
Nell'intervista tv a Felice Maniero, si beve le sue balle e mezze verità senza ribattere. Consentendogli di glissare su fughe e omicidi.Sono l'uno davanti all'altro. L'ex boss di profilo, un po' in penombra. Lui, invece, a favore di camera, da vero protagonista, mentre si beve il romanzo criminale infarcito di aneddoti fighissimi ma fantasiosi propinati da Felice Maniero, l'ideatore e capo indiscusso della mala del Brenta, evaso da due carceri di massima sicurezza, condannato per associazione mafiosa e per diversi omicidi. Roberto Saviano ha dedicato il primo appuntamento della seconda stagione di Kings of crime (andato in onda mercoledì su Nove) al faccia a faccia con Faccia d'angelo (così Maniero era soprannominato ai tempi in cui imperversava). A Maniero sono stati dedicati film e recentissime fiction e la sua biografia, quindi, è un po' bollita. E allora, per rinnovare lo spettacolo, c'era bisogno più che di una intervista, di un'interpretazione di Maniero alla Saviano. E forse è per questo l'ex boss è finito sullo sfondo. La savianata andata in onda non è passata inosservata. E una memoria storica della mala del Brenta, il cronista del Gazzettino di Venezia Maurizio Dianese, che Maniero l'ha intervistato più volte, ha seguito le indagini e i processi e su di lui ha scritto libri e fornito consulenze per la fiction tv, ha sottolineato con la penna rossa più di una balla tirata fuori dal boss e recepita da Saviano come verità. «È riuscito a raccontarsi come un bravo ragazzo che apre la piscina della sua abitazione ai ragazzini di Campolongo Maggiore e regala salumi e formaggi, rubati, ai coreani (cioè ai poveri che abitavano nei quartieri popolari che negli anni Cinquanta erano soprannominati Corea)».L'ex boss, insomma, grazie al Saviano show, è apparso credibile anche quando le ha sparate grosse. E tra le panzane c'è questa: «Mia mamma non ha mai voluto nemmeno un anellino. Andavo da lei con scatole piene di gioielli e lei mi diceva di andar via, non voleva neppure guardarli». E Dianese ha annotato: «Non avrà guardato gli anellini, Lucia Carrain, ma ha sicuramente contato uno ad uno i miliardi di lire (almeno 100, cioè 50 milioni di euro) che le sono passati per le mani e che la mammina santa doveva pur immaginare che arrivavano dalle rapine e dallo spaccio di droga, no? E anche se non si vuole arrivare a dire che era addirittura la capobanda, come sostiene da sempre il giudice Francesco Saverio Pavone, di certo mamma Lucia era parte integrante della mafia del Brenta».Nella sfilza di bugie e di mezze verità che Maniero inanella per apparire figo e per nascondere la faccia da feroce criminale, c'è la fuga dalla cella di Fossombrone. Dice di aver fatto tutto lui. Ma al cronista non è sfuggito che il racconto di quell'impresa, consacrato in atti giudiziari, lo aveva fatto il brigatista rosso Giuseppe Di Cecco, che è evaso con lui: «Arrivo alla conclusione che sotto il carcere c'è una struttura antica che vale la pen di sondare... faccio una verifica, faccio lo studio della planimetria e vedo che c'è uno sbocco che dà sul fiume». Una versione confermata dallo stesso Maniero in un verbale del 1995. Ma Maniero confessa a Saviano solo ciò che vuole. E così, sottolinea Dianese, ammette di essere stato condannato a 17 anni per lo spaccio (1.000 chili di eroina e altrettanti di cocaina tra il 1980 e il 1995), per le rapine (qualche centinaio per un equivalente di 50 miliardi di lire) e sette omicidi, «ma nulla dice sugli altri 17 morti ammazzati che la sua banda ha sulla coscienza». Soprattutto, però, Saviano permette che salti ampi passaggi sulla morte di Cristina Pavesi, la studentessa uccisa durante la rapina al treno di Vigonza nel 1990, l'unico omicidio per il quale ha chiesto scusa in diretta alla famiglia. «Avevo anche proposto un risarcimento, ma non mi hanno mai risposto», ha detto Faccia d'angelo. E Dianese evidenzia: «Maniero è il principale responsabile della morte di Cristina perché era stato avvertito che sul binario accanto era fermo un treno passeggeri. Cristina Pavesi sarebbe ancora viva se Maniero non fosse (stato) quel bandito feroce e sanguinario che l'intervista tv non lascia nemmeno immaginare e che dunque è l'ennesimo mattoncino nella costruzione del mito di Felice Maniero, oggi gran lavoratore». Che ama ripetere: «Lavoro dalla mattina alla sera e mi piace».Al contrario di Saviano che, come hanno sottolineato Giacomo Amadori e Simone Di Meo in un servizio pubblicato questa settimana da Panorama, è allergico alla parte più impegnativa del lavoro giornalistico: la verifica: «È il suo metodo», scrivono Amadori e Di Meo, «quello che gli consente di superare di slancio le faticose verifiche del giornalismo d'inchiesta. Ma guai a dirlo. «Se mettete in dubbio la mia credibilità, mi consegnate ai killer», è il suo ricatto morale. Nel frattempo, però, si beve le fandonie dei criminali.
John Grisham (Ansa)
John Grisham, come sempre, tiene incollati alle pagine. Il protagonista del suo nuovo romanzo, un avvocato di provincia, ha tra le mani il caso più grosso della sua vita. Che, però, lo trascinerà sul banco degli imputati.
Fernando Napolitano, amministratore delegato di Irg
Alla conferenza internazionale, economisti e manager da tutto il mondo hanno discusso gli equilibri tra Europa e Stati Uniti. Lo studio rivela un deficit globale di forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero, elementi chiave che costituiscono il dialogo tra imprese e decisori pubblici.
Stamani, presso l’università Bocconi di Milano, si è svolta la conferenza internazionale Influence, Relevance & Growth 2025, che ha riunito economisti, manager, analisti e rappresentanti istituzionali da tutto il mondo per discutere i nuovi equilibri tra Europa e Stati Uniti. Geopolitica, energia, mercati finanziari e sicurezza sono stati i temi al centro di un dibattito che riflette la crescente complessità degli scenari globali e la difficoltà delle imprese nel far sentire la propria voce nei processi decisionali pubblici.
Particolarmente attesa la presentazione del Global 200 Irg, la prima ricerca che misura in modo sistematico la capacità delle imprese di trasferire conoscenza tecnica e industriale ai legislatori e agli stakeholder, contribuendo così a politiche più efficaci e fondate su dati concreti. Lo studio, basato sull’analisi di oltre due milioni di documenti pubblici elaborati con algoritmi di Intelligenza artificiale tra gennaio e settembre 2025, ha restituito un quadro rilevante: solo il 2% delle aziende globali supera la soglia minima di «fitness di influenza», fissata a 20 punti su una scala da 0 a 30. La media mondiale si ferma a 13,6, segno di un deficit strutturale soprattutto in tre dimensioni chiave (forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero) che determinano la capacità reale di incidere sul contesto regolatorio e anticipare i rischi geopolitici.
Dai lavori è emerso come la crisi di influenza non riguardi soltanto le singole imprese, ma l’intero ecosistema economico e politico. Un tema tanto più urgente in una fase segnata da tensioni commerciali, transizioni energetiche accelerate e carenze di competenze nel policy making.
Tra gli interventi più significativi, quello di Ken Hersh, presidente del George W. Bush Presidential Center, che ha analizzato i limiti strutturali delle energie rinnovabili e le prospettive della transizione energetica. Sir William Browder, fondatore di Hermitage Capital, ha messo in guardia sui nuovi rischi della guerra economica tra Occidente e Russia, mentre William E. Mayer, chairman emerito dell’Aspen Institute, ha illustrato le ricadute della geopolitica sui mercati finanziari. Dal fronte italiano, Alessandro Varaldo ha sottolineato che, dati alla mano, non ci sono bolle all’orizzonte e l’Europa ha tutti gli ingredienti a patto che si cominci un processo per convincere i risparmiatori a investire nelle economia reale. Davide Serra ha analizzato la realtà Usa e come Donald Trump abbia contribuito a risvegliarla dal suo torpore. Il dollaro è molto probabilmente ancora sopravvalutato. Thomas G.J. Tugendhat, già ministro britannico per la Sicurezza, ha offerto infine una prospettiva preziosa sul futuro della cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea.
Un messaggio trasversale ha attraversato tutti gli interventi: l’influenza non si costruisce in un solo ambito, ma nasce dall’integrazione tra governance, innovazione, responsabilità sociale e capacità di comunicazione. Migliorare un singolo aspetto non basta. La ricerca mostra una correlazione forte tra innovazione e leadership di pensiero, così come tra responsabilità sociale e cittadinanza globale: competenze che, insieme, definiscono la solidità e la credibilità di un’impresa nel lungo periodo.
Per Stefano Caselli, rettore della Bocconi, la sfida formativa è proprio questa: «Creare leader capaci di tradurre la competenza tecnica in strumenti utili per chi governa».
«L’Irg non è un nuovo indice di reputazione, ma un sistema operativo che consente alle imprese di aumentare la protezione del valore dell’azionista e degli stakeholder», afferma Fernando Napolitano, ad di Irg. «Oggi le imprese operano in contesti dove i legislatori non hanno più la competenza tecnica necessaria a comprendere la complessità delle industrie e dei mercati. Serve un trasferimento strutturato di conoscenza per evitare policy inefficaci che distruggono valore».
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