo genocidiario.
Nel 1453 cade Costantinopoli, quella che noi chiamiamo Turchia era il cristiano Impero romano d’Oriente. L’Afghanistan era una culla del buddismo. Siria e Nord Africa erano culle del cristianesimo, civilissime e verdi. L’islam distrugge tutte le civiltà precedenti. Il Bangladesh, una delle culle dell’induismo, è stato reso privo di induisti nel 1971, grazie a violenze spaventose seguite dalla più grande pulizia etnica di tutta la storia dell’umanità, 10 milioni di profughi induisti hanno lasciato la terra dei loro padri. Gli induisti sono stati convinti ad andarsene con sistemi energici e creativi: donne stuprate, bambini col cranio fracassato, uomini, ragazzi e bambini costretti a calarsi le brache e, nel caso non fossero circoncisi, castrati.
Poi il popolo di Israele ritorna alla terra di suoi padri. Si tratta di un fazzoletto di terra, senza una goccia di petrolio, ma è considerato un’onta imperdonabile. Quello di Israele è l’unico popolo tra quelli occupati dall’islam che sia riuscito a riconquistare la terra dei suoi padri interamente occupata. In mano all’islam era una terra di sassi e scorpioni, quando diventa Israele diventa un giardino. Nel 1975 la narrazione cambia. Israele ha incredibilmente vinto la guerra del ’48 e quella dei 6 giorni. Riesce a vincere dopo alcune sconfitte iniziali la guerra del Kippur. L’islam perde la speranza di una vittoria militare seguita dalla distruzione di Israele, e la strategia diventa mediatica.
Attraverso la corruzione di burocrati europei e dell’Onu, testate giornalistiche, campus statunitensi, università europee e poi ogni tipo di scuola, con la complicità del Partito comunista sovietico e di tutti i suoi fratellini nel mondo occidentale, grazie a fiumi di petrodollari, Israele è stato sempre più demonizzato mentre il vittimismo palestinese è diventato una nuova religione. Questo ha portato inevitabilmente alla beatificazione anche del terrorismo contro i cristiani, contro di noi. Sacerdoti e vescovi apprezzano gli imam più violenti, ignorano i martiri cristiani della Nigeria, decine e decine di migliaia di morti, rapimenti, stupri, mutilati e feriti, chiese distrutte, scuole vandalizzate, ma ignorano anche le violenze dei palestinesi contro i cristiani. A Betlemme i cristiani erano l’80% della popolazione prima di finire sotto l’amministrazione palestinese. Ora sono il 20%. La diminuzione è ottenuta mediante una serie di angherie che finiscono per suggerire l’idea di un trasferimento altrove, in termini tecnici si chiama pulizia etnica, e mediante il rapimento di ragazzine preadolescenti, prelevate all’uscita dalla scuola, e costrette a sposare un islamico, in termine tecnico si chiama stupro etnico. L’unico Stato in Medio Oriente dove il numero di cristiani aumenta costantemente è Israele, in tutti gli altri sta drammaticamente diminuendo.
Il vittimismo palestinese è elemento fondamentale, insieme alla denatalità, per la islamizzazione dell’Europa. L’antisemitismo, manifesto dal 1975, è esploso il 7 ottobre del 2023. Le cause dell’antisemitismo sono molteplici. La più apparentemente banale è la coscienza della superiorità culturale ebraica. I numeri sono impietosi. Gli ebrei sono lo 0,2% della popolazione mondiale. Il 20% dei premi Nobel sono stati attribuiti ad ebrei. Se guardiamo solo i premi Nobel per la fisica, la statistica sale al 35%. Il 50% dei campioni di scacchi è costituito da ebrei. Tra le motivazioni di questo successo c’è una potente identità etnica, il popolo eletto, coloro che parlavano con Dio e ne hanno avuto 10 comandamenti.
Fondamentale è il maggior quantitativo di studi, tenendo presente che ogni cosa che studiamo aumenta le sinapsi che abbiamo nel cervello. La stragrande maggioranza degli ebrei conosce almeno due lingue, l’ebraico, linguisticamente complesso che si scrive da destra a sinistra, e poi la lingua gentile del popolo ospitante o comunque l’inglese. Questa ricchezza linguistica si raggiunge attraverso lo studio e quindi aumenta le sinapsi. La religione ebraica è studio. La innegabile superiorità culturale ebraica genera due sentimenti negativi, l’invidia, una delle emozioni più potentemente distruttive, e il terrore del complotto, e qui arriviamo a un’altra causa di antisemitismo.
Sono più in gamba di noi in molti campi dello scibile umano, conoscono una lingua strana con cui possono comunicare tra di loro, ergo fanno continuamente complotti a nostro danno. In questa teoria gli ebrei sono descritti come assolutamente geniali da un lato e contemporaneamente i più idioti del reame: con tutta la loro incredibile potenza, tutto quello che ottengono è di essere costantemente odiati, di subire persecuzioni come nessun altro, non poter girare per la strada con una kippà o una stella di Davide, avere uno Staterello di 19.000 chilometri quadrati senza una goccia di petrolio che tutti vogliono distruggere.
C’è un antisemitismo cristiano che ha nutrito secoli di pogrom. Molti cristiani ritengono che Gesù Cristo sia stato ucciso dagli ebrei, che sia morto per volontà del Sinedrio. Gesù Cristo è andato alla morte per prendere su di sé i nostri peccati per volontà di Dio. Il popolo eletto ha avuto il compito di custodire la sua nascita e quello di custodire la sua morte. Quello che molti rimproverano agli ebrei è il loro non convertirsi al cristianesimo. In un certo senso questo loro rifiuto è «un continuo uccidere Cristo». Noi cristiani abbiamo avuto il compito da Cristo e da San Paolo di amare gli ebrei e convertirli. Con lunghi atroci secoli di persecuzioni e di odio abbiamo reso impossibile una conversione che in realtà è ovvia.
Ora il vaso di Pandora è scoperchiato. Giustificando, anzi amando, il terrorismo palestinese abbiamo sdoganato quello contro di noi. Anche gli assassinati del Bataclan avevano «rubato la terra ai palestinesi»? Per evitarci la tentazione dell’islamofobia ci è stato celato che a molte vittime del Bataclan sono stati cavati gli occhi e tagliati i genitali, come non ci hanno raccontato le sevizie durate ore con cui sono stati massacrati i nove italiani della strage di Dacca, luglio 2016. C’era anche una donna incinta. Ci hanno nascosto che cosa le hanno fatto perché altrimenti ci viene l’islamofobia.
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Le tecnologie nucleari rappresentano un pilastro fondamentale per affiancare le fonti rinnovabili, garantendo energia continua anche quando sole e vento non sono disponibili. Oltre a fornire elettricità affidabile, il nucleare contribuisce alla sicurezza del sistema elettrico e all’indipendenza energetica nazionale, elementi essenziali per sostenere la transizione energetica.
Negli ultimi anni, i reattori modulari di nuova generazione (SMR/AMR) hanno ridefinito l’equilibrio tra costi e benefici della produzione nucleare. Pur richiedendo investimenti iniziali significativi, questi impianti offrono vantaggi strutturali che li rendono sempre più sostenibili e competitivi nel lungo periodo. I capitali richiesti sono infatti sensibilmente inferiori rispetto ai grandi impianti tradizionali: si stimano 2-3 miliardi di euro per un reattore da 300 MWe contro i 12 e i 15 miliardi di euro per produrre 1.000 megawatt di potenza (1 GWe).
La standardizzazio dei moduli e l’assemblaggio in fabbrica garantiscono efficienza industriale, riducendo tempi, costi e complessità progettuale. Inoltre, con una vita operativa prevista di oltre 60 anni e un costo globale di produzione prevedibile, il nucleare modulare assicura energia affidabile a costi stabili, riducendo l’esposizione alla volatilità dei mercati energetici.
Il nucleare è già una realtà consolidata: nell’Unione europea sono operativi circa 100 reattori, con oltre 12 Paesi che stanno rilanciando questa tecnologia. Anche in Italia, l’aggiornamento del Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima 2030) al 2024 prevede uno scenario con una potenza nucleare installata tra gli 8 e i 16 GW al 2050, pari a circa l’11-22% del fabbisogno nazionale.
A supporto dello sviluppo della filiera nazionale, è nata Nuclitalia società costituita da Enel, Ansaldo Energia e Leonardo che si occuperà dello studio di tecnologie avanzate e dell’analisi delle opportunità di mercato nel settore del nuovo nucleare. Il suo obiettivo è valutare le tecnologie più promettenti, costruire una filiera innovativa e sostenibile e sviluppare partnership industriali e di co-design, valorizzando le competenze delle industrie italiane. Inoltre, Nuclitalia monitora e partecipa attivamente ai programmi internazionali di R&D sulle tecnologie di IV generazione, per garantire un approccio integrato e avanzato al nucleare del futuro.
In sintesi, il nucleare modulare offre all’Italia la possibilità di affiancare le rinnovabili con energia stabile e programmabile, favorendo sicurezza energetica e sviluppo industriale. Con SMR e AMR, il Paese può costruire una filiera nazionale competitiva e sicura, contribuendo in modo concreto alla transizione energetica e all’indipendenza energetica.
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