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2022-06-06
Schiacciati dai debiti
Immobili pignorati, case messe all’asta perché i proprietari non riescono a pagare i debiti, bollette di luce e gas non pagate che si accumulano e file ai monti dei pegni o ai Compro oro. È l’altro volto dell’Italia, quella schiacciata dai debiti, che non ce la fa più, che non regge il ritmo dei rincari, che sopravvive con lavori precari e cassa integrazione. Dopo lo sblocco delle cartelle esattoriali, in molti si ritrovano lo stipendio o la pensione pignorata per pagare gli arretrati delle tasse. «Non sono evasori, ma persone che non sono riuscite a rispondere all’appuntamento con il fisco a causa della crisi che ha morso tanti settori. Ma ora vogliono mettersi in regola. Non è corretto aggredire in questo modo i patrimoni dei cittadini», tuona l’Udicon, associazione dei consumatori che ha segnalato la gravità del fenomeno soprattutto in Emilia Romagna.
Dai dati della Banca d’Italia emerge che nel 2021 i debiti delle famiglie verso banche e società finanziarie sono cresciuti del 4,3% e a fine anno ammontavano al 64,6% del reddito disponibile. È proseguita a ritmi sostenuti l’espansione dei mutui. Nel 2021, segnala Via Nazionale, il loro tasso di crescita è più che raddoppiato, al 5%. L’indebitamento è destinato a peggiorare. Nelle Considerazioni finali all’assemblea annuale di Bankitalia, il governatore Ignazio Visco ha insistito sulle conseguenze del conflitto ucraino che ha «peggiorato di colpo le prospettive di crescita dell’economia mondiale».
Secondo il centro studi del sindacato bancario Fabi, negli ultimi 12 mesi è cresciuto di 810 milioni di euro l’ammontare delle rate non pagate relative ai mutui e ai prestiti concessi dalle banche: una brusca inversione di tendenza dopo quasi sei anni consecutivi di riduzione del credito deteriorato riconducibile alla clientela privata, calato progressivamente da maggio 2016. Il totale delle sofferenze delle famiglie è passato, da febbraio 2021 a febbraio 2022 (quindi prima dell’inizio del conflitto), da 11,56 miliardi di euro a 12,37 miliardi, con una crescita in un anno del 7, 04%. Nel trimestre da novembre 2021 a febbraio 2022, le sofferenze bancarie sono aumentate di 1,48 miliardi di euro (+ 13,55%). Resta ora da capire quale sarà l’impatto della guerra e del caro energia, tenendo conto che nell’ultimo anno, con le sofferenze, sono cresciuti anche i prestiti, saliti di circa 19 miliardi, da 641 a 660 miliardi di euro. Il che fa immaginare che nei prossimi mesi la mancanza di liquidità e la difficoltà di ripagare i finanziamenti si trasformerà in una vera propria e emergenza sociale.
Che cosa accade a chi non riesce a pagare le rate del mutuo, i cui tassi hanno ripreso a salire pericolosamente? In genere, se si salta una mensilità la banca si limita ad applicare un interesse di mora. Diverso è il discorso se la morosità si protrae per più mesi consecutivi. Per legge la banca può rescindere il contratto dopo 180 giorni di mancato pagamento e chiedere il saldo delle rate non pagate più gli interessi di mora. Se l’insolvenza si protrae, può pignorare l’immobile ipotecato. Anche questo è un fenomeno in crescita. Come ha rilevato il centro studi Astasy analytics di Npls Re solutions, nel 2021 gli immobili pignorati dalle banche e battuti all’asta sono stati 84.475. I proprietari non riuscivano più a pagare il mutuo. Altri 39.086 immobili sono stati messi all’asta per situazioni di crisi, soprattutto aziendali, in seguito a procedure concorsuali collegate a fallimenti, concordati preventivi, ristrutturazioni, liquidazioni coatte. Ulteriori 2.522 immobili sono finiti all’incanto per altre ragioni, come divorzi o eredità giacenti. In totale, nel 2021 gli immobili messi all’asta sono stati 126.083.
Si tratta dell’8,1% in più rispetto al 2020, quando la pandemia aveva bloccato l’attività dei tribunali. Il 46,3% sono abitazioni e nel 9,3% dei casi sono box e posti auto. Una quota importante è rappresentata da uffici e negozi (10,7%), magazzini (7,3), capannoni (4,4). C’è poi un 11,5% di terreni. Il resto sono cinema, teatri, caserme in disuso, biblioteche, stabilimenti balneari e perfino chiese. Il report spiega che si sono sommati gli effetti della recessione legata al Covid con la crisi precedente e il passaggio a un’economia più digitale che ha sempre meno bisogno di spazi fisici. A dimostrazione della crisi c’è il calo dei valori: l’89% delle aste non superano il prezzo di 250.000 euro. La media è di 62.472 euro, molto meno del passato.
Gli italiani non riescono a pagare nemmeno le bollette. Secondo un’indagine Arte, l’associazione che raggruppa i grossisti di energia, un cliente su quattro fatica a onorare il contratto di fornitura e i distacchi sono aumentati. Si allungano pure le file ai monti dei pegni. Secondo le rilevazioni di Banca Sistema effettuate a Napoli, dove il fenomeno è più evidente (ma la situazione è in linea con quella di altre città italiane), le urgenze quotidiane come bollette, affitto, rette rappresentano il 50% dei motivi che portano le persone a dare in pegno i beni di famiglia. Quasi tutti i clienti recuperano successivamente l’oggetto impegnato: soltanto il 2% finisce all’asta. La percentuale più consistente di coloro che si rivolgono a questa antica forma creditizia è rappresentata dai dipendenti privati (circa il 30%) mentre quelli pubblici sono il 15%. L’importo medio che ottengono è di circa 1.300 euro: i soldi necessari per affrontare le spese della quotidianità.
Paolo Zabeo: «Per gli artigiani rischio altissimo di finire nelle mani degli usurai»
«A fine 2021 il debito delle famiglie ammontava a 574,8 miliardi di euro, con una crescita di 21,9 miliardi rispetto all’anno precedente. L’importo medio per nucleo familiare è di 22.237 euro. Ci preoccupa il rischio di usura che potrebbe colpire soprattutto artigiani e piccoli commercianti. Costoro pagano il caro bollette due volte, prima come utenti domestici e poi come imprenditori per produrre o per riscaldare, rinfrescare e illuminare i negozi. Ricordo che il 70% degli artigiani e dei commercianti lavora da solo: non ha né dipendenti né collaboratori familiari. Chi si indebita rischia di finire nella rete della malavita organizzata e ha difficoltà a uscirne perché non riesce a saldare il conto, lievitato per gli interessi altissimi». È il quadro tracciato da Paolo Zabeo, coordinatore dell’ufficio studi della Cgia di Mestre.
Quindi anche tra gli imprenditori lo stock debitorio è in aumento.
«Sì. È probabile che l’incremento sia in parte riconducibile alla forte ripresa economica dell’anno scorso. Va altresì segnalato che le aree provinciali più indebitate sono anche quelle che presentano i livelli di reddito più elevati. In queste realtà tra gli indebitati ci sono anche nuclei appartenenti alle fasce sociali più deboli».
Però ci sono le forti esposizioni bancarie. È un fardello da cui è difficile liberarsi se l’economia non riparte. Come la vede?
«Il forte indebitamento di questi territori potrebbe essere legato ai significativi investimenti avvenuti negli anni scorsi nel settore immobiliare, ovviamente riconducibili a famiglie benestanti. Altra cosa, invece, è interpretare i dati del Mezzogiorno: benché in termini assoluti la situazione sia meno critica che nel resto del Paese, il peso dell’indebitamento delle famiglie più povere è maggiore che altrove. La maggiore incidenza del debito sul reddito si registra nelle famiglie a più alto rischio di povertà ed esclusione sociale».
Il caro bollette non rischia di aggravare la situazione di chi è già stato messo a dura prova dalla pandemia?
«Certamente sì, il caro bollette ha inciso non poco sui bilanci delle famiglie. Nonostante le misure di mitigazione messe in campo dal governo Draghi, le difficoltà economiche si sono intensificate, abbattendosi soprattutto sulle famiglie del Nord che presentano livelli dei consumi energetici maggiori che nel resto del Paese».
È una situazione transitoria o destinata ad aggravarsi?
«Molto dipenderà dalla durata del conflitto russo-ucraino e dalle misure che il nostro esecutivo metterà in campo per contrastare i rincari. Se, ad esempio, verrà imposto un tetto al prezzo del gas e ci sarà un abbattimento del cuneo fiscale, consentendo così alle retribuzioni di diventare più pesanti, probabilmente riusciremo a superare questo momento difficile. La fiammata dei prezzi dovrebbe durare ancora qualche mese».
Gli aiuti del governo non hanno consentito di affrontare anche la situazione del caro energia?
«Gli aiuti sono stati importanti. Nel biennio 2021-2022, decreto Aiuti incluso, il governo Draghi ha stanziato 28,5 miliardi (di cui 23,6 nel 2022). Di questi, 8 miliardi sono stati erogati alle famiglie, 7,4 alle imprese e 13,1 miliardi sono destinati a sostenere entrambe».
Eppure tante aziende stentano. Non temete che cadano vittime dell’usura?
«Il fenomeno è molto diffuso. Sebbene con le sole denunce effettuate all’Autorità giudiziaria non sia possibile dimensionare il fenomeno, la crisi economica ha incentivato l’avvicinamento delle organizzazioni criminali al mondo dell’imprenditoria. In particolar modo di quella composta dai lavoratori autonomi che, spesso, si indebitano per poche migliaia di euro ma nel giro di qualche mese si trovano nell’impossibilità di restituire questi soldi, perché nel frattempo gli interessi hanno raggiunto livelli spaventosi».
Mariano Bella: «L’inflazione galoppa e si mangia gli ultimi risparmi»
«Gli italiani hanno accumulato un tesoretto durante la pandemia ma questi soldi ora rischiano di non tradursi in consumi perché mangiato dall’inflazione. Le aziende commerciali che avevano sospeso la cancellazione dalle Camere di commercio durante la pandemia ora potrebbero chiudere definitivamente. Inoltre c’è una quota del commercio che con gli alti costi dell’energia e della logistica non ce la fa e gli usurai sono dietro l’angolo: almeno 30.000 imprese del commercio, della ristorazione e della ricettività sono oggi a elevato rischio di usura. L’illegalità costa quasi 31 miliardi di euro e mette a rischio circa 200.000 posti di lavoro. La perdita annua in termini di fatturato e di valore aggiunto è pari al 6,3%». A snocciolare queste cifre è il direttore dell’ufficio studi di Confcommercio, Mariano Bella.
La pandemia ha ridotto i consumi e aumentato i risparmi. Perché il Paese arranca?
«Sui conti correnti delle famiglie e delle piccolissime imprese la liquidità è aumentata di 150 miliardi di euro negli ultimi due anni. Fino a ottobre 2021 si puntava sul fatto che tale ricchezza si traducesse in maggiori consumi; poi, però, gli aumenti dell’energia, e come conseguenza dell’inflazione, hanno costretto a rivedere queste stime. I 150 miliardi del tesoretto rischiano di scomparire. Se l’inflazione al 6% dovesse durare per un anno, il potere d’acquisto di quei risparmi si ridurrebbe a 110 miliardi».
Cosa sta accadendo alle imprese del commercio?
«Si trovano tra l’incudine e il martello. Da un lato l’incremento dei costi, e dall’altro la riduzione del tasso di crescita dei consumi dovuto a maggiore inflazione. Tra il 2021 e il ’22 il costo di bollette e carburanti è raddoppiato per un negozio, e salito del 140% per quelli dotati di impianto di refrigerazione, mentre per i ristoranti c’è stato un + 150%. A dicembre stimavamo una ripresa dei consumi del 4,5%, oggi pensiamo che non possano crescere più del 2-2,5%. Si perderanno una ventina di miliardi di consumi in termini reali. Se dovesse continuare l’incertezza legata al conflitto e della crescita dell’inflazione, si rischia il rallentamento dell’economia che potrebbe protrarsi anche nel 2023. Per spendere, i consumatori hanno bisogno di fiducia nel futuro e non ne vedo molta in giro».
Ci sono rischi di chiusure?
«Per due anni abbiamo vissuto in una sorta di economia congelata per i ristori, il credito a buon mercato e la resistenza degli imprenditori nel voler continuare l’attività anche nelle avversità. Pure se chiuse, tante imprese non si sono cancellate dalle Camere di commercio. Ma se la difficoltà dovesse perdurare, le imprese chiuse potrebbero decidere di non riaprire più. Molto dipende dalla qualità del turismo».
I turisti hanno di nuovo affollato le città.
«Un conto sono le strade piene di turisti, un altro se questi spendono. Non basta la quantità. Mancano ancora i grandi gruppi dei russi, dei cinesi e degli americani, cioè i turisti che spendono di più. Se gli americani non tornano nella misura che ci aspettiamo, le strutture del commercio potrebbero avere problemi. Poi un’impresa fa il bilancio su un anno, non su un paio di mesi o un fine settimana. Nei primi due mesi del 2022 manca circa un miliardo di spesa del turismo estero. Siamo fiduciosi ma non indulgiamo in facili entusiasmi. È presto per dire che il peggio è alle nostre spalle. Le previsioni sul pil e i consumi sono molto variabili».
Esiste un pericolo di usura per le imprese?
«Un’indagine condotta tra febbraio e marzo su un campione di 4.000 imprese del terziario sotto i 50 addetti, è emerso che 30.000 piccole aziende sono a rischio usura. L’11% nei grandi Comuni ha avuto un’esperienza diretta con questo tipo di prestiti, per il 25% la qualità della vita è peggiorata e il 70% ha riscontrato fenomeni di degrado. L’illegalità costa alle imprese del commercio e dei pubblici esercizi quasi 31 miliardi di euro e mette a rischio circa 200.000 posti di lavoro».
Come intervenire?
«Il problema post pandemia è la restituzione dei prestiti contratti in questi due anni. Sarebbe opportuno lavorare ancora sulle moratorie sia di tipo bancario sia fiscale».
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Mutui in risalita, case all’asta, bollette insolute, boom dei prestiti: gli italiani non riescono più a onorare gli impegni. Per Bankitalia gli obblighi delle famiglie verso il sistema finanziario sono il 64% del reddito. Così diventiamo un Paese di insolventi.La Cgia di Mestre: i problemi maggiori dove regnano povertà ed esclusione sociale.Confcommercio: «La corsa al rialzo dei prezzi erode il tesoretto accumulato. Ci vogliono subito moratorie bancarie e fiscali».Lo speciale contiene tre articoli.Immobili pignorati, case messe all’asta perché i proprietari non riescono a pagare i debiti, bollette di luce e gas non pagate che si accumulano e file ai monti dei pegni o ai Compro oro. È l’altro volto dell’Italia, quella schiacciata dai debiti, che non ce la fa più, che non regge il ritmo dei rincari, che sopravvive con lavori precari e cassa integrazione. Dopo lo sblocco delle cartelle esattoriali, in molti si ritrovano lo stipendio o la pensione pignorata per pagare gli arretrati delle tasse. «Non sono evasori, ma persone che non sono riuscite a rispondere all’appuntamento con il fisco a causa della crisi che ha morso tanti settori. Ma ora vogliono mettersi in regola. Non è corretto aggredire in questo modo i patrimoni dei cittadini», tuona l’Udicon, associazione dei consumatori che ha segnalato la gravità del fenomeno soprattutto in Emilia Romagna.Dai dati della Banca d’Italia emerge che nel 2021 i debiti delle famiglie verso banche e società finanziarie sono cresciuti del 4,3% e a fine anno ammontavano al 64,6% del reddito disponibile. È proseguita a ritmi sostenuti l’espansione dei mutui. Nel 2021, segnala Via Nazionale, il loro tasso di crescita è più che raddoppiato, al 5%. L’indebitamento è destinato a peggiorare. Nelle Considerazioni finali all’assemblea annuale di Bankitalia, il governatore Ignazio Visco ha insistito sulle conseguenze del conflitto ucraino che ha «peggiorato di colpo le prospettive di crescita dell’economia mondiale». Secondo il centro studi del sindacato bancario Fabi, negli ultimi 12 mesi è cresciuto di 810 milioni di euro l’ammontare delle rate non pagate relative ai mutui e ai prestiti concessi dalle banche: una brusca inversione di tendenza dopo quasi sei anni consecutivi di riduzione del credito deteriorato riconducibile alla clientela privata, calato progressivamente da maggio 2016. Il totale delle sofferenze delle famiglie è passato, da febbraio 2021 a febbraio 2022 (quindi prima dell’inizio del conflitto), da 11,56 miliardi di euro a 12,37 miliardi, con una crescita in un anno del 7, 04%. Nel trimestre da novembre 2021 a febbraio 2022, le sofferenze bancarie sono aumentate di 1,48 miliardi di euro (+ 13,55%). Resta ora da capire quale sarà l’impatto della guerra e del caro energia, tenendo conto che nell’ultimo anno, con le sofferenze, sono cresciuti anche i prestiti, saliti di circa 19 miliardi, da 641 a 660 miliardi di euro. Il che fa immaginare che nei prossimi mesi la mancanza di liquidità e la difficoltà di ripagare i finanziamenti si trasformerà in una vera propria e emergenza sociale.Che cosa accade a chi non riesce a pagare le rate del mutuo, i cui tassi hanno ripreso a salire pericolosamente? In genere, se si salta una mensilità la banca si limita ad applicare un interesse di mora. Diverso è il discorso se la morosità si protrae per più mesi consecutivi. Per legge la banca può rescindere il contratto dopo 180 giorni di mancato pagamento e chiedere il saldo delle rate non pagate più gli interessi di mora. Se l’insolvenza si protrae, può pignorare l’immobile ipotecato. Anche questo è un fenomeno in crescita. Come ha rilevato il centro studi Astasy analytics di Npls Re solutions, nel 2021 gli immobili pignorati dalle banche e battuti all’asta sono stati 84.475. I proprietari non riuscivano più a pagare il mutuo. Altri 39.086 immobili sono stati messi all’asta per situazioni di crisi, soprattutto aziendali, in seguito a procedure concorsuali collegate a fallimenti, concordati preventivi, ristrutturazioni, liquidazioni coatte. Ulteriori 2.522 immobili sono finiti all’incanto per altre ragioni, come divorzi o eredità giacenti. In totale, nel 2021 gli immobili messi all’asta sono stati 126.083.Si tratta dell’8,1% in più rispetto al 2020, quando la pandemia aveva bloccato l’attività dei tribunali. Il 46,3% sono abitazioni e nel 9,3% dei casi sono box e posti auto. Una quota importante è rappresentata da uffici e negozi (10,7%), magazzini (7,3), capannoni (4,4). C’è poi un 11,5% di terreni. Il resto sono cinema, teatri, caserme in disuso, biblioteche, stabilimenti balneari e perfino chiese. Il report spiega che si sono sommati gli effetti della recessione legata al Covid con la crisi precedente e il passaggio a un’economia più digitale che ha sempre meno bisogno di spazi fisici. A dimostrazione della crisi c’è il calo dei valori: l’89% delle aste non superano il prezzo di 250.000 euro. La media è di 62.472 euro, molto meno del passato.Gli italiani non riescono a pagare nemmeno le bollette. Secondo un’indagine Arte, l’associazione che raggruppa i grossisti di energia, un cliente su quattro fatica a onorare il contratto di fornitura e i distacchi sono aumentati. Si allungano pure le file ai monti dei pegni. Secondo le rilevazioni di Banca Sistema effettuate a Napoli, dove il fenomeno è più evidente (ma la situazione è in linea con quella di altre città italiane), le urgenze quotidiane come bollette, affitto, rette rappresentano il 50% dei motivi che portano le persone a dare in pegno i beni di famiglia. Quasi tutti i clienti recuperano successivamente l’oggetto impegnato: soltanto il 2% finisce all’asta. La percentuale più consistente di coloro che si rivolgono a questa antica forma creditizia è rappresentata dai dipendenti privati (circa il 30%) mentre quelli pubblici sono il 15%. L’importo medio che ottengono è di circa 1.300 euro: i soldi necessari per affrontare le spese della quotidianità. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/schiacciati-dai-debiti-2657460654.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="paolo-zabeo-per-gli-artigiani-rischio-altissimo-di-finire-nelle-mani-degli-usurai" data-post-id="2657460654" data-published-at="1654462955" data-use-pagination="False"> Paolo Zabeo: «Per gli artigiani rischio altissimo di finire nelle mani degli usurai» «A fine 2021 il debito delle famiglie ammontava a 574,8 miliardi di euro, con una crescita di 21,9 miliardi rispetto all’anno precedente. L’importo medio per nucleo familiare è di 22.237 euro. Ci preoccupa il rischio di usura che potrebbe colpire soprattutto artigiani e piccoli commercianti. Costoro pagano il caro bollette due volte, prima come utenti domestici e poi come imprenditori per produrre o per riscaldare, rinfrescare e illuminare i negozi. Ricordo che il 70% degli artigiani e dei commercianti lavora da solo: non ha né dipendenti né collaboratori familiari. Chi si indebita rischia di finire nella rete della malavita organizzata e ha difficoltà a uscirne perché non riesce a saldare il conto, lievitato per gli interessi altissimi». È il quadro tracciato da Paolo Zabeo, coordinatore dell’ufficio studi della Cgia di Mestre. Quindi anche tra gli imprenditori lo stock debitorio è in aumento. «Sì. È probabile che l’incremento sia in parte riconducibile alla forte ripresa economica dell’anno scorso. Va altresì segnalato che le aree provinciali più indebitate sono anche quelle che presentano i livelli di reddito più elevati. In queste realtà tra gli indebitati ci sono anche nuclei appartenenti alle fasce sociali più deboli». Però ci sono le forti esposizioni bancarie. È un fardello da cui è difficile liberarsi se l’economia non riparte. Come la vede? «Il forte indebitamento di questi territori potrebbe essere legato ai significativi investimenti avvenuti negli anni scorsi nel settore immobiliare, ovviamente riconducibili a famiglie benestanti. Altra cosa, invece, è interpretare i dati del Mezzogiorno: benché in termini assoluti la situazione sia meno critica che nel resto del Paese, il peso dell’indebitamento delle famiglie più povere è maggiore che altrove. La maggiore incidenza del debito sul reddito si registra nelle famiglie a più alto rischio di povertà ed esclusione sociale». Il caro bollette non rischia di aggravare la situazione di chi è già stato messo a dura prova dalla pandemia? «Certamente sì, il caro bollette ha inciso non poco sui bilanci delle famiglie. Nonostante le misure di mitigazione messe in campo dal governo Draghi, le difficoltà economiche si sono intensificate, abbattendosi soprattutto sulle famiglie del Nord che presentano livelli dei consumi energetici maggiori che nel resto del Paese». È una situazione transitoria o destinata ad aggravarsi? «Molto dipenderà dalla durata del conflitto russo-ucraino e dalle misure che il nostro esecutivo metterà in campo per contrastare i rincari. Se, ad esempio, verrà imposto un tetto al prezzo del gas e ci sarà un abbattimento del cuneo fiscale, consentendo così alle retribuzioni di diventare più pesanti, probabilmente riusciremo a superare questo momento difficile. La fiammata dei prezzi dovrebbe durare ancora qualche mese». Gli aiuti del governo non hanno consentito di affrontare anche la situazione del caro energia? «Gli aiuti sono stati importanti. Nel biennio 2021-2022, decreto Aiuti incluso, il governo Draghi ha stanziato 28,5 miliardi (di cui 23,6 nel 2022). Di questi, 8 miliardi sono stati erogati alle famiglie, 7,4 alle imprese e 13,1 miliardi sono destinati a sostenere entrambe». Eppure tante aziende stentano. Non temete che cadano vittime dell’usura? «Il fenomeno è molto diffuso. Sebbene con le sole denunce effettuate all’Autorità giudiziaria non sia possibile dimensionare il fenomeno, la crisi economica ha incentivato l’avvicinamento delle organizzazioni criminali al mondo dell’imprenditoria. In particolar modo di quella composta dai lavoratori autonomi che, spesso, si indebitano per poche migliaia di euro ma nel giro di qualche mese si trovano nell’impossibilità di restituire questi soldi, perché nel frattempo gli interessi hanno raggiunto livelli spaventosi». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/schiacciati-dai-debiti-2657460654.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="mariano-bella-linflazione-galoppa-e-si-mangia-gli-ultimi-risparmi" data-post-id="2657460654" data-published-at="1654462955" data-use-pagination="False"> Mariano Bella: «L’inflazione galoppa e si mangia gli ultimi risparmi» «Gli italiani hanno accumulato un tesoretto durante la pandemia ma questi soldi ora rischiano di non tradursi in consumi perché mangiato dall’inflazione. Le aziende commerciali che avevano sospeso la cancellazione dalle Camere di commercio durante la pandemia ora potrebbero chiudere definitivamente. Inoltre c’è una quota del commercio che con gli alti costi dell’energia e della logistica non ce la fa e gli usurai sono dietro l’angolo: almeno 30.000 imprese del commercio, della ristorazione e della ricettività sono oggi a elevato rischio di usura. L’illegalità costa quasi 31 miliardi di euro e mette a rischio circa 200.000 posti di lavoro. La perdita annua in termini di fatturato e di valore aggiunto è pari al 6,3%». A snocciolare queste cifre è il direttore dell’ufficio studi di Confcommercio, Mariano Bella. La pandemia ha ridotto i consumi e aumentato i risparmi. Perché il Paese arranca? «Sui conti correnti delle famiglie e delle piccolissime imprese la liquidità è aumentata di 150 miliardi di euro negli ultimi due anni. Fino a ottobre 2021 si puntava sul fatto che tale ricchezza si traducesse in maggiori consumi; poi, però, gli aumenti dell’energia, e come conseguenza dell’inflazione, hanno costretto a rivedere queste stime. I 150 miliardi del tesoretto rischiano di scomparire. Se l’inflazione al 6% dovesse durare per un anno, il potere d’acquisto di quei risparmi si ridurrebbe a 110 miliardi». Cosa sta accadendo alle imprese del commercio? «Si trovano tra l’incudine e il martello. Da un lato l’incremento dei costi, e dall’altro la riduzione del tasso di crescita dei consumi dovuto a maggiore inflazione. Tra il 2021 e il ’22 il costo di bollette e carburanti è raddoppiato per un negozio, e salito del 140% per quelli dotati di impianto di refrigerazione, mentre per i ristoranti c’è stato un + 150%. A dicembre stimavamo una ripresa dei consumi del 4,5%, oggi pensiamo che non possano crescere più del 2-2,5%. Si perderanno una ventina di miliardi di consumi in termini reali. Se dovesse continuare l’incertezza legata al conflitto e della crescita dell’inflazione, si rischia il rallentamento dell’economia che potrebbe protrarsi anche nel 2023. Per spendere, i consumatori hanno bisogno di fiducia nel futuro e non ne vedo molta in giro». Ci sono rischi di chiusure? «Per due anni abbiamo vissuto in una sorta di economia congelata per i ristori, il credito a buon mercato e la resistenza degli imprenditori nel voler continuare l’attività anche nelle avversità. Pure se chiuse, tante imprese non si sono cancellate dalle Camere di commercio. Ma se la difficoltà dovesse perdurare, le imprese chiuse potrebbero decidere di non riaprire più. Molto dipende dalla qualità del turismo». I turisti hanno di nuovo affollato le città. «Un conto sono le strade piene di turisti, un altro se questi spendono. Non basta la quantità. Mancano ancora i grandi gruppi dei russi, dei cinesi e degli americani, cioè i turisti che spendono di più. Se gli americani non tornano nella misura che ci aspettiamo, le strutture del commercio potrebbero avere problemi. Poi un’impresa fa il bilancio su un anno, non su un paio di mesi o un fine settimana. Nei primi due mesi del 2022 manca circa un miliardo di spesa del turismo estero. Siamo fiduciosi ma non indulgiamo in facili entusiasmi. È presto per dire che il peggio è alle nostre spalle. Le previsioni sul pil e i consumi sono molto variabili». Esiste un pericolo di usura per le imprese? «Un’indagine condotta tra febbraio e marzo su un campione di 4.000 imprese del terziario sotto i 50 addetti, è emerso che 30.000 piccole aziende sono a rischio usura. L’11% nei grandi Comuni ha avuto un’esperienza diretta con questo tipo di prestiti, per il 25% la qualità della vita è peggiorata e il 70% ha riscontrato fenomeni di degrado. L’illegalità costa alle imprese del commercio e dei pubblici esercizi quasi 31 miliardi di euro e mette a rischio circa 200.000 posti di lavoro». Come intervenire? «Il problema post pandemia è la restituzione dei prestiti contratti in questi due anni. Sarebbe opportuno lavorare ancora sulle moratorie sia di tipo bancario sia fiscale».
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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