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2019-02-02
La Tav scava un buco dentro il governo
Ansa
Meglio un tunnel che un buco nell'acqua: la sensazione, per non dire la certezza, è che la Tav alla fine si farà, con qualche correzione e (forse) un referendum. La visita di Matteo Salvini al cantiere di Chiomonte, ieri mattina, vale più di ogni retroscena, e del resto la Lega, lo scorso 12 gennaio, aveva già manifestato in piazza a Torino a favore dell'opera. Certo, la distanza tra Lega e M5s su questo punto appare abissale, ma non è la prima volta e non sarà l'ultima che i due contraenti del contratto di governo dovranno trovare un punto di equilibrio, sotto forma di qualche modifica al progetto originario che consenta di ridurre i costi e l'impatto ambientale.
Tonico e determinato, Salvini indossa il caschetto da (vice)presidente operaio e va a Chiomonte a benedire la Torino-Lione, accolto dalle solite contestazioni di centri sociali e anarchici (alla fine delle proteste, condite da qualche tafferuglio con la polizia, ne saranno identificati 45 e denunciati 4).
«Se tornare indietro costa come andare avanti», scandisce Salvini, «io sono per andare avanti. Il nostro è un governo che ha a cuore l'ambiente, che vuole ripulire l'aria e togliere i tir dalle autostrade? Bene», aggiunge il ministro dell'Interno, «quest'opera fa esattamente questo, e io penso sia meglio avere meno inquinamento, meno auto in giro e più treni. Non sono qui», argomenta Salvini, «in polemica con qualcuno: l'opera deve e può essere rivista, il M5s ha ragione, ma io credo che sia un'opera utile. Il governo fa squadra e il rapporto con il M5s è positivo e costruttivo. La Torino-Lione è un'opera che serve. L'analisi costi-benefici? Ancora non l'ho vista, spero di vederla presto».
Per il Carroccio, la Tav s'ha da fare. «Se devo spendere», sintetizza Salvini, «4 miliardi dei contribuenti italiani per finire l'opera sono soldi ben spesi, se lo devo fare per tornare a riempire i buchi scavati in 5 anni di lavoro mi sembra demenziale. Certo c'è la volontà di ridisegnare una parte dell'opera, di tagliare alcune opere sovrastimate, di rivedere la mega stazione di Susa e il miliardo e sette di investimenti previsti sul territorio italiano. L'opera si può ridimensionare, il contratto di governo è chiaro. A occhio si può risparmiare almeno un miliardo di euro, da reinvestire sulla metro di Torino o per il sostegno ai comuni interessati. In un momento di crisi economica», fa notare Salvini, «rinunciare a 50.000 posti di lavoro e mettere a rischio la vita di tante aziende mi sembra assolutamente poco sensato».
Già lo scorso settembre, il responsabile del corridoio europeo est-ovest, Jan Brinkhorst, aveva scritto una lettera al ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, attraverso la quale aveva proposto uno sconto complessivo di 860 milioni di euro a Italia e Francia, con una minore spesa di 490 milioni per il nostro Paese. L'Europa si accollerebbe non più il 40%, come previsto, ma il 50% dell'investimento necessario per realizzare la parte internazionale della Tav. Italia e Francia risparmierebbero in totale il 10 per cento di 8,6 miliardi, cioè 860 milioni.
E il M5s? Il più duro contro Salvini è il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano: «Salvini», attacca Di Stefano, «non è andato a vedere il cantiere Tav ma un buco di 5 metri. Di quale opera parla? Non esiste nessuna opera in corso. Su questo tema non bisogna fare propaganda elettorale, bisogna dire solamente la verità agli italiani. Basta chiacchiere inutili», ha concluso Di Stefano, «su un'opera inutile, che non si farà. Punto».
Mentre le seconde linee fanno la faccia feroce, il leader del M5s, Luigi Di Maio, tiene salda la posizione del «no» ma con toni più sfumati: «Non vado a Chiomonte», commenta Di Maio, «visto che lì non è stato scavato ancora un solo centimetro: c'è solo un tunnel geognostico. Per me il cantiere di Chiomonte non è un'incompiuta ma una mai iniziata. La spesa del Tav può essere benissimo dirottata sulla metropolitana di Torino o sull'autostrada Asti-Cuneo. Lasciamo i soldi a quel territorio», aggiunge Di Maio, «ma investiamoli per cose prioritarie». Da parte sua, il premier Giuseppe Conte si prepara all'ennesima mediazione: «I cantieri non si sono interrotti», tranquillizza Conte, «il dibattito pubblico è preso dalla Tav che è un progetto complesso, ma non possiamo fermarci a quest'opera».
La soluzione potrebbe essere il referendum, gradito alla Lega e non ostacolato dal M5s: «Non siamo affatto contrari a un referendum sulla Tav», dice a Repubblica il ministro per i Rapporti col Parlamento, Riccardo Fraccaro, esponente di punta dei pentastellati. Interessanti le affermazioni sul Terzo Valico, altra opera in corso di realizzazione, di Marco Ponti, il docente che sta preparando le analisi costi-benefici, compresa quella sulla Tav: «L'analisi», spiega Ponti a TeleNord, «che abbiamo preparato ha detto che i costi per la realizzazione del Terzo Valico saranno superiori ai benefici dell'opera a finire, ma nonostante questo il ministro Toninelli, cioè la politica, ha deciso di andare avanti».
Carlo Tarallo
Stanziati 250 milioni per 76 Province. Renderanno sicure scuole e strade
L'Italia è scivolata in recessione e per invertire la tendenza è necessario puntare su alcune misure chiave, in particolare a favore delle aziende. Come la flat tax, che però oggi riguarda solo piccoli imprenditori e partite Iva: c'è invece bisogno di sostenere anche la grande impresa e di rilanciare gli investimenti pubblici.
E non si può prescindere dall'edilizia: mentre la riforma del Codice degli appalti, necessaria secondo il governo per sbloccare le opere, stenta a prendere il via, il vicepremier Matteo Salvini ha annunciato l'arrivo a breve di un nuovo decreto «cantieri veloci». Il tutto in attesa del verdetto finale sulla Tav. Proprio ieri, i sindacati di settore hanno chiesto di essere convocati dal governo per trovare soluzioni alla «crisi di sistema» e «passare dalle parole ai fatti». Secondo i dati di Filca Cisl, Fillea Cgil e Feneal Uil in dieci anni il settore ha perso 120.000 imprese e 600.000 occupati. Dalle piccole aziende si è passati ai colossi. A ottobre Astaldi (circa 11.000 dipendenti) ha chiesto il concordato preventivo con riserva e a dicembre ha ottenuto dal tribunale due mesi di proroga per presentare un nuovo piano industriale. Ad agosto, Condotte (circa 2.800 dipendenti) è entrata in amministrazione straordinaria.
Non ci sono però solo le grandi opere: i cantieri fondamentali per far ripartire il Paese sono anche quelli per la manutenzione di scuole e strade, rimasta di competenza delle Province che da tempo lamentano la mancanza di fondi. Per dare una boccata d'ossigeno, il governo con un decreto interministeriale ha destinato a 76 Province nelle Regioni a statuto ordinario 250 milioni di euro, da usare dal 2019 al 2033 per la manutenzione di scuole e strade. La parte del leone spetta all'Emilia Romagna, con 31,4 milioni di euro; seguono Lombardia (30,2 milioni) e Toscana (27 milioni).
Le risorse, come ha spiegato Salvini in una lettera ai presidenti delle Province, «sono state ripartite sulla base delle indicazioni dell'Upi (l'Unione delle province italiane, ndr): un segno tangibile dell'attenzione che il governo intende rivolgere a tutte le amministrazioni provinciali». Per il ministro «la tutela delle comunità locali e la ripresa economica rappresentano una priorità: non a caso questo fondo segue l'erogazione di circa 400 milioni per i Comuni fino a 20.000 abitanti. Con la recente legge di Bilancio sono stati alleggeriti e semplificati quei vincoli finanziari che negli anni passati, per perseguire gli obiettivi del patto di stabilità interno prima e del pareggio di bilancio poi, hanno limitato per molti enti virtuosi il legittimo utilizzo delle proprie risorse, con regole sovente non comprensibili e condivisibili. Possiamo e dobbiamo fare di più. Ma siamo convinti di aver inaugurato una nuova fase nel rapporto tra governo e comunità locali».
Di certo i nuovi fondi sono un'ancora di salvezza per le Province, rimaste a secco a causa dei tagli fissati dalla manovra economica del 2015, che hanno impattato sulla sicurezza degli oltre 5.000 edifici scolastici e dei 130.000 chilometri di strade di loro competenza, sui quali sorgono almeno 30.000 tra ponti, viadotti e gallerie. Infrastrutture sulle quali, come ha denunciato il presidente dell'Upi Achille Variati pochi giorni dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, era diventato «impossibile programmare la manutenzione», con i tecnici delle Province «costretti a effettuare i controlli a vista», carenze di personale permettendo.
«L'emergenza», aveva sottolineato Variati, «non è solo sbloccare fondi per gli investimenti, ma garantire le risorse per le verifiche statiche e per la manutenzione ordinaria indispensabile per la sicurezza, soprattutto per i manufatti in cemento armato costruiti negli anni Sessanta e Settanta. Servono procedure rapide e risorse dirette perché il Paese non può aspettare tre anni perché un cantiere si apra, che è il tempo medio che si perde in passaggi burocratici». E il decreto sembra essere andato proprio in questa direzione.
Un discorso simile vale anche per le scuole: a settembre la Corte dei conti ha denunciato i ritardi nell'attuazione del piano straordinario di messa in sicurezza nelle zone sismiche, anche per «l'inadeguatezza delle risorse finanziarie». Il 24% dei progetti non è mai stato avviato, e solo il 61% è stato concluso.
Chiara Merico
Niente ok a Guaidò leader anti Russia. L’Italia mette il veto alla mozione dell’Ue
Alla fine i nodi sono venuti al pettine. Pure sul Venezuela. Giovedì sera a Bucarest, durante la riunione dei capi delle diplomazie Ue, il ministro svedese Margot Wallstrom sostenuta da 27 Paesi ha lanciato una proposta di compromesso sul Paese sudamericano, con cui si accettava il ruolo di Juan Guaidò come presidente ad interim fino a nuove elezioni. In pratica un passo avanti rispetto alla risoluzione della scorsa settima. Spagna, Francia e Gran Bretagna avevano riconosciuto Guidò come presidente ad interim, l'Ue aveva semplicemente chiesto nuove elezioni.
La mossa svedese avrebbe riallineato tutta l'Unione sulla linea contraria a Nicolas Maduro. In pratica, si vada a elezioni ma nel frattempo il presidente non sia più il dittatore di Caracas. D'altronde indire il voto sotto il controllo dell'esercito fedele al regime e senza la certezza di osservatori super partes sarebbe un buco nell'acqua.
Sarebbe anche stato un passo decisivo di riavvicinamento alla politica americana che dal primo istante ha sostenuto il capo del Parlamento nel suo tentativo di far cadere una volta per tutte la dittatura chavista. Purtroppo la mozione non è passata. La Grecia si è astenuta e l'Italia ha messo il veto. Unica nazione nel Vecchio Continente a sfilarsi e a sostenere un governo anti democratico vicino a Russia, Iran e Cina. La prima domanda è perché una tale cosa sia accaduta. La prima risposta è il totale scollamento della componente grillina, di quella leghista e della diplomazia di carriera. Il leader dei 5 stelle, Luigi Di Maio, per motivi evidentemente elettorali (gran parte dei votanti grillini immagina un Venezuela statalista che non esiste in alcun modo) ha detto «nè con l'uno né con l'altro».
Peccato che si sono momenti in cui bisogna schierarsi a tutti i costi. Capire se si sta con gli Usa o con la Russia. È ancor più ridicolo sostenere che Guaidò non è stato eletto. Come se Maduro fosse arrivato dove è con la democrazia e non con l'uso della forza, secondo uno schema avviato dal suo padrino Hugo Chavez a partire dal 2001. «Evidentemente c'è una scarsa conoscenza di ciò che sta accadendo. Invito il sottosegretario agli esteri a informarsi, un'altra Libia qui non è possibile», ha afferma Guaidò, rispondendo al Tg2 ad una domanda sulle parole di Manlio Di Stefano che, annunciando la contrarietà dell'Italia a riconoscerlo come leader venezuelano, ha invitato a evitare «lo stesso errore fatto in Libia». «Invitiamo l'Italia a fare la la cosa corretta perché i giorni qui si contano in vite che si perdono», ha detto Guaidò sottolineando l'importanza del riconoscimento da parte dell'europarlamento. D'altro canto, solo giovedì pomeriggio, Guglielmo Picchi, sottosegretario agli esteri in quiota Lega ha sentenziato: «La presidenza Maduro è finita» in questo modo sganciandosi dalla linea filo russa che negli anni scorsi (sembrano secoli) ha contraddistinto il Carroccio. Eppure quando c'è stato da tirare le fila, ancor auna volta le due anime del governo sono andate in frizione. C'è da scommettere che a trovare la sintesi toccherà a Enzo Moavero Milanesi con il sostegno di Sergio Mattarella. Anche perché la strategia Usa sembra essere quella di alzare la tensione e testare la fedeltà della Guardia Nacional a Maduro. In modo unilaterale Trump ha accettato la richiesta di Guaidò di spedire medicine e beni di prima necessità.
Quando i container via terra arriveranno ai valichi troveranno i mezzi blindati inviati da Maduro. Basterà un morto per scatenare una eventuale ritorsione. E a quel punto qualunque mozione europea sarà carta straccia. Trump non attenderà certo un consesso indeciso e lontano migliaia di miglia per prendere una decisione vitale per il proprio orto di casa: l'Iran adesso va combattuto anche di sponda azzerando i Paesi che danno agli ayatollah rifugio ideologico. Negli ultimi mesi Roma si è schierata spesso con gli Usa e da Washington ha ottenuto grandi leve in Libia e pure in Egitto. Adesso che anche l'Ue su uno specifico tema è allineata a Trump, il governo italiano ancor meno può sottrarsi. Maduro rappresenta una dittatura. Guaidò una democrazia fallace. La scelta è scontata e persino opportuna in tema di geopolitica. Sta arrivando una recessione è bene che i 5 stelle capiscano che i vasi comunicanti servono. Eccome, se servono.
Claudio Antonelli
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Riduci
Matteo Salvini va nel cantiere in Val di Susa e rilancia la linea dell'alta velocità: «Va finita, toglie i tir dalle strade e tornare indietro costa». Duro Luigi Di Maio: «Opera che non è mai iniziata e mai si farà».Stanziati 250 milioni per 76 Province. Renderanno sicure scuole e strade. I fondi andranno nelle Regioni a statuto ordinario. Investimenti pubblici ed edilizia sono le armi per uscire dalla recessione.Niente ok a Juan Guaidò leader anti Russia. L'Italia mette il veto alla mozione dell'Ue. Bloccato il riconoscimento del nuovo presidente in vista del voto. Di Maio: «Non contro Maduro». La Lega invece sta con Trump.Provincia per provincia, ecco i cantieri per scuole e strade già finanziati e pronti a partire.Lo speciale contiene tre articoli.!function(e,t,s,i){var n="InfogramEmbeds",o=e.getElementsByTagName("script")[0],d=/^http:/.test(e.location)?"http:":"https:";if(/^\/{2}/.test(i)&&(i=d+i),window[n]&&window[n].initialized)window[n].process&&window[n].process();else if(!e.getElementById(s)){var r=e.createElement("script");r.async=1,r.id=s,r.src=i,o.parentNode.insertBefore(r,o)}}(document,0,"infogram-async","https://e.infogram.com/js/dist/embed-loader-min.js");Meglio un tunnel che un buco nell'acqua: la sensazione, per non dire la certezza, è che la Tav alla fine si farà, con qualche correzione e (forse) un referendum. La visita di Matteo Salvini al cantiere di Chiomonte, ieri mattina, vale più di ogni retroscena, e del resto la Lega, lo scorso 12 gennaio, aveva già manifestato in piazza a Torino a favore dell'opera. Certo, la distanza tra Lega e M5s su questo punto appare abissale, ma non è la prima volta e non sarà l'ultima che i due contraenti del contratto di governo dovranno trovare un punto di equilibrio, sotto forma di qualche modifica al progetto originario che consenta di ridurre i costi e l'impatto ambientale. Tonico e determinato, Salvini indossa il caschetto da (vice)presidente operaio e va a Chiomonte a benedire la Torino-Lione, accolto dalle solite contestazioni di centri sociali e anarchici (alla fine delle proteste, condite da qualche tafferuglio con la polizia, ne saranno identificati 45 e denunciati 4). «Se tornare indietro costa come andare avanti», scandisce Salvini, «io sono per andare avanti. Il nostro è un governo che ha a cuore l'ambiente, che vuole ripulire l'aria e togliere i tir dalle autostrade? Bene», aggiunge il ministro dell'Interno, «quest'opera fa esattamente questo, e io penso sia meglio avere meno inquinamento, meno auto in giro e più treni. Non sono qui», argomenta Salvini, «in polemica con qualcuno: l'opera deve e può essere rivista, il M5s ha ragione, ma io credo che sia un'opera utile. Il governo fa squadra e il rapporto con il M5s è positivo e costruttivo. La Torino-Lione è un'opera che serve. L'analisi costi-benefici? Ancora non l'ho vista, spero di vederla presto».Per il Carroccio, la Tav s'ha da fare. «Se devo spendere», sintetizza Salvini, «4 miliardi dei contribuenti italiani per finire l'opera sono soldi ben spesi, se lo devo fare per tornare a riempire i buchi scavati in 5 anni di lavoro mi sembra demenziale. Certo c'è la volontà di ridisegnare una parte dell'opera, di tagliare alcune opere sovrastimate, di rivedere la mega stazione di Susa e il miliardo e sette di investimenti previsti sul territorio italiano. L'opera si può ridimensionare, il contratto di governo è chiaro. A occhio si può risparmiare almeno un miliardo di euro, da reinvestire sulla metro di Torino o per il sostegno ai comuni interessati. In un momento di crisi economica», fa notare Salvini, «rinunciare a 50.000 posti di lavoro e mettere a rischio la vita di tante aziende mi sembra assolutamente poco sensato».Già lo scorso settembre, il responsabile del corridoio europeo est-ovest, Jan Brinkhorst, aveva scritto una lettera al ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, attraverso la quale aveva proposto uno sconto complessivo di 860 milioni di euro a Italia e Francia, con una minore spesa di 490 milioni per il nostro Paese. L'Europa si accollerebbe non più il 40%, come previsto, ma il 50% dell'investimento necessario per realizzare la parte internazionale della Tav. Italia e Francia risparmierebbero in totale il 10 per cento di 8,6 miliardi, cioè 860 milioni. E il M5s? Il più duro contro Salvini è il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano: «Salvini», attacca Di Stefano, «non è andato a vedere il cantiere Tav ma un buco di 5 metri. Di quale opera parla? Non esiste nessuna opera in corso. Su questo tema non bisogna fare propaganda elettorale, bisogna dire solamente la verità agli italiani. Basta chiacchiere inutili», ha concluso Di Stefano, «su un'opera inutile, che non si farà. Punto». Mentre le seconde linee fanno la faccia feroce, il leader del M5s, Luigi Di Maio, tiene salda la posizione del «no» ma con toni più sfumati: «Non vado a Chiomonte», commenta Di Maio, «visto che lì non è stato scavato ancora un solo centimetro: c'è solo un tunnel geognostico. Per me il cantiere di Chiomonte non è un'incompiuta ma una mai iniziata. La spesa del Tav può essere benissimo dirottata sulla metropolitana di Torino o sull'autostrada Asti-Cuneo. Lasciamo i soldi a quel territorio», aggiunge Di Maio, «ma investiamoli per cose prioritarie». Da parte sua, il premier Giuseppe Conte si prepara all'ennesima mediazione: «I cantieri non si sono interrotti», tranquillizza Conte, «il dibattito pubblico è preso dalla Tav che è un progetto complesso, ma non possiamo fermarci a quest'opera».La soluzione potrebbe essere il referendum, gradito alla Lega e non ostacolato dal M5s: «Non siamo affatto contrari a un referendum sulla Tav», dice a Repubblica il ministro per i Rapporti col Parlamento, Riccardo Fraccaro, esponente di punta dei pentastellati. Interessanti le affermazioni sul Terzo Valico, altra opera in corso di realizzazione, di Marco Ponti, il docente che sta preparando le analisi costi-benefici, compresa quella sulla Tav: «L'analisi», spiega Ponti a TeleNord, «che abbiamo preparato ha detto che i costi per la realizzazione del Terzo Valico saranno superiori ai benefici dell'opera a finire, ma nonostante questo il ministro Toninelli, cioè la politica, ha deciso di andare avanti». Carlo Tarallo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/salvini-aziona-la-trivella-e-scava-nel-governo-2627743770.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="stanziati-250-milioni-per-76-province-renderanno-sicure-scuole-e-strade" data-post-id="2627743770" data-published-at="1765499264" data-use-pagination="False"> Stanziati 250 milioni per 76 Province. Renderanno sicure scuole e strade L'Italia è scivolata in recessione e per invertire la tendenza è necessario puntare su alcune misure chiave, in particolare a favore delle aziende. Come la flat tax, che però oggi riguarda solo piccoli imprenditori e partite Iva: c'è invece bisogno di sostenere anche la grande impresa e di rilanciare gli investimenti pubblici. E non si può prescindere dall'edilizia: mentre la riforma del Codice degli appalti, necessaria secondo il governo per sbloccare le opere, stenta a prendere il via, il vicepremier Matteo Salvini ha annunciato l'arrivo a breve di un nuovo decreto «cantieri veloci». Il tutto in attesa del verdetto finale sulla Tav. Proprio ieri, i sindacati di settore hanno chiesto di essere convocati dal governo per trovare soluzioni alla «crisi di sistema» e «passare dalle parole ai fatti». Secondo i dati di Filca Cisl, Fillea Cgil e Feneal Uil in dieci anni il settore ha perso 120.000 imprese e 600.000 occupati. Dalle piccole aziende si è passati ai colossi. A ottobre Astaldi (circa 11.000 dipendenti) ha chiesto il concordato preventivo con riserva e a dicembre ha ottenuto dal tribunale due mesi di proroga per presentare un nuovo piano industriale. Ad agosto, Condotte (circa 2.800 dipendenti) è entrata in amministrazione straordinaria. Non ci sono però solo le grandi opere: i cantieri fondamentali per far ripartire il Paese sono anche quelli per la manutenzione di scuole e strade, rimasta di competenza delle Province che da tempo lamentano la mancanza di fondi. Per dare una boccata d'ossigeno, il governo con un decreto interministeriale ha destinato a 76 Province nelle Regioni a statuto ordinario 250 milioni di euro, da usare dal 2019 al 2033 per la manutenzione di scuole e strade. La parte del leone spetta all'Emilia Romagna, con 31,4 milioni di euro; seguono Lombardia (30,2 milioni) e Toscana (27 milioni). Le risorse, come ha spiegato Salvini in una lettera ai presidenti delle Province, «sono state ripartite sulla base delle indicazioni dell'Upi (l'Unione delle province italiane, ndr): un segno tangibile dell'attenzione che il governo intende rivolgere a tutte le amministrazioni provinciali». Per il ministro «la tutela delle comunità locali e la ripresa economica rappresentano una priorità: non a caso questo fondo segue l'erogazione di circa 400 milioni per i Comuni fino a 20.000 abitanti. Con la recente legge di Bilancio sono stati alleggeriti e semplificati quei vincoli finanziari che negli anni passati, per perseguire gli obiettivi del patto di stabilità interno prima e del pareggio di bilancio poi, hanno limitato per molti enti virtuosi il legittimo utilizzo delle proprie risorse, con regole sovente non comprensibili e condivisibili. Possiamo e dobbiamo fare di più. Ma siamo convinti di aver inaugurato una nuova fase nel rapporto tra governo e comunità locali». Di certo i nuovi fondi sono un'ancora di salvezza per le Province, rimaste a secco a causa dei tagli fissati dalla manovra economica del 2015, che hanno impattato sulla sicurezza degli oltre 5.000 edifici scolastici e dei 130.000 chilometri di strade di loro competenza, sui quali sorgono almeno 30.000 tra ponti, viadotti e gallerie. Infrastrutture sulle quali, come ha denunciato il presidente dell'Upi Achille Variati pochi giorni dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, era diventato «impossibile programmare la manutenzione», con i tecnici delle Province «costretti a effettuare i controlli a vista», carenze di personale permettendo. «L'emergenza», aveva sottolineato Variati, «non è solo sbloccare fondi per gli investimenti, ma garantire le risorse per le verifiche statiche e per la manutenzione ordinaria indispensabile per la sicurezza, soprattutto per i manufatti in cemento armato costruiti negli anni Sessanta e Settanta. Servono procedure rapide e risorse dirette perché il Paese non può aspettare tre anni perché un cantiere si apra, che è il tempo medio che si perde in passaggi burocratici». E il decreto sembra essere andato proprio in questa direzione. Un discorso simile vale anche per le scuole: a settembre la Corte dei conti ha denunciato i ritardi nell'attuazione del piano straordinario di messa in sicurezza nelle zone sismiche, anche per «l'inadeguatezza delle risorse finanziarie». Il 24% dei progetti non è mai stato avviato, e solo il 61% è stato concluso. Chiara Merico <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/salvini-aziona-la-trivella-e-scava-nel-governo-2627743770.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="niente-ok-a-guaido-leader-anti-russia-litalia-mette-il-veto-alla-mozione-dellue" data-post-id="2627743770" data-published-at="1765499264" data-use-pagination="False"> Niente ok a Guaidò leader anti Russia. L’Italia mette il veto alla mozione dell’Ue Alla fine i nodi sono venuti al pettine. Pure sul Venezuela. Giovedì sera a Bucarest, durante la riunione dei capi delle diplomazie Ue, il ministro svedese Margot Wallstrom sostenuta da 27 Paesi ha lanciato una proposta di compromesso sul Paese sudamericano, con cui si accettava il ruolo di Juan Guaidò come presidente ad interim fino a nuove elezioni. In pratica un passo avanti rispetto alla risoluzione della scorsa settima. Spagna, Francia e Gran Bretagna avevano riconosciuto Guidò come presidente ad interim, l'Ue aveva semplicemente chiesto nuove elezioni. La mossa svedese avrebbe riallineato tutta l'Unione sulla linea contraria a Nicolas Maduro. In pratica, si vada a elezioni ma nel frattempo il presidente non sia più il dittatore di Caracas. D'altronde indire il voto sotto il controllo dell'esercito fedele al regime e senza la certezza di osservatori super partes sarebbe un buco nell'acqua. Sarebbe anche stato un passo decisivo di riavvicinamento alla politica americana che dal primo istante ha sostenuto il capo del Parlamento nel suo tentativo di far cadere una volta per tutte la dittatura chavista. Purtroppo la mozione non è passata. La Grecia si è astenuta e l'Italia ha messo il veto. Unica nazione nel Vecchio Continente a sfilarsi e a sostenere un governo anti democratico vicino a Russia, Iran e Cina. La prima domanda è perché una tale cosa sia accaduta. La prima risposta è il totale scollamento della componente grillina, di quella leghista e della diplomazia di carriera. Il leader dei 5 stelle, Luigi Di Maio, per motivi evidentemente elettorali (gran parte dei votanti grillini immagina un Venezuela statalista che non esiste in alcun modo) ha detto «nè con l'uno né con l'altro». Peccato che si sono momenti in cui bisogna schierarsi a tutti i costi. Capire se si sta con gli Usa o con la Russia. È ancor più ridicolo sostenere che Guaidò non è stato eletto. Come se Maduro fosse arrivato dove è con la democrazia e non con l'uso della forza, secondo uno schema avviato dal suo padrino Hugo Chavez a partire dal 2001. «Evidentemente c'è una scarsa conoscenza di ciò che sta accadendo. Invito il sottosegretario agli esteri a informarsi, un'altra Libia qui non è possibile», ha afferma Guaidò, rispondendo al Tg2 ad una domanda sulle parole di Manlio Di Stefano che, annunciando la contrarietà dell'Italia a riconoscerlo come leader venezuelano, ha invitato a evitare «lo stesso errore fatto in Libia». «Invitiamo l'Italia a fare la la cosa corretta perché i giorni qui si contano in vite che si perdono», ha detto Guaidò sottolineando l'importanza del riconoscimento da parte dell'europarlamento. D'altro canto, solo giovedì pomeriggio, Guglielmo Picchi, sottosegretario agli esteri in quiota Lega ha sentenziato: «La presidenza Maduro è finita» in questo modo sganciandosi dalla linea filo russa che negli anni scorsi (sembrano secoli) ha contraddistinto il Carroccio. Eppure quando c'è stato da tirare le fila, ancor auna volta le due anime del governo sono andate in frizione. C'è da scommettere che a trovare la sintesi toccherà a Enzo Moavero Milanesi con il sostegno di Sergio Mattarella. Anche perché la strategia Usa sembra essere quella di alzare la tensione e testare la fedeltà della Guardia Nacional a Maduro. In modo unilaterale Trump ha accettato la richiesta di Guaidò di spedire medicine e beni di prima necessità. Quando i container via terra arriveranno ai valichi troveranno i mezzi blindati inviati da Maduro. Basterà un morto per scatenare una eventuale ritorsione. E a quel punto qualunque mozione europea sarà carta straccia. Trump non attenderà certo un consesso indeciso e lontano migliaia di miglia per prendere una decisione vitale per il proprio orto di casa: l'Iran adesso va combattuto anche di sponda azzerando i Paesi che danno agli ayatollah rifugio ideologico. Negli ultimi mesi Roma si è schierata spesso con gli Usa e da Washington ha ottenuto grandi leve in Libia e pure in Egitto. Adesso che anche l'Ue su uno specifico tema è allineata a Trump, il governo italiano ancor meno può sottrarsi. Maduro rappresenta una dittatura. Guaidò una democrazia fallace. La scelta è scontata e persino opportuna in tema di geopolitica. Sta arrivando una recessione è bene che i 5 stelle capiscano che i vasi comunicanti servono. Eccome, se servono. Claudio Antonelli
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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